domenica 1 dicembre 2013

"Orfeo nero" di Jean-Paul Sartre

«I volti neri, queste macchie di notte che ossessionano le nostre giornate, incarnano il lavoro oscuro della Negatività che rode con pazienza i concetti.»

Sartre scrive "Orfeo nero - Una lettura poetica della negritudine" nel 1948 come saggio puramente introduttivo. Scritto per corredare l'"Antologia della nuova poesia negra e malgascia di lingua francese" curata dal Léopold Senghor, all'Orfeo nero è stata oggi riconosciuta la dignità di un testo a sé e proprio come testo in sé concluso è degno di essere letto. Straordinariamente denso e poetico, Orfeo nero non è solo il manifesto del diritto dei popoli colonizzati di poter produrre e possedere una poesia propria, indipendente da quella dei colonizzatori bianchi; è anche l'analisi del valore filosofico della négritude all'interno di una concezione dialettica della storia.
Infatti, se la negritudine è una categoria controversa sul piano antropologico e in buona misura assimilabile ad una forma di razzismo camuffato ed ingenuo, privo di scientificità e teso alla conservazione delle differenze surretiziamente inventate per distinguere le due razze umane, la bianca e la nera, Sartre ha il grande merito di cogliere e mostrare il potente significato storico della negritudine. La parentesi culturale inaugurata da Aimé Césaire e Léopold Senghor è una fase quasi necessaria nello sviluppo dell'umanità e della sua coscienza: è il momento dialettico dell'antitesi.
Risparmio l'esposizione dell'ideologia dell'uomo bianco dominato dalla "ragione ellenica" e dei valori contrapposti, passionali e dionisiaci, nell'uomo nero. Il vero peso della negritudine è nascosto sotto queste incrostazioni contingenti e consiste nella distillazione del

carattere decostruttivo del linguaggio poetico. La poesia, in quanto tale, è la possibilità di ricercare un senso non-concettuale, di forgiare un'episteme non matematizzata, non ossificata. 

«La poesia è una camera oscura nella quale le parole si urtano nei loro giri folli. Collisione nell'aria: si illuminano a vicenda per i loro incendi e cadono in fiamme.»

La poesia è decostruzione, è collisione distruttiva da cui emerge un nuovo ed imprevedibile significato: la poesia nera è il concentrato di questa funzione, perché in seguito ai «cortocircuiti del linguaggio: dietro la caduta in fiamme delle parole intravediamo un grande idolo nero e muto».
La lingua poetica, che è la stessa lingua borghese dei dominatori, viene piegata e forzata per aderire ad uno spirito che non le è proprio, quello dei malgasci e dei neri che non possiedono più una lingua materna originaria. La poesia esplode in tutta la sua potenza di strumento emancipatore, autoidentificativo, autoaffermativo. La negazione contenuta nella poesia è in quanto tale mezzo di liberazione: l'aspetto privativo delle tenebre ne fonde il valore come libertà. Meglio ancora: il nero non è solo la privazione della luce, ma ne è il rifiuto, la distruzione. Vediamo così la decostruzione, la negazione intrinseca alla fase antitetica farsi puro atto rivoluzionario.
Il nero è il rivoluzionario perfetto e la poesia della negritudine è la sua presa di coscienza di essere il proletario del mondo. La coscienza di classe degli operai bianchi dei Paesi occidentali, tuttavia, è oggettiva, costituita scientificamente sulle tesi del plusvalore, della lotta di classe, del materialismo storico-dialettico. La presa di coscienza del nero, invece, è tutta interiore e soggettiva, ancora per via del suo carattere antitetico: non è materia di discorsi economici o tecnici, ma è fonte della poesia.
La negazione spiana la strada (o almeno questo è l'auspicio) ad una terza fase dialettica: quella della sintesi. Nella congiuntura mediana della negritudine, scrive Sartre, dobbiamo provare a negare la fase precedente «strappandoci di dosso le nostre maglie bianche per tentare semplicemente di essere uomini».
La negritudine, allora, non è mera affermazione del nero contro il bianco, ma una fase del processo che porterà all'annullamento delle distinzioni tra il nero e il bianco. L'Orfeo nero è il poeta che discende gli inferi in cerca di Euridice: è l'uomo che torna dall'esilio culturale in cui è stato costretto dalla colonizzazione, che torna ad affondare nelle tenebre per riappropriarsi di sé, della propria identità e della propria dignità, in vista di una sintesi futura di luce e buio.
I neri «non pretendono di essere poeti della notte, ossia della rivolta inutile e della disperazione: annunciano un'aurora».

venerdì 15 novembre 2013

"Il gioco di Gerald" di Stephen King

«Esistono incubi che non scompaiono mai del tutto.»

