Primo
film di Diego Bianchi, detto “Zoro”, noto per la sua attività televisiva (in
questo periodo conduce il programma televisivo Gazebo, in onda la domenica
ed il lunedì in seconda serata su Rai3), realizzato lo scorso anno, Arance e martello costituisce un
microcosmo della situazione politica italiana. Se volessimo fare una fotografia
di quello che la sinistra è diventata in Italia, del rapporto tra “Popolo” e
“Partito”, delle dinamiche del Partito Democratico, delle sue divisioni
interne, sicuramente questo film sarebbe una fotografia nitida dello stato di
cose attuale.
Il
film è ambientato nel quartiere San Giovanni di Roma, in una calda giornata
d’agosto. Cuore pulsante del quartiere è il mercato rionale, in cui il
giornalista Diego Bianchi si reca per girare un documentario. Al mercato vi si
reca anche una coppia di coniugi, Trieste e Armando, che un tempo furono
militanti del Partito Comunista, e che oggi sono militanti del PD. Con figli e
altri giovani militanti del partito al seguito, armati di tavolino, seggiole
pieghevoli e volantini, sperano di raccogliere firme tra commercianti e
passanti per porre fine una volta per tutte all'impero di Silvio Berlusconi.
Non riscuoteranno molto successo. La vita del quartiere scorre tranquilla, fatta
di liti tra i commercianti, di personaggi divertenti e folkloristici come il
fruttivendolo specializzato in carciofi e devoto a Padre Pio, momenti di
“concorrenza sleale” tra due fruttivendoli, l’uno pachistano, l’altro indiano,
il primo romanista, il secondo laziale, le cui liti sono caratterizzate da una
strana commistione di questioni calcistiche, persuasione dei clienti a comprare
i propri prodotti piuttosto che quelli del concorrente e riflessioni
sull'imperialismo inglese in India. Degne di nota le pescivendole che utilizzano
come attrattiva per i clienti tabù di matrice freudiana: consapevoli che ogni
cosa a questo mondo rimanda al fallo, maneggiano il pesce in modo da suscitare
le più profonde fantasie erotiche degli acquirenti; per questo, i loro
concorrenti dirimpettai le definiscono “mignotte”. Ad interrompere la routine,
un messaggio comunicato dalla radio locale, Radio Carbonara Sushi, perché
elegante e delicata, ma anche “de panza e de sostanza”: l’amministrazione
locale annuncia la chiusura del mercato rionale il prossimo 15 settembre per la
costruzione di un parcheggio sotterraneo. A questo punto si entra nel vivo del
film: i mercanti si rivolgono a quei militanti che avevano poco prima ignorato
e disprezzato, i membri della sezione decidono di mettere ai voti la linea che
il partito intende seguire, i risultati delle votazioni sono incerti e oggetto di molteplici interpretazioni. Di fronte all'indecisione del partito, i mercanti
decidono di occupare la sezione e di tenere con sé alcuni militanti come
ostaggi; questi finiscono con il solidarizzare con la causa dei
commercianti, arriva la polizia, i giornalisti, il sindaco (siamo nell' “epoca”
della giunta Alemanno), arrivano i fascisti che discutono sull'ipotesi di
bruciare la sede del PD, in modo da sabotare la protesta. Il tutto si
conclude con l’incendio della sede, causato però da un incidente: irrompe la
polizia, cominciano gli scontri, e alla fine un commerciante viene ferito. Gli
ostaggi e gli scioperanti vengono arrestati, la videocamera di Bianchi, con cui aveva
filmato il documentario che lo avrebbe condotto al successo, si rompe, e addio sogni di gloria.
Questo
film è densissimo di elementi che fanno pensare, le parole sono semplici e ben
ponderate, ogni scena emblematica, il significato delle cose è concreto e
tangibile. Per questo sceglierò soltanto alcuni aspetti su cui soffermarmi,
quelli che a mio avviso sono i più interessanti.
