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venerdì 17 maggio 2019

"Verso un forse" di Stefano Di Ubaldo

Mi perdoni Stefano Di Ubaldo se mi appresto solo ora, dopo mesi di silenzio, alla lettura della sua fresca ma amara raccolta di poesie edita da una piccola casa editrice di Palermo. Il mio ritorno in questo spazio di condivisione è sancito, non a caso, dalla presentazione di un giovanissimo poeta: lecchese classe 93 (e dotato di una incredibile pazienza, visto il mio ritardo nel recensire la sua opera), Stefano Di Ubaldo ci invita a sederci alla tavola della poesia in maniera del tutto democratica, aprendoci le porte della propria intimità, alla stregua di un pittore che dipinge una tela per esporla al pubblico. Tutti sono i benvenuti a queste confessioni! Così Posti riservati, la poesia che apre la raccolta, ci invita uno per volta. È il poeta a chiamarci. Forse perché la sua poesia è, in sé e per sé, concepita come poesia-per-gli-altri, una poesia che ha bisogno dell'altro, dell'incontro, del confronto. Se il poeta apre le braccia al pubblico invitandolo con un elegante "vi racconto di me", il pubblico ascolta ed è al contempo il metro tramite il quale Stefano deve misurarsi.

Vorrei spogliare
il manichino che sono
dalle ambizioni che non ho
e che occorre esibisca in vetrina
come sperassi le avessero tutti.
(da Nessuna ambizione, pag. 23)

L'altro è colui il quale può far specchiare l'autore, in un gioco di rimandi: lì egli può conoscersi, nella misura in cui scrivendo si racconta e raccontandosi si specchia empaticamente nella lettura dell'estraneo. È così che si possono varcare terre desolate, percorsi impervi, tortuose scalinate verso la scoperta dei propri limiti e delle proprie velleità.


Non trova risposta chi parla a se stesso
e ottuse domande acuiscon l'eccesso; 
rinnova il rancore per tanto silenzio
e porta tristezza spalanca l'assenzio. 

Senza più l'Altro rimane lo specchio, 
con meno ritorni si viaggia parecchio;
non sono pensieri che oscurano il volto,
ma il loro vagare perenne e irrisolto. 
(da Soliloquio, pag. 25)

Chi sono io? Cosa posso rivendicare? Qual è la mia collocazione? E al contempo chi siete voi? Potete sentirmi? Sono queste le domande che Stefano sottintende e porta con sé, come uno stendardo. L'unica grande pretesa di questi quesiti è la verità, che è vera già nel momento in cui ci si impegna a cercarla. 

Mi affido alla carta 
e la lascio parlare,
come un'altra Babele
tra milioni di voci
che piovono stanche
dalle torri d'avorio,
dopo aver rigirato,
frottole impazzite,
nella vuota schiera
di una verità per finta:
parole incomprensibili
da rileggere al silenzio
della prossima pagina.
(Babele su carta, pag. 35)

La poesia è un tumulto di sinestesie che prendono forma di parole sulla carta e che, in questa evoluzione, diventano incomprensibili: possono coglierle veramente solo i puri di cuore, i sensibili.
La poesia, che è poesia-per-gli-altri, si mostra allora selettiva nella misura in cui già in se stessa si trova la codifica che la protegge. Non si tratta, però, di mera selezione (Ricordate? Tutti sono invitati a questo banchetto!), ma di semplice e giusta premura nel salvaguardare il proprio io: è come se il poeta dicesse "Mi racconto solo a chi può capire". Egli cerca se stesso, è vero. Ma non può sopportare che l'altro si appropri di sé, scacciando il compromesso empatico.

Mi volto,
mi guardo, 
presto attenzione
a ciò che è importante:
l'immagine ambigua
che lo specchio alle spalle
riflette in quell'altro,
che sfido a duello.
Sparo alla cieca
un colpo impazzito
verso lo specchio,
verso me stesso,
moltiplicato
davanti per dietro,
rifratto in un loop
che converge nel mezzo.

È questione di rispetto:
non sopporto
chi mi osserva
di nascosto.
(Ri-spettro, pag. 29)


Ed è così che ogni poesia diventa una piccola narrazione, immagini che il lettore elabora e che passano, inerpicandosi, per l'anima del poeta. Il luogo della poesia è il luogo in cui rifugiarsi quando si cercano le risposte. Eppure il poeta non ne trova! Quasi sul finire, infatti, in una poesia recita: "Il mio posto/è verso un forse". E, in un'altra poesia, "Da una parte all'altra/del mio essere uno,/sono sempre imperfetto [...]". La ricerca dell'artista non si ferma, anche dopo il completamento di un'opera. Perché l'arte è curiosità, domanda, richiesta. Questo desiderio di ricerca continua che ci accomuna all'autore non può che farci sperare di sentire ancora la voce di questo giovanissimo poeta, che si fa spazio a spalle larghe in un campo certamente non facile da percorrere, mostrando una delicata sensibilità e una ambiziosa tenacia. 

venerdì 2 settembre 2016

Tracce di poesia - Paul Éluard

Il Primo Manifesto del Surrealismo, del 1924, proclama l'allontanamento da qualsivoglia forma di realismo e razionalità: l'arte è il luogo in cui il vero e l'immaginario si incontrano, in una dimensione distorta che riesce ad illuminare la parte più recondita della nostra mente. L'inconscio è il filo rosso attraverso cui si snoda l'investigare della coscienza, la possibilità di andare finalmente oltre le "realtà sommarie" e di approfondire l'abisso interminabile dell'immaginazione, onnipotente trasmettitore di informazioni. Nel Manifesto André Breton scrive: 

«Il sogno si trova così ridotto a una parentesi, come la notte. E come questa, in generale, non porta consiglio. [...] E poiché non è affatto provato che "la realtà" che mi occupa sussista allo stato di sogno, che non precipiti nell'immemorabile, perché non concedere al sogno ciò che a volte rifiuto alla realtà, ossia quel valore di certezza in sé che, per il tempo che dura, non è esposta alla mia sconfessione? Perché non mi aspetterei dall'inizio del sogno più di quanto non aspetti da un grado di coscienza sempre più elevato? Il sogno non può essere anch'esso applicato alla soluzione dei problemi fondamentali della vita?»

Ecco che viene a crearsi un linguaggio assolutamente lontano da quello stereotipato della tradizione e, con esso, un mondo nuovo, sintesi perfetta tra il reale e l'irreale: il surreale, la verità che nasce non dalle inconciliabili opposizioni, ma dalle antitetiche compenetrazioni. 
La prima scena di Un chien andalou, film manifesto girato da Luis Bunuel (anche sceneggiatore assieme a Salvador Dalì) nel 1929, si presenta proprio come la rappresentazione visiva di un intento: il regista invita lo spettatore a sbarazzarsi delle proprie abitudini epistemologiche, lasciandosi abbandonare al flusso di quel impossibile-possibile che non è più licenziato come indegna rappresentazione, ma è valorizzato e innalzato a terza realtà altra e amalgamante. 


