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giovedì 8 gennaio 2015

"La nuvola di smog", Italo Calvino

«Nel cortile gli sguatteri rotolavano i fusti della birra. La signorina Margariti dal buio delle sue stanze attaccò un chiacchierio interrotto da brevi scoppi di risa, come se avesse visite. Il coinquilino scoppiò in un'imprecazione meridionale. Io ero a piedi nudi sulle piastrelle del corridoio e dall'altro lato del filo la voce appassionata di Claudia mi tendeva le mani e io cercavo di correrle incontro con la mia balbuzie ma ogni volta che stavamo per gettare un ponte tra noi dopo un momento andava in briciole e l'urto delle cose stritolava e smentiva a una a una tutte le parole d'amore.»

La nuvola di smog è l'immagine di un sudiciume che dai pori della pelle si insinua fino a incrostare il sentimento, intaccare il pensiero: la sporcizia che rende il luogo inospitale si fa nevrosi, bisogno isterico di lavare continuamente le mani, fissazione che la polvere possa depositarsi su qualunque cosa. È così che quando Claudia, la donna amata, stende sul letto il suo corpo bianco e nudo, il protagonista le sfiora il seno con la mano, non per accarezzarla, ma solo per togliere la polvere depositata in quei pochi istanti di nudità.

Lo straniero che viene a vivere in città entra traslocando in una nuvola di smog, che si struscia sul paesaggio, lo impregna del suo grigiore, della sua polvere capace di insinuarsi in ogni orifizio, di velare ogni superficie. Chi vive nella nuvola di smog non la vede ma ne vive la pesantezza, il grigiore, l'essere stantio e sporco. Lo straniero inizia a lavorare per l'EPAUCI, istituzione che si propone di risolvere il problema dello smog e che gli commissiona articoli ottimisti ma non ingenui, accusatori ma non disperati. Il problema dell'inquinamento: lo risolveremo, lo risolveremo? Lo risolviamo? Lo risolviamo. Lo risolveremo? Lo stiamo risolvendo. Mille formule cancellate e riscritte per concludere un articolo scritto per forza, per lavoro, senza amore, come senza amore viene vissuta la nuova città. I rumori dell'osteria Urbano Rattazzi sotto casa, la presenza fantasmatica della sorda signora Margariti, la camera squallida dove la biancheria di organza e seta di Claudia stona tanto da dover essere nascosta nei cassetti appena sfilata da dosso: molecole di smog che strisciano tra la terra e la cappa irrespirabile, che chiudono il protagonista in un mondo sporco e triste, estraneo eppure, per un caso della vita, momentaneamente suo.
Da fuori, dalla collina, volgendo lo sguardo alla città si vede la nuvola di smog: la si vede che incombe sulle costruzioni, tra le altre nuvole ma diversa, inconfondibile. Claudia non la riconosce, col suo sguardo di transito. Lei può entrare nella nuvola, nella città, e riuscirne l'indomani linda e inconsapevole. Ma chi abita nella nuvola, chi ogni giorno vive la città polverosa, non ne può fuggire: non può lavare la polvere via dalle mani e dai colletti, dal dorso dei libri, dal piano opaco della scrivania in redazione. Chi vive nella nuvola vive di quella, la combatte ma ne è avvinta intimamente, solo di essa gli importa.
La nuvola di smog è il male di vivere che tormenta, consapevolmente o inconsapevolmente, e si nasconde in ogni piega del nostro vissuto. Strisciante, mellifluo, in un modo malinconico perfino piacevole: la tristezza di un Paese familiare ed estraneo, di un'epoca strangolante e smisurata, di un progresso che si rivela come stasi nell'inautenticità quando non regresso. Lo smarrimento attonito dell'uomo moderno, quello che percorre come una filigrana le opere di Calvino, dalla trilogia I nostri antenati a La giornata di uno scrutatore. È il racconto sottile e cristallino di una vita polverosa, come quella dei nostri antenati, come la nostra.

