«È giusto servirsi delle persone solamente per il proprio piacere?»
Il titolo è ironico e immaginifico. Il film è strano ed evocativo. Vincitore del leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 2014, è piacevolissimo da vedere, spinoso e nordico, lento e suggestivo. Pone una sequela di domande, senza fornire che stralci di risposta, ma abbondando di silenzi che ti lasciano l'agio di pensare, mentre fissi il grigiore delle scenografie fintissime da teatro e insieme vivide e trasognate, come ereditate da un ricordo infantile o prese a prestito da un futuro informe.
Seguiamo due agenti di commercio tristi, tristissimi, nei loro tentativi frustrati di vendere denti da vampiro e maschere di Zio Dentone, articoli per fare feste e scherzi, che non divertono nessuno. Come loro stessi, che invano ripetono agli altri e a se stessi: "Vogliamo aiutare la gente a divertirsi". Tra ipotetici acquirenti non interessati ed ex clienti insolventi, si aggirano tetri e ripetitivi in uno scenario fantasmatico, saldi nella loro amicizia e nella comunione di lavoro e fallimenti. Camminano con la loro valigetta tra parate militari fuoriuscite dalla Grande guerra del Nord, ballerini di flamenco che provano e sudano nella scuola di danza, passeggeri che pranzano alla mensa di una nave. La lunga sequenza di quadretti presi in prestito dalla vita (più uno strappato a un brutto sogno) raccontano con delicatezza, ironia, malinconia e stupore di amori non corrisposti, debiti non saldati, morti inaspettate, bevande alcoliche pagate in baci, autobus persi e ombrelli dimenticati a casa in giornate improvvisamente diventate piovose. Nell'immobilità pittorica e nel pallore disumano di personaggi, comparse e fondali, viene sgranato questo piccolo rosario della vita. La lentezza e la pulizia delle sequenze le rendono belle e contemplative, scultoree, esistenzialistiche.
Un uomo attende per ore, impalato in mezzo alla strada, la persona che ha evidentemente dato buca ad un importante appuntamento. Alle sue spalle, oltre la vetrina di un bar, la maestra di danza bacia le mani del ragazzo che la respinge, e si accascia piangente sul tavolino. Così, ugualmente gravata di uno schermo di silenzio e indifferenza, una ricercatrice in camice bianco chiacchiera al telefono sul clima, mentre a pochi passi una scimmietta immobilizzata e attaccata agli elettrodi geme con il corpicino impotente squassato dalle scosse elettriche. Una moglie smanetta con utensili da cucina, ignara del marito in sovrappeso che, colto da malore, agonizza silenzioso nella stanza accanto. E ancora così, degli schiavi africani vengono ricacciati a frustate dagli aguzzini colonialisti in un macchinario gigantesco che trasformerà la loro agonia in musica per le orecchie dei ricchi, che osservano placidi lo spettacolo sorseggiando un Martini. Le vite e i drammi degli uni scorrono accanto agli altri, che restano impassibili: per ignoranza, indifferenza, impotenza, pudore. Ognuno è ripiegato sulle proprie vicende e ammutolisce di fronte all'Alterità, all'imprevisto, al mistero. Eppure, la rete di relazioni e di compresenze, sulla terra e alla fermata dell'autobus, è fittissima e indissolubile: solo dal bouquet di esperienze diverse, dalla vicinanza, seppure muta, di intere folle, dal collage di sentimenti paralleli e plurali può emergere un qualcosa che non sia diario intimista ma ricco affresco della vita.