Un chien andalou, regia di Luis Bunuel (1929)


La scrittura è intesa come "automatismo psichico": parole e immagini si impongono spontaneamente con la veemenza dell'inconscio. La poesia parla per immagini non del tutto afferrabili perché associate, come in sogno, a parole talvolta slegate, quasi inopportune. È la forza dell'inconscio, la genesi di un pensiero decifrabile soltanto attraverso l'empirica sensazione che esso provoca.

Oggi la luce unica
Oggi l'infanzia intera
Mutando vita in luce
Non passato non domani
Oggi sogno di notte
Al gran sole ogni cosa si libera
Oggi io sono per sempre

È in questo contesto che si colloca il poeta Paul Éluard, pseudonimo di Eugène-Emile-Paul Grindel. 

Egli nasce nel 1895 e nel 1923, dopo una parentesi Dada, aderisce attivamente al Surrealismo dell'amico Breton, con cui nel '33 firma diversi appelli in Francia contro gli imminenti pericoli che la presa al potere di Hitler in Germania avrebbe presumibilmente comportato. L'amicizia con Breton, però, è destinata a durare poco: mentre Breton si avvicina a Trockij, Eluard si avvicina ai comunisti. Durante la seconda guerra mondiale, Éluard si mobilita come sottotenente e, dopo la firma dell'armistizio nel '40, rientra a Parigi, dove poi si iscrive al partito comunista, che lavora in maniera clandestina. In questi anni scrive con lo pseudonimo di Jean du Haut, fonda il Comitato nazionale degli scrittori e pubblica Domaine français, antologia che raccoglie scritti di artisti non collaborazionisti. Se nella prima parte della propria produzione, egli scrive principalmente del tema dell'amore e parla del legame amoroso come l'unica chance per esistere nel mondo come uomo libero dal groviglio della solitudine, nella seconda parte di essa, che coincide con l'aumentare dell'interesse politico, i temi diventano la libertà, la giustizia, la pace. Ma, in fondo, l'amore di cui parla Éluard è da intendere, più in generale, come il rapporto con l'altro (e non solo l'altro-da-amare): come scriveva il buon vecchio Sartre, l'altro è ciò che mi fa esistere puntando il suo sguardo verso di me e facendomi altro-guardato. L'altro è condicio sine qua non per la mia esistenza nel mondo: mi sento parte del mondo solo quando un altro mi guarda. È in quel momento che esisto e mi rendo conto della pregnanza della mia esistenza in quanto uomo. 
Éluard scrive:

Non verremo alla meta ad uno ad uno,
ma a due a due. Se ci conosceremo
a due a due, noi ci conosceremo
tutti, noi ci ameremo tutti e i figli
un giorno rideranno
della leggenda nera dove un uomo
lacrima in solitudine.

La poesia diventa lo specchio del poeta, che deve immortalare le incongruenti libere associazioni dell'inconscio come in una fotografia. L'arte, in generale, è ciò grazie a cui si può indagare il dionisiaco: la vita non è fatta di minuzie logiche, ma di caos pungente, un non-detto sotteso eppur così vivido e presente. Ne Il lavoro del poeta, Éluard scrive:

Che siete venuto a prendere
Nella stanza familiare?

Un libro che mai nessuno apre

Che siete venuto a dire
Alla donna indiscreta?

Quel che non può ripetersi

Che siete venuto a vedere 
In quel luogo in vista?

Quello che i ciechi vedono

Dopo la liberazione di Parigi (25 agosto 1944), riprende a pubblicare con il primo pseudonimo. Gli anni successivi sono ricchi di viaggi di impegno letterario e politico, vari i suoi interventi sul valore della democrazia. Nel 1951 si reca a Praga in occasione di una mostra dedicata a Majakovskij. La morte sopraggiunge nel 1952 a seguito di un violento attacco cardiaco. 



Su quaderni di scolaro
Su i miei banchi e gli alberi
Su la sabbia su la neve
Scrivo il tuo nome

Su ogni pagina che ho letto
Su ogni pagina che è bianca
Sasso sangue carta o cenere
Scrivo il tuo nome

Su le immagini dorate
Su le armi dei guerrieri
Su la corona dei re
Scrivo il tuo nome

Su la giungla ed il deserto
Su i nidi su le ginestre
Su la eco dell'infanzia
Scrivo il tuo nome
Su i miracoli notturni
Sul pan bianco dei miei giorni
Le stagioni fidanzate
Scrivo il tuo nome

Su tutti i miei lembi d'azzurro
Su lo stagno sole sfatto
E sul lago luna viva
Scrivo il tuo nome

Su le piane e l'orizzonte
Su le ali degli uccelli
E il mulino delle ombre
Scrivo il tuo nome

Su ogni alito di aurora
Su le onde su le barche
Su la montagna demente
Scrivo il tuo nome

Su la schiuma delle nuvole
Su i sudori d'uragano
Su la pioggia spessa e smorta
Scrivo il tuo nome

Su le forme scintillanti
Le campane dei colori
Su la verità fisica
Scrivo il tuo nome

Su i sentieri risvegliati
Su le strade dispiegate
Su le piazze che dilagano
Scrivo il tuo nome

Sopra il lume che s'accende
Sopra il lume che si spegne
Su le mie case raccolte
Scrivo il tuo nome

Sopra il frutto schiuso in due
Dello specchio e della stanza
Sul mio letto guscio vuoto
Scrivo il tuo nome

Sul mio cane ghiotto e tenero
Su le sue orecchie dritte
Su la sua zampa maldestra
Scrivo il tuo nome

Sul decollo della soglia
Su gli oggetti familiari
Su la santa onda del fuoco
Scrivo il tuo nome

Su ogni carne consentita
Su la fronte dei miei amici
Su ogni mano che si tende
Scrivo il tuo nome

Sopra i vetri di stupore
Su le labbra attente
Tanto più su del silenzio
Scrivo il tuo nome

Sopra i miei rifugi infranti
Sopra i miei fari crollati
Su le mura del mio tedio
Scrivo il tuo nome

Su l'assenza che non chiede
Su la nuda solitudine

Su i gradini della morte
Scrivo il tuo nome

Sul vigore ritornato
Sul pericolo svanito
Su l'immemore speranza
Scrivo il tuo nome
E in virtù d'una Parola
Ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per chiamarti

Libertà.