«In questi giri mi resi conto dell'esistenza d'un seguito di stanze di soggiorno, salotti, tinelli, tutti ingombri d'un mobilio vecchiotto e pretenzioso, con abat-jours e soprammobili e quadretti e statuine e calendari, ed erano stanze tutte in ordine, puliste, lustre di cera, con candidi pizzi sulle poltrone, senza neanche un granello di polvere. [...]
Io tornavo nella mia camera, e a vedere la mensola del lavabo o il paralume con un dito di polvere mi prendeva una gran rabbia: quella donna passava la giornata a tener lucide come specchi le sue stanze e da me non era buona a dare neanche un colpo di straccio. Andavo di là, deciso a fare una scenata, a gesti e a smorfie; e la trovavo in cucina, e questa cucina era tenuta peggio ancora di camera mia: con l'incerato del tavolo logoro e macchiato, tazze sporche sul piano della credenza, le mattonelle sconnesse e annerite. Io restavo senza parola, perché capivo che la cucina era il solo luogo di tutta la casa in cui quella donna veramente vivesse, e il resto, le stanze adorne e continuamente spazzolate e incerate erano una specie di opera d'arte, in cui lei riversava tutti i suoi sogni di bellezza, e per coltivare la perfezione di quelle stanze si condannava a non viverci, a non entrarci mai come padrona ma solo come donna di fatica, e il resto della giornata a passarlo nell'unto e nella polvere.»

venerdì 19 luglio 2013

"Palomar" di Italo Calvino

Calarsi nella lettura di questa raccolta di racconti, è come tessere assieme all'autore la trama di una lunga riflessione intorno alla verità come frutto di interpretazione. Perché di questo si parla: interpretazione come disvelamento, come incomprensibilità linguistica e ontologica, come ricerca di un significato latente. 
Il protagonista di tutti i racconti, Palomar, non è un uomo loquace. Assenza di parole, però, non è da intendere come sterilità intellettuale: egli si rifugia in un mondo tutto suo, un mondo che ai rapporti interpersonali sostituisce la domanda sul senso che le cose, nel loro apparire, sottintendono. 

«Un silenzio, in apparenza uguale a un altro silenzio, potrebbe esprimere cento intenzioni diverse; anche un fischio, d'altronde, parlarsi tacendo, o fischiando, è sempre possibile; il problema è capirsi. Oppure nessuno può capire nessuno [...]»

È un affanno maniacale quello che lo accompagna nelle quotidiane osservazioni e speculazioni: la classificabilità di un filo d'erba, la coesione di movimenti simultanei negli sbalzi delle onde, l'incertezza dello sguardo di fronte ad una bagnante col seno scoperto diventano occasioni per ripensare le connessioni tra l'io e il mondo, tra una presunta oggettività e una invalicabile soggettività, tra una realtà inemendabile e una irrealtà incerta. La portata di questo viaggio esistenziale e intellettuale è il dissidio tra un'ontologia schiacciante e una ermeneutica scomoda, ma necessaria. «Non interpretare è impossibile, come è impossibile trattenersi dal pensare.»

«Il riflesso sul mare si forma quando il sole s'abbassa: dall'orizzonte una macchia abbagliante si spinge fino alla costa, fatta di tanti luccichii che ondeggiano; tra luccichio e luccichio, l'azzurro opaco del mare incupisce la sua rete. Le barche bianche controluce si fanno nere, perdono consistenza ed estensione, come consumate da quella picchiettatura risplendente. È l'ora in cui il signor Palomar, uomo tardivo, fa la sua nuotata serale. Entra in acqua, si stacca dalla riva, e il riflesso del sole diventa una spada scintillante nell'acqua che dall'orizzonte s'allunga fino a lui. [...] la spada esiste solo perché lui è lì; se lui se ne andasse, se tutti i bagnanti e i natanti tornassero a riva, o solo voltassero le spalle al sole, dove finirebbe la spada?»


Palomar è, dunque, un osservatore attento: miope, si concentra sui dettagli chiaramente distinguibili da vicino. «È come un palombaro che s'immerge nella superficie». «Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, - conclude, - ci si può spingere a cercare quel che c'è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile.»