Potremmo
cominciare delineando lo schema del film: qui Bianchi ci descrive due mondi, quello del
mercato e quello del partito. I due momenti principali in cui emergere la
riflessione del partito su se stesso sono quello in cui i due coniugi discutono
in casa, e quello in cui viene convocata un’assemblea nella sezione per
decidere del destino del mercato rionale: nella prima scena, Armando contesta a
sua moglie l’utilità, la necessità di raccogliere firme per cacciare Berlusconi.
Se non lo hanno fermato i processi, i continui scandali, perché dovrebbe
fermarsi di fronte ad una petizione? Trieste risponde che così ha deciso il
partito. Ma veramente credi che il PD sia il partito? “Fino a prova contraria,
almeno qui in casa siamo comunisti”, dice suo marito. Si mette in discussione
innanzitutto l’iniziativa, a dir poco ridicola, del partito, e soprattutto, si
mette in discussione la filiazione diretta PCI-PD, filiazione che ha subito
mutazioni genetiche abbastanza considerevoli. Nella seconda scena, quella
dell’assemblea, sono diversi i punti interessanti: innanzitutto, la modalità di
voto. Chi vota? Solo i militanti o tutti i presenti? Si decide che tutti i
presenti, iscritti e non, possano parlare e votare. Bisogna però rispettare i
“tempi europei”: ognuno può parlare solo per cinque minuti, come a Strasburgo.
Un vecchio militante chiede come sia possibile render conto della complessità
di una situazione in cinque minuti. Ma bisogna decidere, e decidere in fretta.
Il risultato delle elezioni è emblematico: la maggioranza relativa sostiene la
causa dei commercianti, ma tra schede nulle e indecisi, il risultato non può
essere considerato netto e preciso. Alla fine, la compagna Trieste si recherà
dai commercianti a dire che il partito “ha deciso di non decidere”. Due mondi
completamente distanti, che non si comprendono: i commercianti disprezzano i
militanti, e i militanti disprezzano questi zoticoni che per vent'anni hanno
votato Berlusconi e leccato il culo ai padroni, guardando i comunisti come dei mostri.
Nel
mercato emerge soprattutto la questione dell’integrazione: il salumiere si
rifiuta di vendere ad un mercante ambulante pachistano una bibita, partono gli
insulti e la lite. Gli esercenti non hanno nessun amore per la politica:
vogliono che i militanti del PD che occupano spazio con questa cazzata delle
firme, se ne vadano per non ostacolare il loro commercio. Ma quando si annuncia
l’imminente chiusura del mercato, uno dei commercianti chiederà ad un’arancia:
“Ma dov'è la politica?”, e allora tutti all'assalto della sede del PD, a
chiedere ai militanti di aiutarli, se davvero vogliono “radicarsi sul
territorio”.
Sembra
che politica e “popolo” finché tutto va bene, finché si tira a campare, non
abbiano bisogno l’uno dell’altro, si tollerano a malapena, si disprezzano. I
militanti sembrano fare politica per una strana forma di egocentrismo, non
hanno nessun amore per quella gente in nome della quale dicono di combattere.
Sembrano dei pastori, dei predicatori che parlano da un pulpito. E dall'altro,
la gente pensa che la politica sia qualcosa che sta nelle sedi dei partiti, o
nei palazzi della “casta” e che non li riguardi. Non vogliono la politica,
vogliono lavorare e guadagnare. Loro sono gente concreta, che non può perdere
tempo in chiacchiere. Ma quando qualcosa va male, è alla politica che si
rivolgono, perché capiscono che nient’altro può aiutarli: quando c’è un male
che colpisce tutti, un dolore e una paura, solo nella sfera politica si può
dare forma ed espressione alle proprie paure, trasformarle in azione. Soltanto
nel partito, luogo fisico ed ideale, si può cercare di rivendicare i propri
diritti. Se i membri del partito non sanno decidere, o non vogliono, chi ne ha
bisogno deve prendersi il partito, deve impossessarsi di quei pochi strumenti
che una democrazia offre per dar voce alle proprie esigenze.