(traduzione di Franco Fortini)

Se volete leggere le poesie di Paul Éluard, vi consigliamo Poesie e Poesia ininterrotta, entrambi editi da Giulio Einaudi Editore. 



Curiosità: 
  • Ne La vita è altrove Milan Kundera scrive: 

    «Strane coincidenze! Jaromil, che nello stesso periodo spiava per intere giornate l'occhio piangente di Magda, conosceva molto bene il fascino della tristezza e vi si immergeva completamente. Sfogliava ancora il libro che gli aveva prestato il pittore, leggeva e rileggeva senza fine le poesie di Éluard e si lasciava rapire da alcuni versi: Aveva nella pace del suo corpo una pallina di neve del color dell'occhio; oppure: in lontananza il mare che il tuo occhio bagna; e: Buongiorno tristezza sei iscritta negli occhi che amo. Éluard divenne il poeta del placido corpo di Magda e dei suoi occhi bagnati dal mare delle lacrime; tutta la propria vita gli pareva racchiusa nella magia di un solo verso: Tristezza bel volto. Sì, era Magda: tristezza bel volto.»
  • Nel film francese Guernica (regia di Alain Resnais e Robert Hessens, 1950), l'attrice María Casares recita un poema di Paul Éluard.
  • Nel film Agente Lemmy Caution: missione Alphaville (regia di Jean-Luc Godard, 1965), il protagonista legge alcune poesie tratte da Capitale de la douleur di Paul Éluard.



da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/poesia-4575?f=a:715>


mercoledì 8 giugno 2016

"L'amore è il cuore di tutte le cose": Vladimir Majakovskij e Lili Brik

"L'amore è il cuore di tutte le cose", Neri Pozza Editore, è la raccolta più completa apparsa finora in lingua italiana di lettere, biglietti e telegrammi privati, inviati e ricevuti da Vladimir Majakovskij tra il 1915 e l'anno della morte. Faccio per aggiungerlo al mio scaffale di Anobii e leggo la recensione poco entusiasta (due sole stelline) di un utente:

Ma è necessario - mi chiedo - pubblicare in un libro delle comunissime lettere quotidiane solo perché le ha scritte uno scrittore?

Salto su stizzita e così rispondo, testualmente, alla bell'e meglio:


Necessario no, ma è interessante, utile e bello per diversi motivi. Il primo, e più banale di tutti, prescinde dal fatto che l'autore sia un artista della statura di Majakovskij, e risiede nel mero valore storico e documentario di un epistolario originale e personale. Come si viveva in URSS in quegli anni? Com’erano vissute davvero la questione degli alloggi e altre che riempiono, piene di argomentazioni, i libri di storia come quelli di narrativa di diverso indirizzo e carattere (ne sia un esempio “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov)? Come si muoveva, e con quali tempistiche, la corrispondenza? Com'erano i rapporti tra gli intellettuali, i critici, il governo, l'editoria? Come si lavorava nell’ambito culturale? Un insieme di lettere e biglietti di contenuto quotidiano, scritti per uso esclusivamente privato e quindi scevri da qualsivoglia interesse e da ostentazioni di sorta, non sarà in questo senso di gran lunga più sincero, autentico e dotato di valore storico rispetto a testi stilati appositamente al fine di “denigrare” o “difendere”?
Secondo motivo per cui saluto con gioia la pubblicazione di questa raccolta, analogo al precedente ma fondato sull'importanza della figura storica e artistica di Majakovskij: da questa corrispondenza apprendiamo dei rapporti personali e professionali tra lui e Gor'kij (e li scopriamo tutt’altro che idilliaci), tra lui e Lunačarskij, e ancora degli amici della sua cerchia (oltre agli ovvi Lilja e Osip Brik, Kamenskij, Pasternak, Šklovskij, Jokobson e altri) con questi e tra di loro. Davvero tutto questo non aggiunge nulla alla notizia meramente storica di questa declamazione pubblica tenuta da due o tre di loro al “Cane Randagio” di Pietroburgo o di quell’articolo sul “Novaja žizn’” in cui uno prende le distanze dall’altro? I pettegolezzi (infondati) di Gor’kij sulla presunta sifilide (mai) contratta da Majakovskij davvero non hanno inciso in alcun modo sulla freddezza dei loro rapporti professionali? La condivisione di spazi, idee, progetti e bevute, non ha mai influito su questo o quel progetto all’interno di una redazione, su un incontro del Lef o sull’organizzazione di una mostra o di un evento pubblico?
Infine, terza motivazione, relegata all’ambito squisitamente letterario: questo epistolario così vero contribuisce in modo insostituibile ad edificare quel che Schleiermacher chiama “circolo ermeneutico”. Senza conoscere i particolari della prima notte di nozze di Lilja e Osip Brik, quel «Nel morbido letto/ lui,/ la frutta/ il vino nei palmi del tavolino da notte» del poema “A tutto”, che significato potrebbe avere per noi? I continui riferimenti alla vita quotidiana di cui Majakovskij infarciva le poesie (Lilja allettata con la febbre, il Cucciolo che viveva in casa Brik-Majakovskij, i due mesi di separazione tra Volodja e Lilja a cavallo tra il 1922 e il 1923, le visite che Lilja riceveva in determinati giorni, gli uccellini in gabbia che lui le regalò, gli acquisti di lei durante il soggiorno a Riga) non sarebbero per noi insipidi dettagli privi di un significato poetico, se non conoscessimo i dettagli dei luoghi e dei tempi in cui determinate poesie videro la luce (sui fogli manoscritti, non in tipografia)? Sapere che un determinato poema è stato scritto durante un periodo di amore idilliaco tra Majakovskij e Lilja Brik, o alla fine di un litigio straziante, o nell’apice dell’innamoramento tra il poeta e la Yakovleva?
Una biografia “ufficiale” , un saggio di critica letteraria, una pagina di Wikipedia (!) non potranno mai essere esaurienti circa il vissuto e la personalità di Majakovskij quanto questa finestra spalancata brutalmente sulla sua vita reale, che solo i più intimi ebbero modo di conoscere davvero.