Jessie è la Brava Mogliettina Burlingame, è la femminista mezza matta Ruth, è il Frugolino del suo papà. Ma, al momento, è soprattutto una donna ammanettata ad un letto.
Lei e suo marito si sono lasciati alle spalle la trafficata Portland per trascorrere un fine settimana tranquillo ma non troppo, laddove l'intimità coniugale deve fare i conti con le tendenze sadomasochistiche dell'avvocato Burlingame. La coppia si rifugia nella casetta sulle sponde del lago Kashwakamak. La stagione è bassa, l'area deserta, la casa praticamente isolata. Gerald ammanetta Jessie ai montanti del letto (con delle manette vere) e poi, colto da malore improvviso, pensa bene di tirare le cuoia. Sua moglie assiste al decesso piena più che altro di stupore (e solo a pagina 50 mostra un minimo di dispiacere per aver visto schiattare il compagno di una vita) e poi riflette tra sé: «Gerald è morto prima di potermi montare in groppa, eppure questa volta mi ha fottuta meglio del solito». Per lei, infatti, è l'inizio di un incubo che istante dopo istante, con l'accrescersi della sua consapevolezza, si fa più concreto e spaventoso. Immobilizzata, isolata dal mondo, accompagnata solo dalle voci «ufesche» delle sue personalità multiple, dal cadavere di Gerald, da un cane randagio che riesce a introdursi in casa e da una presenza lugubre e mostruosa, Jessie deve inventarsi qualcosa per avere salva la vita. Morire di inedia, mezza nuda, come conseguenza di un gioco erotico finito male sarebbe imbarazzante. La portata reale della minaccia si fa strada nella mente di Jessie, riempiendola di panico e spingendola sull'orlo della follia, e trascina con sé il ricordo di un orrore passato mai del tutto sepolto con cui la protagonista deve tornare a misurarsi nella sua sfida per la sopravvivenza.
Stephen King sforna un'altra delle sue trame geniali: un solo personaggio, una sola stanza, un arco temporale ininterrotto di neppure trenta ore. Le unità aristoteliche di azione, tempo e luogo sono radicalizzate e concentrate in un unico nocciolo pulsante di tragedia che pagina dopo pagina cerca di fluire via, verso un difficile lieto fine che la trasformi solo in un «momentaccio» felicemente superato. L'azione è straordinariamente circoscritta, la trama costruita con un lavoro di microchirurgia, lo zoom sui dettagli elevatissimo, la narrazione affidata quasi del tutto a movimenti introspettivi.
L'intuizione è originale e il tentativo estremamente audace: sviluppare un romanzo intero su una struttura così esile, su un'area quasi inestesa di trama e azione è possibile solo ad un autore di genio brillante e comprovato talento. Tuttavia, non innalzerei "Il gioco di Gerald" nel pantheon dei capolavori del Re per una ragione meramente formalistica: in diversi passaggi, lo stile non è all'altezza dell'intenzione e King non è al meglio delle sue possibilità. Non dirò di averlo trovato irriconoscibile, ma il suo procedere a tratti sembra artificioso e un po' forzato. Mi riferisco alla descrizioni dei malesseri della donna ammanettata, ad esempio, che sembrano presi pari pari da un'enciclopedia medica: una lista di sintomi copia-incollata con tanto di termini tecnici e ben poca elaborazione stilistica, un'asettico elenco di complicanze diligentemente studiate e spiattellate al lettore che prenderebbe più a cuore la condizione della vittima se fosse descritta attraverso i suoi occhi (che si presumono emotivamente coinvolti). Mi riferisco alla ricostruzione degli stati d'animo della protagonista, che non trovo del tutto verosimile, soprattutto nelle prime fasi della tragedia. Mi riferisco soprattutto a uno dei vezzi più tipici di King, che è l'uso frequente di similitudini ardite: nel "gioco di Gerald", credo che il Re finisca con lo sfornare delle immagini non solo forzate e infelici ma del tutto ridicole. Ho smarrito il passo preciso (e non ho la minima intenzione di rileggere tutto il libro per trovarlo) ma, giusto per dare un'idea, ad un certo punto la protagonista si dice smarrita come un-non-ricordo-che preda del vento di una notte di marzo senza luna, o una mostruosità simile.
Troppo artificio e troppa costruzione: la protagonista risulta antipatica, l'immedesimazione difficile, le lettura non faticosa ma neppure entusiasmante. Inoltre, in questo libro King si concede di indugiare un po' troppo su luoghi comuni e generalizzazioni di genere, banalizzando delle analisi di tema erotico che potevano essere oggetto di maggiore attenzione (abbondanza di materiale freudiano buttato quasi a caso) e tentando una trasposizione piuttosto ingenua e a tratti irritante di una psiche femminile. Vediamo uno sterile e semplicistico contrapporsi di banalità, del tipo: «più che dotati del pene, gli uomini ne erano afflitti» e «l'unico scopo di una donna è quello di portare a spasso una fica». Ovviamente c'è molta ironia ma non trovo che l'effetto sia molto ben riuscito.
Volendo essere meno pignoli e chiudere bonariamente un occhio sulle questioni stilistiche, possiamo leggere "Il gioco di Gerald" come una fiaba di emancipazione femminile: la Brava Mogliettina Burlingame violenta la propria psiche, costringendosi a far riaffiorare traumi passati, e il proprio corpo, pronta al sacrificio e allo sforzo in vista della liberazione dalle manette che è la liberazione dalla soggezione ai capricci sessuali del marito perverso. Jessie è il femminino che deve attraversare il dolore per approdare all'emancipazione. La neovedova Burlingame riconquista sé stessa, una Jessie padrona del proprio corpo e delle proprie scelte. Una metafora bella ed efficace, se non fosse poco credibile in un autore così maledettamente statunitense da essere a volte incontrollabilmente e forse inavvertitamente maschilista.