Una
figura emblematica è quella del sindaco: un fascista ripulito, opportunista ed
ipocrita. Quando giunge davanti alla sede occupata del PD, lo ferma uno dei
ragazzini fascisti e gli dice “Io sono come te!”, mostrandogli la croce
celtica. Lui rifugge il suo sguardo, imbarazzato. Ma, nel momento in cui i
fascistelli armati di benzina e accendini, con il volto coperto, tentano di far
saltare in aria la sede del partito, mentre i poliziotti cercano di fermarli,
il sindaco li lascia passare, sostenendo che li conosce e che sono bravi
ragazzi. Un riferimento per nulla velato alla strategia del terrore…
Importante
è anche il ruolo dell’informazione. Ad un certo punto arriva un giornalista Rai
ad occuparsi della faccenda. È un povero emarginato, il quale, per aver cercato
in precedenza di descrivere con spirito lucido e critico quello che vedeva, era
ormai considerato come un appestato nel suo ambiente lavorativo. Se vuole lavorare deve adeguarsi alla linea: allora, nel descrivere l’evento, comincia a
porre l’accento sulla presenza di immigrati clandestini, sull'allarme
terrorismo, sulla sicurezza dei cittadini. La manipolazione dell’informazione
per motivi ideologici, la questione del potere nella comunicazione, è un tema
che meriterebbe un approfondimento che per ragioni di spazio e tempo non posso fare.
Altro
momento fondamentale del film è lo scontro finale tra gli occupanti e la polizia:
la poliziotta all'inizio cerca di avere un atteggiamento moderato, cerca il
dialogo con i manifestanti. Tira in ballo Pasolini, il solito Pasolini, “che
avrebbe potuto tacere invece di dire cazzate! S’è pure inventato il mestiere
dell’opinionista!” Esauriti gli argomenti, la polizia comincia a menare, e
l’avventura dei nostri eroi (“Ma vorranno davvero essere eroi?” si chiede lo
speaker di Radio Carbonara Sushi) si conclude con un duro atto di repressione.
Come
potete ben vedere, i temi sono tanti e tutti molto complessi: Bianchi decide di
fare una carrellata generale di quegli aspetti che caratterizzano la politica
italiana, l’informazione, il rapporto tra giovani e politica, il rapporto tra "popolo" e politica. Non manca la riflessione storica, che nasce dal commento
delle fotografie affisse al muro della sede del PD: da Gramsci a Togliatti, da
Che Guevara a D'Alema e Bersani, da Berlinguer a Francesco Totti! Con un
linguaggio semplice e ironico, con frasi schiette in dialetto romanesco, con
poche battute, questo film riesce a dire molto. Questo è, secondo me, il
merito fondamentale di Bianchi. Il regista ha saputo realizzare un film che può
essere definito popolare nel senso positivo del termine: è un film indirizzato
non ad un' elité di intellettuali e radical chic, eppure non è un film stupido
e superficiale. Non è facile coniugare le due cose, perché a volte per film
“popolare” si intende un film spazzatura, che ha come unico obiettivo quello di
fare cassa, di ottundere le menti di chi va al cinema a “distrarsi”, quando la
nostra esigenza primaria sarebbe quella di concentrarci sulle cose, di
riflettere, dato che un intero apparato si muove per farci distrarre
continuamente.
Ma
voglio concludere con una nota polemica: non mi è piaciuta la presenza di un
personaggio decisamente ingombrante e superfluo nell'economia del film, il culo
femminile. Non mi è piaciuta l’inquadratura di un bellissimo fondoschiena che
cammina per le vie del mercato e che poi scopriamo appartenere ad una
bellissima ragazza, e perfino colta, una ricercatrice. Che le femmine non piacciano solo a
Berlusconi, ma anche ai virili compagni del Partito Democratico è una cosa che
non c’era bisogno di sottolineare, perché lo sappiamo, e perché, in fondo, non ce ne può “fregà de meno”.
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