Certo, avrei potuto formulare meglio, ma alla ridicola domanda mi è davvero scattata l'ignoranza (citazione più alta, per nobilitarmi). Il punto è: dopo Cicerone, Abelardo ed Eloisa, John Keats e Funny Brawne, Antonio Gramsci, ci si può davvero chiedere ancora a cosa valga leggere delle lettere?
È noto a tutti come quello epistolare sia un vero e proprio genere letterario, che si tratti di corrispondenze reali o di finzione. Il romanticismo, con la sua esaltazione dell'interiorità e dei conflitti che la agitano, con il suo interesse per la nascita e l'evoluzione delle idee a partire dal vissuto degli autori, ha fatto assurgere la materia epistolare all'olimpo degli scritti "ufficiali", poetici, quasi come ogni lettera potesse farsi manifesto. Non a caso, leggiamo di quegli autori romantici che scrivevano le proprie missive private bellamente al fine di rendere, un giorno, pubblico l'epistolario intero: e perché si potesse seguire di lettera in lettera il percorso poetico, la maturazione stilistica, l'elaborazione del pensiero, e (ultimo ma non per importanza) perché si potesse anche negli scritti privati apprezzare della prosa la bellezza, lo spessore, la profondità della scrittura.
Niente di tutto questo ha luogo nell'epistolario di Majakovskij: le lettere e i telegrammi, come lamenta il deluso utente di Anobii, sono comunissimi messaggi quotidiani, che non lasciano spazio alla condivisione e all'elaborazione teorica, né palesano l'intenzione di farsi, un giorno, materiale di pubblico dominio. Proprio questa carenza rappresenta la forza della raccolta: la sua autenticità, la sua spontaneità, il suo mettere a nudo le tre persone coinvolte, Majakovskij e i due Brik, senza tener conto della loro statura, del loro ruolo, dell'"immagine" che di loro si potrebbe voler costruire. Nella ricca e utilissima (sebbene per certi versi molto discutibile) nota preliminare, Bengt Jangfeldt scrive puntualmente che:

«La corrispondenza tra Majakovskij e Lili [...] non è un esempio di grande arte epistolare. A differenza dei simbolisti, Majakovskij (e gli altri futuristi) non consideravano lo scrivere lettere come un genere letterario particolare, il che non era, tuttavia, il frutto di una "polemica" cosciente con la generazione precedente: le lettere non avevano alcuna funzione nella poetica di Majakovskij (nel senso più ampio della parola) [...]. Egli non ebbe una posizione ben delineata nei confronti delle lettere come genere artistico: semplicemente, per lui questa questione non si poneva [...]. Questo fatto diventa inconscia espressione della tensione dei futuristi verso l'"abbassamento" e la "deestetizzazione" nell'arte.»


Osip e Lilja Brik, Vladimir Majakovskij

Queste, alcune considerazioni sull'utilità del ficcare il naso nelle corrispondenze altrui. Mai come leggendo un epistolario autentico si prende atto della semplice e solidissima verità di María Zambrano: non esiste parola disincarnata. Ogni scrittura, ogni pensiero, ogni ideale è sempre storicamente determinato, radicato in un contesto sociale e storico, in un vissuto fatto di desideri, passioni, sofferenze, paure. Ogni filosofia e letteratura è fatta di carne, di carattere, di esperienza, di vissuto quotidiano, e non potrebbe in nessun modo essere altrimenti. Affiancare la lettura della parola di Majakovskij a quella della sua vita ci restituisce la cifra di questa identificazione immancabile tra arte e vita, tra ideale e materiale, tra struttura e sovrastruttura. Quanto al contenuto di questo ricco epistolario, all'immagine antiretorica di Majakovskij che se ne trae, della sua straordinaria esperienza di "famiglia" insieme ai Brik, alle sue tendenze suicide che fin da giovanissimo fanno spesso capolino, nel privato come nell'arte, al suo amore senza regole e alla sua immensa passione politica... Su tutto questo, che nel suo epistolario si delinea e arricchisce di aneddoti e dettagli, mi dilungherò un'altra volta.

lunedì 24 novembre 2014

"A un jour" di Simone Weil

Il poeta Jean Tortel, conosciuto durante la collaborazione ai Cahiers du Sud nel 1940, dopo l'occupazione tedeca, ha scritto di Simone Weil: "Credo che, prima di tutto, desiderasse essere poeta. Sono certo che avrebbe sacrificato la sua opera per le poche poesie che ha scritto".
Nonostante questa vocazione (Weil avrebbe detto dharma, secondo la terminologia acquisita dall'indù che amava studiare negli antichi testi sanscriti), della "vergine rossa" possediamo poche produzioni poetiche. Negli ultimi anni della sua vita apprezzava gli gnostici e i metafisici, Theophile e George Herbert. Giudicava la di lui poesia, Love, la più bella mai scritta. In continuità a questo clima di trascendenza e misticismo che amava ricreare nei suoi studi (ormai morta e sepolta la breve stagione rivoluzionaria, durante la quale disegnava falci e martelli ai bordi delle pagine e stringeva calorosamente la mano a chi si dicesse ateo), compose in due diverse stesure quello che riteneva un piccolo capolavoro: il poemetto A un jour (A un giorno nelle traduzioni italiane).
Il lavoro di cui era stata precedentemente più fiera era il Prométhée, altro componimento che in seguito avrebbe giudicato invece di "gran lunga inferiore" ad A un jour. Lo aveva inviato a Paul Valéry, il quale le aveva mandato una lettera di risposta piena di elogi.
Segue una prima stesura del secondo poemetto, anch'esso spedito a Valéry nel 1938, senza questa volta ottenere alcun riscontro. A un jour, così, rimase a lungo nel mucchio di manoscritti che affollava la camera di Simone Weil al numero 3 di via Auguste Comte.
Weil non aveva intenzione di abbandonare Parigi poco prima che essa venisse raggiunta dall'avanzata tedesca: aveva ferma intenzione di restare per due ragioni. La prima, era quella di cui andava vantandosi continuamente con chiunque le prestasse attenzione: condividere la sorte dei più sventurati (anche se, per conseguire quello che Simone Pétrement giudica un atto della più pura generosità e della più profonda negazione di sè, Weil incorreva spesso nell'inconveniente di imporre agli altri le proprie insistenti pretese, a volte veri e propri capricci, e con le complicazioni che ne conseguivano) e partecipare direttamente alla guerra, visto che un incubo è tale per lo più quando è solo immaginato e ben meno spaventoso quando è vissuto.
Nonostante questi fieri e ostinati propositi, il 13 giugno del 1940 Weil e i suoi genitori escono di casa, vengono a sapere che Parigi è appena stata dichiarata città aperta e che da essa sta per partire l'ultimo treno; decidono allora su due piedi di partire, senza bagagli né molto denaro. Scendono alla prossima fermata di Nevers e da lì vengono trasportati in auto fino a Vichy. L'indomani Parigi viene occupata.
Lontana da casa e dai suoi manoscritti, Weil riscrive A un jour a memoria, ottenendo un componimento che giudica ancora migliore dell'originale. Ne fa cinque o sei copie e le invia per lettera ad amici, conoscenti e ad un'allieva con l'incarico di farla pubblicare con qualunque mezzo su qualunque rivista di rilievo, anche in forma anonima (visto il clima antisemita che ormai domina l'Europa): sa infatti che l'opera portata a termine è del tutto svincolata dal suo autore e poi non ha a cuore la fama o la gloria di essere l'autrice di quel che giudica un ottimo poemetto. Quel che le sta a cuore è semplicemente che sia letto con urgenza, perché è di tale importanza e bellezza che sarebbe un peccato privarne il mondo.
Il poemetto, lungo alcune pagine, snocciola quelle che erano le principali convinzioni religiose e metafisiche che Simone Weil nutriva all'epoca, nei suoi ultimi anni di vita, dopo aver stretto amicizia con padre Perrin, dopo essersi appassionata in modo (direi) morboso ai canti gregoriani, dopo aver deciso di vivere asceticamente (per esempio dormendo a terra oppure chiedendo ad un amico, durante una vacanza, di ficcarle spilli sotto le unghie) e dopo essere diventata anoressica (legittimando la cosa con l'affermazione che chiunque mangiasse, in tempo di guerra, praticamente privava di quel cibo tutti gli altri esseri umani nelle medesime condizioni).
Durante l'elaborazione di piani come paracadutare le infermiere in prima linea per soccorrere i moribondi anche a costo di morire al loro posto e nel tentativo di sfuggire alla persecuzione antiebraica dichiarando di essere, sì, in effetti, di origine ebraica, ma di non avere nulla a che fare con quel popolo alla cui tradizione di dichiarava totalmente estranea, Weil trova il tempo per deliziarci con questo poemetto misticheggiante.