Irriducibilità delle interpretazioni, quindi, ma anche progresso in negativo verso una non-verità: le porte che il signor Palomar apre sono porte che rimangono aperte, l'una dietro l'altra, senza una fine. 
Questa capacità dello sguardo è ciò che forma il protagonista non solo nella sua essenza, ma forse anche nel nome, riconducibile all'osservatore astronomico di Mount Palomar, negli Stati Uniti. Sono in molti a pensare che Palomar sia, in realtà, l'alter ego di Calvino. 


«Ma come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l'io? Di chi sono gli occhi che guardano? Di solito si pensa che l'io sia uno che sta affacciato ai propri occhi come al davanzale d'una finestra e guarda il mondo che si distende in tutta la sua vastità lì davanti a lui. Dunque: c'è una finestra che s'affaccia sul mondo. Di là c'è il mondo; e di qua? Sempre il mondo: cos'altro volete che ci sia? Con un piccolo sforzo di concentrazione Palomar riesce a spostare il mondo da lì davanti e a sistemarlo affacciato al davanzale. Allora, fuori dalla finestra, cosa rimane? Il mondo anche lì, che per l'occasione s'è sdoppiato in mondo che guarda e mondo che è guardato. E lui, detto anche «io», cioè il signor Palomar? Non è anche lui un pezzo di mondo che sta guardando un altro pezzo di mondo? Oppure, dato che c'è mondo di qua e mondo di là della finestra, forse l'io non è altro che la finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondo. Per guardare se stesso il mondo ha bisogno degli occhi (e degli occhiali) del signor Palomar.»

Se la lettura procede spedita è grazie allo stile indistinguibile dello scrittore, uno stile chiaro (specie nei capitoli con riferimenti puntuali all'astronomia), ma avvincente. La raccolta sembra essere un'amalgama di tutte quelle doti che hanno reso Calvino un esempio per la letteratura successiva. Si tratta di eleganza, cultura, originalità, precisione, eclettismo mai arbitrario.
Ulteriori informazioni sul libro ci vengono fornite da Italo Calvino in persona, in una nota esplicativa: ogni cifra che numera i titoli dell'indice non è semplicemente utilizzata per una questione di ordine, ma corrisponde a una area tematica. Con le parole dello scrittore: 


«Le cifre 1, 2, 3, che numerano i titoli dell'indice, siano esse in prima, seconda o terza posizione, non hanno solo un valore ordinale ma corrispondono a tre aree tematiche, a tre tipi di esperienze e di interrogazione che, proporzionati in varia misura, sono presenti in ogni parte del libro.
Gli 1 corrispondono generalmente a un'esperienza visiva, che ha quasi sempre per oggetto forme della natura: il testo tende a configurarsi come una descrizione.
Nei 2 sono presenti elementi antropologici, culturali in senso lato, e l'esperienza coinvolge, oltre ai dati visivi, anche il linguaggio, i significati, i simboli. Il testo tende a svilupparsi in un racconto.
I 3 rendono conto di esperienze di tipo più speculativo, riguardanti il cosmo, il tempo, l'infinito, i rapporti tra l'io e il mondo, le dimensioni della mente. Dall'ambito della descrizione e del racconto si passa a quello della meditazione.
»

mercoledì 26 giugno 2013

"Il sentiero dei nidi di ragno" di Italo Calvino

Scritto all’indomani della guerra, Il sentiero dei nidi di ragno è la testimonianza che Italo Calvino rende della sua esperienza partigiana e induce inevitabili riflessioni sulle emozioni e sul senso di quanto accadde in «un Paese diviso, più nero nel viso, più rosso d’amore» (per usare le belle parole di Rino Gaetano). Certamente, la lotta fratricida che ha insanguinato il nostro Paese e ne ha dilaniato la coscienza in quegli anni doveva essere raccontata, e la cosa fu da subito evidente per i suoi protagonisti. Nella presentazione al libro, Calvino scrive:

«Questo romanzo è il primo che ho scritto […]. Al tempo in cui l’ho scritto, creare una “letteratura della Resistenza” era ancora un problema aperto, scrivere “il romanzo della Resistenza” si poneva come un imperativo; […] ogni volta che si è stati testimoni o attori d’un’epoca storica ci si sente presi da una responsabilità speciale […]. A me, questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema come troppo impegnativo e solenne per le mie forze. E allora, proprio per non lasciarmi mettere in soggezione dal tema, decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto dagli occhi d’un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi. Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo…»