venerdì 1 novembre 2013

"Puerto Escondido" di Pino Cacucci

«Non l'ho mai sentita come una casa vera; le cianfrusaglie che ho accumulato alla rinfusa sono rimaste sempre in posizioni precarie, in attesa di qualcosa. Non c'è niente di indispensabile, qui dentro. Speravo di cambiare città per un motivo di lavoro, di innamoramento, di schifo per tutto, per un'occasione che forse non ho mai cercato sul serio. E magari sarei rimasto qui per sempre, a sopravvivere come ho fatto finora


L'anonimo protagonista trascina trascina la sua esistenza vuota e priva di stimoli in una Bologna asettica e inospitale, o almeno percepita come tale da quello che si autodefinisce «un disadattato» invidioso dei giovani che riescono ad essere (o apparire) felici. Ha una house ma non una home: si limita ad una sopravvivenza fisiologica. Inserito in modo maldestro e superficiale nella società, privo di legami affettivi e
scopi esistenziali, il protagonista che Cacucci mantiene (con un tocco di classe e una perfetta coerenza) nell'anonimato vive in uno stato di scontentezza cronica e solitudine. Le sue pulsioni più umane, ambizioni e sentimenti, sono come anestetizzate.
A scuotere la sua vita scialba e insignificante è il commissario Schiassi, un personaggio controverso, sanguinario ma estremamente bisognoso di affetto, praticamente folle, in ultima analisi assolutamente amabile. Prima cerca di assassinare il protagonista, poi si convince di aver trovato in lui il proprio unico amico e si salda alle sue costole. Proprio per sfuggire all'affetto del bizzarro commissario dal grilletto facile, il protagonista fugge alla volta dell'isola d'Elba.
Sulla sua strada incrocia Aivly, una donna misteriosa e intrigante che prima affascina il giovane fuggitivo e poi si richiude nella propria stranezza e nei suoi loschi affari. Il fulmineo e intenso innamoramento del protagonista è raccontato in un modo molto femminile: interiore, delicato, sofferto, come il relativo (brusco) allontanamento di lei.

«C'è stato un momento in cui forse ha smesso di fingere. Non so quanto sia durato, ricordo solo quella sensazione di naturalezza più forte dei nostri nervi contorti. La guardo di spalle, ripercorro la sua pelle, e mi cresce dentro una desolazione infinita, un bisogno di afferrarti e scuoterti e urlarti perché adesso sei così diversa.»