«Perchè ferire con la tua aurora
gli occhi dei vinti, giorno morto-nato?
Son stanchi di dover vedere ancora
rilucere un sole condannato. [...]
Mille volte mille anime deserte
salutano il giorno già perduto.
Mille e mille giornate inerti
sono un vile balocco venduto.»

Come evidente dal titolo, Weil si rivolge a un giorno, chiedendosi a cosa valga che egli nasca e passi anche per i vinti. Ma i vinti non sono solo coloro i quali sono stati piegati dalla forza: come scrive nell'Iliade o poema della forza, la violenza è qualcosa che semplicemente trasforma tutti in vinti. La forza contamina chi la subisce come chi la esercita (è il caso di Achille, che sottomette Ettore ma poi è a sua volta ucciso), di modo che alla fine risulti vincitrice solo la stessa forza, solo la stessa ragione brutale delle armi. Le "mille anime deserte" non sono, dunque, i soldati del fronte franco-russo o le vittime innocenti e disperate del conflitto, ma anche gli stessi occupanti, gli stessi giovani privi di valori autentici indottrinati dalla propaganda nazi-fascista ed esaltati fino a voler uccidere. Un giorno di guerra è "morto-nato" per tutti, per chi sopravviverà uccidendo e per chi resterà ucciso.

«Increspata nell'ombra, lor mano crede
di trattenere i secoli di sventura.
Invano l'asse dei cieli è giusto.
Giorno fragile e sacro, giorno augusto,
giorno, per loro non sei dischiuso.»

Il termine "sventura" utilizzato nelle traduzioni italiane è probabilmente il migliore disponibile, eppure le altre lingue europee non posseggono un perfetto equivalente del termine francese -malheure: è l'infelicità ma è anche l'essere fatalmente colpiti da essa, l'essere vittima di un destino avverso e crudele, appunto da una sventura. Ma la maggior parte degli uomini è colpita, oltre che dall'impietoso clima politico, anche da una ulteriore forma di sventura: quella della mancata comprensione della dimensione mistica, per così dire. Essi, secondo Weil, stoltamente si sforzano di arginare i mali, credendosi artefici del proprio destino o reputandosi in grado di contrastare i casi della vita, quel che la tradizione popolare apostrofa con "se Dio vuole" o "Dio ha voluto così". Infatti, Simone Weil ha qui imboccato una via propriamente religiosa. L'"asse dei cieli", volgarmente "il volere di Dio", dice Weil, è giusto: sono i profani che non se ne rendono conto, che non riescono a cogliere questa giustizia, e così se ne lamentano e cercano anche di contrastarla. Il giorno benedetto (che è, per la giustizia ultraterrena, ogni giorno), per loro non è ancora sorto e non può sorgere.

«Giorno senza forza, la pietra
tu non potrai attraversarla.
Un muro ti sottrae a chi ti ama.»

Decorazione di Simone Weil ai suoi Cahiers. Distinguiamo
tra l'altro citazioni dal greco antico, dal sancrito, dal
latino, citazioni da Platone, dal Vangelo di Giovanni, il
nome della dea egizia della verità e della giustizia, Maat.
Questi tre versi richiamano un tema affine a quello della grazia, o meglio dello stato di grazia in cui si trova chi abbia compreso e accettato la rivelazione come Weil: si tratta di riconoscere, per la prima volta con tale intensità, la bellezza dell'universo. Ad Antonio, prigioniero in un campo a cui Simone Weil scrive lettere e invia pacchi, fa osservare la stessa cosa: pur imprigionato, pur privato della libertà e degli affetti, pur soggetto e privazioni, lui e qualunque essere umano dovrebbero poter confermare la straordinaria bellezza della vita e dell'universo tutto anche solo per il poter contemplare il cielo. Solo una cosa può impedire all'uomo di guardare il giorno o la notte stellata ed è appunto la prigione: ma, dice Weil, questo ostacolo è praticamente ininfluente, considerata la percentuale di esseri umani privi anche solo di una piccola finestra sul blu, rispetto a tutto il resto dell'umanità. Il cielo, dice, non manca sopra la testa di nessuno ed è bello ovunque nello stesso modo: rappresenta la semplice gioia di essere vivi, la capacità di cogliere la grandezza e la pienezza della vita anche nella sventura, anche nella solitudine, attraverso le cose piccole e gratuite.
Riferendosi a chi abbia raggiunto questo stato di grazia, a questo cuore illuminato dalla buona novella, Weil scrive:

«E il lungo giorno sia per lui il patto
che senza fine congiunge l'anima esatta
alla bilancia nei cieli innata.
O lungo giorno, te che egli avido berrà,
passa e colmalo d'un vuoto
che lo renda agli dèi pari.»

L'immagine della bilancia è cara a Weil e la vediamo tornare nelle riflessioni degli ultimi anni: l'asse verticale con i due bracci laterali non è altro che la croce. Il sacrificio di Cristo e la giustizia (terrena e ultraterrena, che è lo stesso) si sovrappongono nell'immagine della croce-bilancia, nel simbolo dell'equilibrio, e paradossalmente proprio l'equilibrio, la continenza, la rinuncia alla hybris, il ritrarsi da sé rendono l'uomo simile e vicino a Dio.