Nasce dunque da questa esigenza la struttura narrativa del libro, che attraverso le vicende di Pin lancia uno sguardo come in tralice alla Resistenza. Il ragazzino è un protagonista tutt’altro che prevedibile, tutt’altro che eroico, tutt’altro che classico: è un ruffianello, fratello della puttana più famosa del circondario. Orfano di madre e abbandonato dal padre, cresciuto tra gli uomini dell’osteria, bevitori, bontemponi e talvolta spietati, disprezzato dagli altri bambini e profondamente solo, il piccolo Pin si ritrova per caso nel mezzo della guerra partigiana. Finisce invischiato in “gap” e marce notturne tra i boschi della Liguria in seguito al furto di una pistola ad un marinaio tedesco, commissionatogli dagli amici dell’osteria, che in un modo confuso e discontinuo sono attirati dalla causa della Resistenza e tentano di muovere i primi passi in quella direzione. Pin sottrae l’arma al tedesco, un cliente della sorella, e poi nasconde la preziosa refurtiva sul sentiero dei nidi di ragno, il suo posto segreto, quello che solo lui riconosce tra le scarpate, i canali e i campi, e che un giorno mostrerà al suo primo e unico vero amico.
Il furto viene scoperto, Pin viene catturato e interrogato dai fascisti, viene fatto prigioniero. In galera conosce Lupo Rosso, un partigiano giovane e accattivante, che riesce ad evadere con l’aiuto del piccolo e lo porta con sé. Dalla loro fuga rocambolesca si snocciolano gli episodi, gli eventi e soprattutto i ritratti di un’epoca fotografata da Calvino nella sua dimensione più umana, meno eroica, più vera e suggestiva. Quello che l’autore voleva assolutamente evitare, infatti, era contribuire a quella che sarebbe stata una letteratura in qualche modo falsata della Resistenza, quella che avrebbe indicato i partigiani come degli eroi senza macchia e senza paura, trascurandone difetti e debolezze, allontanando la letteratura dal suo valore di testimonianza per farne uno strumento di retorica e indottrinamento acritico e astorico. Scrive Calvino, sempre nella presentazione, che Il sentiero dei nidi di ragno nacque come un vero e proprio atto di protesta.

«Contro chi? Direi che volevo combattere contemporaneamente su due fronti, lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata.[…] Il pericolo che alla nuova letteratura fosse assegnata una funzione celebrativa e didascalica, era nell’aria: quando scrissi questo libro l’avevo appena avvertito, e già stavo a pelo ritto, a unghie sfoderate contro l’incombere d’una nuova retorica. […] La mia reazione d’allora potrebbe essere enunciata così: “Ah, sì, volete ‘l’eroe socialista’? Volete il ‘romanticismo rivoluzionario’? E io vi scrivo una storia di partigiani in cui nessuno è eroe, nessuno ha coscienza di classe. […] E sarà l’opera più positiva, più rivoluzionaria di tutte! Che ce ne importa di chi è già un eroe, di chi la coscienza ce l’ha già? È il processo per arrivarci che si deve rappresentare! Finché resterà un solo individuo al di qua della coscienza, il nostro dovere sarà di occuparci di lui e solo di lui!”»

È per questo, per combattere «la battaglia sul secondo fronte, quello interno alla “cultura di sinistra”», che Calvino sceglie come protagonisti i peggiori partigiani immaginabili e anche le figure secondarie (gli uomini dell’osteria, i paesani, lo stesso Pin) sono pressappoco disonorevoli e ben lontane dalla paventata “agiografia” di cui parla Calvino: ci sono voltagabbana, che alla prima occasione passano alla Brigata Nera; c’è chi combatte contro i fascisti solo per amore delle armi o per il gusto di battaglie e rastrellamenti; qualcuno combatte per le mucche che gli sono state portate vie, ignorando qualunque ideale patriottico o politico; c’è il cuoco estremista che non risulta più rispettabile o credibile dei contadinotti che di politica non sanno niente e quasi non vogliono sentir parlare; c’è Lupo Rosso, che si dà un sacco di arie; il Dritto, il comandante, è un ragazzo alla deriva, svogliato e disperatamente alla ricerca di una morte violenta. Lo stesso Pin si unisce ai partigiani senza avere la minima coscienza del significato storico del suo gesto, e vive la sua esperienza della Resistenza come una strana avventura da cui ricavare la stima dei grandi, del divertimento e forse qualche buon amico (che troverà nel Cugino, un uomo semplice e misogino, assassino e solitario).
Oltre all’impianto narrativo, che si sviluppa in modo obliquo e parziale dal punto di vista di un bambino che non ha coscienza di quanto accade, non sa né comprende tutto, anche la scelta dei personaggi è dunque funzionale al particolare scopo di Calvino: raccontare la Resistenza senza la pretesa di evangelizzare o indottrinare tramite suggestioni lacrimevoli o elogi al limite del falso storico. Il risultato è di straordinario valore, oltre che di grande delicatezza: anche la battaglia è raccontata non dal luogo dello scontro ma dal campo, e alle orecchie di Pin arrivano i suoni lontani dei colpi e poi i canti vittoriosi. Eppure, per quanto schermata dalla distanza e dall’incoscienza, la battaglia c’è stata e arriva al lettore chiara e forte la testimonianza di essa. Straordinario, un’interruzione nel flusso narrativo del libro ma certamente il suo perno e snodo fondamentale, è il capitolo IX, costituito quasi esclusivamente dal monologo del commissario di brigata, Kim (che tra l’altro possiede, significativamente, il nome del protagonista dell’omonimo libro di Rudyard Kipling, il romanzo che da bambino conquistò Calvino ai piaceri della letteratura): attraverso le sue parole, emerge il valore storico e soprattutto umano della Resistenza reale, quella vissuta dagli uomini concreti animati dai loro particolari bisogni e interessi, diversi dagli “eroi socialisti” che sarebbero stati falsi e meno significativi e che avrebbero ricondotto ad un’inconsistente e fasulla «patria fatta di parole». Kim si interroga su cosa spinga uomini diversi per estrazione sociale, cultura e obiettivi a rischiare la vita sui monti, tra gli stenti e i pidocchi, e soprattutto si chiede perché e in cosa un partigiano sia diverso da un fascista. La riflessione di Kim riempie della pagine bellissime che meritano di essere lette per intero, e che parlano di coraggio, sacrificio e del vero valore della Resistenza: il suo significato autentico di riscatto umano,

«elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.»



Vi lasciamo con la bella canzone dei Modena City Ramblers, Il sentiero, ispirata a questo imperdibile romanzo e contenuta nell'album Appunti partigiani.


lunedì 25 febbraio 2013

"Se una notte d'inverno un viaggiatore" di Italo Calvino

«Il romanzo che più vorrei leggere in questo momento, - spiega Ludmilla, - dovrebbe avere come forza motrice solo la voglia di raccontare, d'accumulare storie su storie, senza pretendere d'importi una visione del mondo, ma solo di farti assistere alla propria crescita, come una pianta, un aggrovigliarsi come di rami e di foglie...»

Il libro è una trama di universi che si avvinghiano, si incrociano, si attorcigliano. E si mescolano, finendo per coincidere e dilatarsi. Il romanzo che recensisco è un avviluppo di frequenze che si sovrappongono, portando in auge l'unico vero protagonista di ogni romanzo: l'atto stesso di leggere. Tu, lettore, «sei sempre uno dei tu possibili». "Se una notte d'inverno un viaggiatore" è una rincorsa che si lascia alle spalle le ambiguità di spazio e tempo, per riesumare qualcosa di simile ad un "mondo illeggibile, senza centro, senza io". Attraverso il libro, il non-tempo diventa tempo e la luce fioca di un'idea diventa faro nella notte. Italo Calvino non si smentisce: ogni frase che sorregge l'impianto del romanzo trasuda una genialità mai costruita. Il lettore (o forse dovrei chiamarlo il protagonista?) entra in questo claustrofobico mondo di incroci attraverso una cartina geografica che sottende misteriose viuzze. Come in due specchi che si riflettano, il libro sembra proiettarsi all'infinito verso il suo centro, senza mai raggiungere l'orizzonte. Eppure lo sfiora, come un centro di gravità permanente che risveglia passaggi nascosti dell'individuo che legge e a cui lo scrittore si rivolge, come coperto da un velo.