Per chi volesse approfondire, suggeriamo:
  • "La vita di Simone Weil", Simone Pétrement, Adelphi, 2010 (nonostante il tono fastidiosamente agiografico, si tratta di una biografia molto esauriente e arricchita da una vasta aneddotica).
  • "Piccola cara... Lettere alle allieve", Simone Weil, Marietti, 1998 (una raccolta postuma delle lettere a cura di M. C. Sala; contiene la poesia A un giorno).

giovedì 10 luglio 2014

"Moleskipersi" di Bronski

Moleskipersi sono tutti quei “pensieri persi non si sa quando e neppure dove, incapaci di essere ripensati da chiunque in qualsiasi angolo della terra, mai più”, scrive l’autore nella dedica. I versi sono, quindi, pennellate fugaci, immagini ad intermittenza, gesti indescrivibili. La carta li trattiene, li fissa, li intrappola nel giogo dell'eternità. E non sono più moleski-persi. Le pagine senza numeri (l'assenza di numeri sarà voluta?) scorrono sotto il segno di un filo rosso, quello di una critica spietata nei confronti di una società decadente che puzza di marcio. La rabbia, mascherata ora da nichilismo (“Prepara il piano B perché può darsi / che per qualche tuo compleanno / nessuno ti chiami.” – da "Piano B"), ora da misantropia (“Mi basta una parola, un gesto, un segnale non convenzionale. / Vi prego ditemi che c’è ancora qualcuno che non è uguale / a tutto là fuori…” – da "Nonluoghi"), ora da antiborghesia (“Anni che modificano il pensiero di rivoluzionari cheguevara / in abili pensatori manichei neo capitalistici…” – da "Tra un anno e l’altro"), sembra permeare l’intera raccolta, nella misura in cui il poeta si pone non al di sopra di tutti gli altri (cosa che potrebbe venire in mente ad un lettore poco attento), ma, con grande intelligenza, in una posizione intermedia, la posizione di colui il quale conosce la vita e ne parla, non lasciandosi trascinare dal pessimismo cosmico, ma cogliendo un bagliore di luce. La scrittura, infatti, esorcizza il dramma di una società che tende a incurvarsi su se stessa, come lo spazio-tempo. Ed ecco che la penna ferisce più della spada. No, non “è solo carta”. Quella di Bronski (chiaramente uno pseudonimo) sembra materializzarsi sulla carta come immagini di concetti inafferrabili alla mente umana. Il lettore si illumina: ha visto una verità che prima era un vedo-non vedo di turpitudini e inettitudini. Non si può essere indifferenti. Il disvelamento avviene tramite un’ironia amara che vede gli individui deformarsi: ecco quello che sono veramente. Esseri deformi. Ma, in fondo, "'a morte 'o ssaje ched''e?...è una livella" (come scriveva Totò nella sua celebre poesia) che uniforma belli e brutti, ricchi e poveri, buoni e cattivi. 

FASCINOSI E SINISTRI

Fascinosi e sinistri giorni.
Fascinosi e sinistri volti.

Ti hanno licenziato
fascinosi e sinistri superiori
subalterni a qualcun altro.

Che a sua volta verrà licenziato e
per lui si prospetteranno
fascinosi e sinistri momenti.

Chi c’è all’apice,
Chi è il grande burattinaio?

Chi è il fascinoso e sinistro
caput mundi plenipotenziario?

Un fascinoso e sinistro imbecille.
Sicuramente figlio di un fascinoso e sinistro
figlio di puttana che ha raggiunto la cima
non facendosi scrupoli di niente e di nessuno.

E il figlio è lì che si specchia…
Ma quanto sono fascinoso…
Ma quanto sono sinistro…
Ho il controllo di tutto…
Sono plenipotenziario…

Poi un giorno lo troveranno morto,
morto in un modo né fascinoso né sinistro.
Solo morto.
Come i morti.

Poeta e musicista (per chi non l'avesse ancora capito Bronski è un bluesman, bassista e chitarrista in una band molto conosciuta) si fondono, rappresentati ora dalla sensibilità ora dalla musicalità del ritmo veloce, a tratti martellante del verso libero. Il filosofo agisce come il subinconscio: è una presenza-assenza, ma il lettore lo percepisce assieme agli influssi di Bukowski, De Andrè, Ginsberg. La società risulta smascherata, scarnificata, ridipinta. 

Non preoccuparti se per tutta la vita hai scelto la forma,
l’eleganza, il bon ton, il cercare di apparire in ordine e l’andare
d’accordo con tutti…
Non uscirai in ordine da quella porta.
È troppo stretta.
(da “Com’è stupido andarsene”)

Ecco che la finzione diventa realtà e “il vento continua a soffiare, / il cielo a schiarirsi e ad annuvolarsi / e tu…? // E tu non sei un cazzo.” (da “Fiction”). Anche l’amore è sempre un disamore, una nostalgia, un ricordo fugace, una passione cruda, una disillusione, una incomunicabilità, un senso unico alternato.

Forse stai parlando sottovoce…
O forse è troppo il rumore intorno.
Non ti sento.

(da “Basso profilo”)

Il ravvedimento e il disincanto, eccoli qui i temi portanti! Il poeta scrive perché ha aperto gli occhi, il suo corpo ha rigettato l'invasione della società, la scrittura lo libera e ci libera. Questa poesia ci porta dove tutto sembra riunirsi e staccarsi, perentoriamente; siamo sul filo del rasoio, ma noi viviamo beati nel crogiuolo delle nostre vite, ignari di tutto fino a quando qualcuno ci tira fuori dall'ovattamento. Tutto d'un tratto respiriamo. 
E ci sembra di capire perché la musica oggi fa schifo, perché un musicista non può vivere di musica, perché un laureato in gamba non riesce a fare carriera, perché le piazze sono piene di anziani che parlano ancora di fascismo, perché in centro non c'è mai posto e i pomeriggi d'estate fa caldo. 
Bisogna leggere questa raccolta tutta d'un fiato: strapperà un sorriso anche ai più compositi. 
Noi speriamo, dalla nostra, di leggere presto altre poesie di Bronski. 

lunedì 10 marzo 2014

Tracce di poesia - Ernesto "Che" Guevara

In "Qu'est que c'est la littérature?" (1948) Sartre scriveva: «Lo scrittore impegnato sa che le parole sono azione: sa che svelare è cambiare, e che non si può svelare se non progettando di cambiare. Ha abbandonato il sogno impossibile di dare un quadro imparziale della Società e della condizione umana. L'uomo è l'essere di fronte al quale nessun essere, nemmeno Dio, può restare imparziale. [...] L'uomo è anche l'essere che non può vedere una situazione senza cambiarla, perché il suo sguardo congela, distrugge o scolpisce o, come fa l'eternità, cambia l'oggetto in se stesso. È nell'amore, nell'odio, nella collera, nella paura, nella gioia, nell'ammirazione, nella speranza, nella disperazione che l'uomo e il mondo si rivelano nella loro verità. [...] Sa che le parole, come dice Brice-Parain, sono "rivoltelle cariche". Se parla, spara.»
Quando Sartre scrive "scrittore" intende "prosatore": il poeta, infatti, non può incarnare la figura dell'intellettuale impegnato. Nella poesia c'è sempre una perdita, un vuoto. Proprio a questa mancanza è imputabile quel "art for art's sake" di matrice wildiana: se si fa arte solo ed esclusivamente per estetica, si rischia di cadere nel vortice della pochezza e dell'inutilità. L'intellettuale è, essenzialmente, la coscienza della società e per palesare la propria essenza deve, per Sartre, scrivere in prosa. 
La domanda sorge spontanea: allora la poesia di Majakovskij? Quella di Neruda? Quella di Che Guevara? 


Ernesto Guevara nasce nel 1928 a Rosario, in Argentina, da una famiglia benestante e acculturata. I genitori di Ernesto, di tendenze liberali e anticlericali, durante la guerra civile in Spagna (1936-1939), si prodigano affinché venga formato un comitato che fornisca aiuto ai Republicanos. 
A causa delle condizioni di salute del piccolo Ernesto, afflitto da asma, la famiglia è costretta a trasferirsi a Còrdoba, la città-sfondo di gran parte dell'infanzia di Ernesto, che si forma intellettualmente leggendo Neruda, Jack London, Jules Verne, Freud e persino Bertrand Russel. Tra le tante attività svolte dal giovane, spicca la fotografia, che costituirà - assieme alla scrittura - una incredibile testimonianza dell'impegno politico del guerrigliero argentino. 
Quando, nel 1945, si trasferisce con la famiglia a Buenos Aires, Ernesto si iscrive alla facoltà di medicina e, nel gennaio del 1950, viaggia in bicicletta fino a Còrdoba, dove viene accolto dalla famiglia del suo amico Alberto Granado, che nel 1951 lo accompagnerà nel famoso viaggio alla scoperta del continente sudamericano prima a bordo della Poderosa II, una motocicletta Northon 300, e poi a piedi. Ernesto annota le impressioni del viaggio nel suo diario "Notas de viaje", che diventerà nel 2004 un film ("I diari della motocicletta"): l'idea che Ernesto, anche influenzato da letture marxiste, partorisce dal viaggio è quella di un Sudamerica devastato dalle diseguaglianze, un Sudamerica che può e deve risorgere in maniera unitaria rovesciando le strutture di potere e ristabilendo una forma di giustizia sociale.
Nel 1953 Ernesto rientra in Argentina e diventa medico, dopo aver sostenuto gli ultimi esami. Riparte immediatamente: è nel dicembre di quello stesso anno che incontra, in Guatemala, la sua prima moglie, Hilda Gadea, una esiliata peruviana che lo avvicina al governo del presidente Jacobo Arbenz Guzmán (che tenta di attuare una rivoluzione sociale attraverso varie riforme) e gli presenta un gruppo di rivoluzionari cubani legati a Fidel Castro, il rivoluzionario che ha scritto dal carcere il "Manifesto alla Nazione", denunciando i crimini della dittatura di Fulgencio Batista. In Guatemala la situazione degenera a seguito di un colpo di stato sostenuto dalla CIA: gli Stati Uniti, secondo il Che, sono una potenza imperialista che ha interessi a frenare l'emancipazione di Paesi in via di sviluppo. Sotto consiglio di Arbenz, il Che (nomignolo che risale a questo periodo) si trasferisce in Messico, dove incontra Fidel Castro e dove aderisce al "Movimento del 26 di luglio", che ha in programma di abbattere la dittatura di Batista. Dal 1956, anno in cui la nave Granma parte alla volta di Cuba, Ernesto si impegna nella guerriglia: è l'inizio della rivoluzione cubana. Nel 1959 Batista fugge e viene instaurato un nuovo governo che nomina Guevara "Cittadino cubano per diritto di nascita" e gli affida ruoli di grande rilievo: a Cuba è il secondo uomo più importante, dopo Castro. Il 1959 è anche l'anno in cui Ernesto divorzia da Hilda per sposare Aleida March, una cubana del "Movimento del 26 di luglio".
A partire dal 1965, dopo una breve latitanza, decide di occuparsi della liberazione degli altri popoli latinoamericani: prima il Congo e poi la Bolivia, dove viene catturato e ucciso dall'esercito nell'ottobre del 1967.

Autoritratto in Thailandia, 1964
L'importanza della scrittura, per il Che, non è solo intimo bisogno di confidarsi, ma è narrazione, inno, lotta e rivoluzione. I versi del guerrigliero argentino trasudano ideologia e evocano un bisogno sostanziale e ineludibile: il bisogno di giustizia sociale. «Il guerrigliero è un riformatore sociale, che prende le armi rispondendo alla protesta carica d'ira del popolo contro i suoi oppressori, e lotta per mutare il regime sociale che mantiene nell'umiliazione e nella miseria tutti i suoi fratelli disarmati» (Da "Scritti, discorsi e diari di guerriglia", 1959-1967): il rivoluzionario (rigorosamente armato) deve far riemergere dall'oblio lo splendore di un'America Latina assoggettata al potere imperialista. La denuncia è chiara e proprio da questa denuncia nasce un ponte che collega Ernesto a Pablo Neruda. D'altronde, non a caso, Ernesto legge "Canto generale" e lo commenta: «Quando il tempo avrà un po' sfumato gli andamenti politici e contemporaneamente - ineluttabilmente - avrà assegnato al popolo la sua definitiva vittoria, questo libro di Neruda si porrà come il più vasto poema sinfonico d'America. [...] È un canto generale d'America che ripercorre tutto ciò che è nostro, dai giganti geografici fino alle povere bestioline del signor monopolio.»
Ecco che la poesia diventa anch'essa impegnata: come potrebbe non esserlo? E come potrebbe l'intellettuale non utilizzare lo strumento di espressione più vicino e affine a sé per urlare? «Ciò significa che all'universo dell'immaginario, del sogno, del fantastico è necessario attribuire un potenziale rivoluzionario, una carica di ribellione, quanto meno simile all'attività liberatoria del guerrigliero che lotta contro la fame nel Terzo Mondo, contro il potere economico che schiaccia e uccide, contro la rapina di colui che possiede già tanto, e ancor più pretende di avere da chi non ha.» (dall'introduzione al libro "Poesie e scritti sulla letteratura e l'arte", a cura di Elena Clementelli e Walter Mauro)

E qui


«Sono meticcio», grida un pittore dalla tavolozza infuocata, 

«Sono meticcio», mi gridano gli animali perseguitati,
«Sono meticcio», esclamano i poeti pellegrini,
«Sono meticcio», riassume l'uomo che mi incontra
nel quotidiano dolore di ogni angolo,
e persino l'enigma di pietra della razza morta
accarezzando una vergine di legno dorato:
«È meticcio questo grottesco figlio delle mie viscere».