«- Il libro che cerco, - dice la figura sfumata che protende anche lei un volume simile al tuo, - è quello che dà il senso del mondo dopo la fine del mondo, il senso che il mondo è la fine di tutto ciò che c'è al mondo, che la sola cosa che ci sia al mondo è la fine del mondo.»

È il tu impersonale a diventare protagonista: la corsa contro il tempo è la corsa di ciascun lettore verso l'ultima pagina del libro, in cui la tensione tra romanzi possibili e romanzi divenuti si scioglie. Il lettore-protagonista si ritrova in mano dei libri di cui riesce a leggere solo l'apprezzabile inizio e la sua corsa è una corsa alla ricerca delle parti non-lette, di quelle parti che consentirebbero una completa fruizione della trama.

L'espediente narrativo è quello di interrompere la narrazione nel punto di massima trepidazione, inserendo magistralmente, attraverso la concatenazione di imprevisti e di coincidenze, inizi di nuovi romanzi invece che la continuazione di quelli vecchi. La storia nella storia provoca uno spasmodico desiderio di completezza che, pur rimanendo inappagato, riesce a tessere l'elogio dell'intimo rapporto che vige tra scrittore e lettore. Il romanzo è l'altare della scrittura, ma anche del non-scritto, del celato. "Un particolare riverbero di ciò che è scritto" sembra quasi scrostare il calcare dell'invisibile per dare finalmente posto all'immaginario, al latente. 

«Volare è il contrario del viaggio: attraversi una discontinuità dello spazio, sparisci nel vuoto, accetti di non essere in nessun luogo per una durata che è anch'essa una specie di vuoto nel tempo; poi riappari, in un luogo e in un momento senza rapporto col dove e col quando in cui eri sparito. Intanto cosa fai? Come occupi quest'assenza tua dal mondo e del mondo da te? Leggi; non stacchi l'occhio dal libro da un aeroporto all'altro, perché al di là della pagina c'è il vuoto, l'anonimato degli scali aerei, dell'utero metallico che ti contiene e ti nutre, della folla passeggera sempre diversa e sempre uguale.»»

Il rapporto tra ciò che è scritto e ciò che non è scritto si snoda intorno alla mistificazione, all'indistinguibilità tra il vero e il falso. La finzione letteraria finisce per identificarsi con quanto di più reale ci sia: il lettore si ritrova vittima di un'organizzazione che semina confusione tra i nomi dei libri, i loro autori, le traduzioni, le edizioni. Cervello dell'articolata congiura è il traduttore-contraffattore Ermes Marana. Non è al denaro o al potere che ambisce, bensì a riconquistare la protagonista femminile, la lettrice Ludmilla. «Per questa donna (...) leggere vuol dire spogliarsi d'ogni intenzione e d'ogni partito preso, per essere pronta a cogliere una voce che si fa sentire quando meno ci s'aspetta, una voce che viene non si sa da dove, da qualche parte al di là del libro, al di là dell'autore, al di là delle convenzioni della scrittura: dal non detto, da quello che il mondo non ha ancora detto di sé e non ha ancora le parole per dire. Quanto a lui, invece, voleva dimostrarle che dietro la pagina scritta c'è il nulla; il mondo esiste solo come artificio, finzione, malinteso, menzogna. (...) Non era pazzia la sua; forse solo disperazione; la scommessa con la donna era perduta da un pezzo; era lei la vincitrice, era la sua lettura sempre incuriosita e sempre incontentabile che riusciva a scoprire verità nascoste nel falso più smaccato, e falsità senza attenuanti nelle parole che si pretendono più veritiere.»

Qualsiasi rapporto ci sia tra il vero e la finzione, la lettura è esattamente qualcosa al di qua della stessa distinzione tra il vero e il falso. La lettura è soggettiva, potremmo dire, proprio perché né vera né falsa. 
In un mondo fin(i)to, leggere è l'àncora a cui reggersi.

«Siamo in un paese in cui tutto quel che è falsificabile è stato falsificato: quadri nei musei, lingotti d''oro, biglietti degli autobus. La controrivoluzione e la rivoluzione combattono tra loro a colpi di falsificazione; il risultato è che nessuno può esser sicuro di ciò che è vero e di ciò che è falso, la polizia politica simula azioni rivoluzionarie e i rivoluzionari si travestono da poliziotti.»

venerdì 15 febbraio 2013

Cantacronache 1958-1962

  

Un'esperienza musicale e culturale italiana, forse poco conosciuta, forse troppo breve, troppo "rossa" per essere abbracciata da un vasto pubblico; eppure l'esperienza di "Cantacronache" è stata decisiva per la storia del cantautorato italiano: questa esperienza precede cronologicamente e non solo, quella che sarà l'opera di artisti come De Andrè, Guccini, Gaber e tutti gli altri cantautori, famosissimi e molto amati.
Decisiva perchè "Cantacronache", gruppo fondato a Torino nel 1957 da Sergio Liberovici e Michele Straniero, è stato un progetto ambizioso e rivoluzionario: nell'epoca della canzonetta sanremese, espressione di un'Italia piccolo borghese, che vuole lasciarsi alle spalle gli anni bui del fascismo e della guerra, rifugiandosi nel mondo dei consumi, nella spensieratezza dell'oblio della memoria, nell'indifferenza rispetto ai problemi sociali, alle contraddizioni politiche della nazione ricostruita, questi musicisti e letterati assumono come obiettivo principale della loro arte quello di "Evadere dall'evasione".Collaborano a questo progetto, non soltanto musicisti e cantautori, ma anche letterati come Italo Calvino, il quale scriverà i testi di brani come Dove vola l'avvoltoio e Oltre il ponte, Umberto Eco, affascinato dal progetto di fare della musica un impegno, non soltanto "canzonette". Questo progetto, a mio avviso, segna l'inizio dell'eterna lotta tra due anime della musica italiana: quella commerciale, sanremese per antonomasia, più svampita che spensierata, e quella impegnata, vicina non soltanto ai temi sociali, ma all'Uomo nella sua totalità e autenticità. L'eterna lotta tra il "Chi non lavora non fa l'amore" di Celentano e il "Ma non si sdegni la brava gente, se nella vita non riesco a far niente" di De Andrè. L'eterna lotta tra chi cerca di guardare alle cose senza filtri, e chi invece, preferisce non pensare, non agire, lasciare che la barca vada (parafrasando Orietta Berti) senza fare nulla, passivamente, distraendosi con facili ritornelli orecchiabili e canticchiabili. Per me l'arte è prendere posizione rispetto alla realtà, è scorrettezza politica, ed è questo che io ammiro di questo gruppo di artisti.
In pieno Festival di Sanremo, vi lascio con alcuni versi della canzone di Fausto Amodei, Il ratto della chitarra, attuale e valida per chiunque, perchè credo che ad un certo punto della vita, tutti arriviamo al bivio "Ambizione o Ideale": restare saldi ai propri principi o rinunciare e seguire il proprio vantaggio? L'arte non ci può salvare, ma almeno, può aiutare ad essere più consapevoli...

...Cantava senza paura
dei versi un poco insolenti
in barba alla censura,
contro i padroni e i potenti
era alle volte estremista,
e la sua grande ambizione
era di accompagnare la musica
della rivoluzione

La chitarra ripulita
ben lavata ed elegante
sarà spinta a far la parte
di chitarra benpensante
per seguire la corrente,
per salvarsi un po' la faccia
d'ora in poi dovrà evitare
di dir qualche parolaccia

Mi vorrei proprio sbagliare
ma so già che il rapitore
porterà la mia chitarra
sulla via del disonore
prostituta e svergognata
un bel dì la sentiremo
a suonar sui marciapiedi
le canzoni di Sanremo...

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