Io pure sono meticcio per un altro aspetto:
nella lotta in cui si uniscono e si respingono
le due forze che agitano il mio intelletto,
le forze che mi chiamano sentendo delle mie viscere
lo strano sapore di frutto racchiuso
prima di raggiungere la sua maturità dell'albero.

Mi giro al limite dell'America ispana
ad assaporare un passato che ingloba il continente.
Il ricordo scivola con dolcezza indelebile,
come un lontano suono di campana.


Non c'è arte che sia scevra da una dimensione politica: non è concepibile un'arte che non sia calata nella storia e che dalla storia assorba il suo proprio modo d'essere; le impressioni sensibili si fondono con un sentire più ampio, ideologico, eterno: secoli di soprusi, di aggressioni, di sottomissioni, di sfruttamento. E poi la ribellione, che si sbocconcella in versi di una bellezza inaudita. 

Vecchia Maria

Vecchia Maria, tu vai a morire, 
voglio parlarti seriamente:

La tua vita è stata un rosario completo di agonie, 
non un uomo amato, né salute, né denaro, 
appena la fame da spartire; 
voglio parlare della tua speranza, 
delle tre diverse speranze 
che fabbricò tua figlia senza saper come.

Prendi questa mano d'uomo che pare di bambino 
nelle tue sfregate dal sapone giallo. 
Strofina i tuoi calli duri e le nocche pure 
nella morbida vergogna delle mie mani di medico.

Ascolta, nonna proletaria: 
credi nell'uomo che arriva, 
credi nel futuro che non vedrai mai.

Non pregare il dio inclemente 
che per tutta la vita deluse la tua speranza. 
Non chiedere clemenza alla morte 
per veder crescere le tue grigie carezze; 
i cieli sono sordi e in te comanda il buio; 
soprattutto avrai una rossa vendetta, 
lo giuro per l'esatta dimensione dei miei ideali: 
i tuoi nipoti tutti vivranno l'aurora, 
muori in pace, vecchia combattente.

Vai a morire, vecchia Maria; 
trenta progetti di sudario 
diranno addio con lo sguardo, 
il giorno, tra questi, in cui te ne andrai.

Vai a morire, vecchia Maria, 
rimarranno mute le pareti della sala 
quando la morte si congiungerà con l'asma 
e copuleranno il loro amore nella tua gola.

Quelle tre carezze costruite in bronzo 
(l'unica luce che allevia la tua notte), 
quei tre nipoti vestiti di fame, 
rimpiangeranno i nodi delle vecchie dita 
dove sempre trovavano un sorriso. 
E sarà tutto, vecchia Maria.

La tua vita è stata un rosario di magre agonie, 
non un uomo amato, né salute, letizia, 
appena la fame da spartire, 
la tua vita è stata triste, vecchia Maria.

Quando l'annuncio del riposo eterno 
intorbida il dolore delle tue pupille, 
quando le tue mani di perpetua sguattera 
assorbono l'ultima ingenua carezza, 
pensi a loro... e piangi, 
povera vecchia Maria.

No, non farlo! 
Non pregare il dio indolente 
che per tutta una vita deluse la tua speranza 
e non chiedere clemenza alla morte, 
la tua vita è stata orribilmente vestita di fame, 
e finisce vestita d'asma.

Ma voglio annunciarti, 
con la voce bassa e virile delle speranze, 
la più rossa e virile delle vendette, 
voglio giurarlo per l'esatta 
dimensione dei miei ideali.

Prendi questa mano d'uomo che pare di bambino 
nelle tue sfregate dal sapone giallo, 
strofina i calli duri e le nocche pure 
nella morbida vergogna delle mie mani di medico.

Riposa in pace, vecchia Maria, 
riposa in pace, vecchia combattente, 
i tuoi nipoti tutti vivranno l'aurora, 
LO GIURO.


Persino le parti in prosa (sulla letteratura e sull'arte) non perdono mai del tutto la liricità: il Che scrive inevitabilmente sorretto dall'amore per gli invisibili. Scrive in qualità di lettore, di viaggiatore, di poeta, di guerrigliero, ma mai in qualità di uno solo di questi individui. Ernesto è tutte queste personalità al modo di una sola: fare della sua scrittura (anche quando essa si dedica a considerazioni artistiche) qualcosa di separato dall'impegno politico significherebbe de-naturalizzarla. «Se la silloge di poesie del Che [...] riflette stati d'animo, percezioni del sensibile, slanci di umana vitalità, quando Guevara affronta la storia dell'America Latina nelle sue più profonde strutture, analizzando le radici da cui è poi scaturito il disagio, il malessere, la condizione esistenziale del presente, allora la scrittura comprime il tono di una innata liricità (che appartiene alla mitezza di carattere del guerrigliero liberatore) e va a inoltrarsi nel buio fondo della Storia, con un vigore di schieramento dalla parte delle vittime che sta pure a significare una poetica interpretazione della marxista filosofia della prassi, tutta tesa a sfociare nel conseguimento del socialismo reale come approdo necessario dell'utopia.» E infatti gli scritti sull'arte non sono altro che «commosse ricognizioni sull'arte degli Inca e dei Maya, i due popoli-bersaglio del genocidio della Conquista Spagnola.» 
Il popolo deve essere riscattato e non ci può essere sconfitta: «Hasta la victoria siempre» diventa il motto di chi non può arrendersi, di chi deve lottare (in senso letterale) per garantire possibilità di vita migliori a chi ha conosciuto sempre crepuscoli e mai aurore.
Il Che dà ancora oggi il più grande insegnamento: la rivalsa da un regime di oppressione (che sia politica, ma anche culturale o economica) è ancora possibile, persino quando il numero dei collaborazionisti e dei corrotti sembra maggiore di quello dei sovversivi. E allora hasta siempre, comandante!


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