Prima catturato e ammanettato nella cabina di una barca, poi liberato (in maniera molto piratesca) in vista di una costa, il protagonista finisce innamorato e abbandonato, squattrinato e disorientato a Barcellona. Lì incontra altri giovani, figli come lui di una generazione smarrita e triste, che si stordisce nell'alcol e nella droga per rifuggire il senso di vuotezza, inadeguatezza, solitudine. Bazzica i locali più alternativi, resta coinvolto in zuffe, si fa di tutte le droghe che gli passino a tiro, si avvicina a Pill, punk nerovestita che si occupa di lettering e non ha mai fame. Arriva a pensare di fermarsi, almeno per un po'. L'illusione di aver trovato un senso e una casa vengono frantumate dall'arrivo sorprendente di Schiassi che spinge il protagonista ad una nuova fuga. Così, tra scambi di persona, viaggi esasperanti avventure contorte, il protagonista arriva in Messico.
Lì trova un «sole che carbonizza i capelli e fa colare il cervello dal naso», il compaesano Elio che prima lo deruba e poi lo coinvolge nel narcotraffico, ma soprattutto trova «un senso di vastità che in Europa si è estinto nella memoria genetica da almeno dieci generazioni».
A Puerto Escondido, meta di surfisti e di criminali, tra viaggi su una «corriera tenuta assieme coi miracoli», sparatorie, roghi di marijuana, tejónes e altri animali sconosciuti all'Europa, poliziotti-criminali, furti (subiti e compiuti), il protagonista trova nuovi amici e ritrova vecchie conoscenze. Forse è la sua destinazione finale, forse non può esserlo perché la ricerca di un senso è destinata a rimanere insoddisfatta. Di sicuro è la tappa di un'avventura dentro sé stesso e la vita messicana, coi suoi ritmi distanti dalla frenesia europea, è il nuovo paio di lenti con cui guardare a una vita rinnovata. 
"Puerto Escondido" non è uno spuntino, né un pasto ordinario, ma una colossale abbuffata che lascia un po' intontiti ma estremamente soddisfatti. È un libro estremamente accurato, brillante, caleidoscopico, ricco, divertente, trascinante. Ha uno spirito meravigliosamente interculturale, un sapore gustosamente picaresco. Cacucci è così dettagliato e documentato da far apparire verosimile una storia del tutto extra-ordinaria (sebbene ispirata ad un personaggio realmente vissuto, il veronese Claudio Conti). "Puerto Escondido" regala un'intensa voglia di viaggiare, di fuggire, di cercare, di innamorarsi, di farsi di peyote, di sfidare l'autorità. Il protagonista è così umano, così imperfetto, così disperatamente alla ricerca del suo posto nel mondo da farsi amare, da diventare un autentico amico dal quale non si vorrebbe più essere lasciati.
Un libro incredibile, variopinto e soddisfacente come pochi.

Nel 1992 Gabriele Salvatores ne ha tratto un bel film,
alquanto infedele alla lettera del libro ma altrettanto
fedele al suo spirito e alle sua suggestione.
Il protagonista (con il nome di Mario Tozzi) è interpretato
da Diego Abatantuono. Valerio Golino è Anita (Aivly)
e Claudio Bisio interpreta il bandito Alex (il
malinconico Elio del libro). Renato Carpentieri
interpreta il commissario Viola (lo squilibrato e adorabile Schiassi).

lunedì 28 ottobre 2013

Cuore di tenebra, Joseph Conrad

Il cuore di tenebra è un luogo situato al centro mondo. Un luogo che la "civiltà", ossia la cultura occidentale, ha cominciato a sfiorare, ma non è riuscita a penetrare, e forse non ci riuscirà mai. Sarà questo luogo selvaggio, inquietante e originario, a penetrare negli uomini della civiltà che vivranno quel luogo: sarà come un ritorno all'origine dell'umanità, all'origine di se stessi.
Questa è l'esperienza narrata dal capitano Marlow ai suoi marinai, i quali aspettano l'arrivo dell'alta marea per proseguire il loro viaggio nella terra madre della civiltà, l'Inghilterra. Marlow incanta i suoi ascoltatori con la sua narrazione, un'esperienza fuori dal comune, un incontro straordinario: l'incontro con un mondo assurdo, estraneo e originario, l' incontro con un uomo straordinario, magnifico ed orribile, saggio e sanguinario, il capitano Kurtz.
L'esperienza straordinaria di Marlow ha inizio dalla sua ossessione per i luoghi selvaggi e deserti, per quei posti affascinanti ed inquietati al tempo stesso; la sua indole avventurosa lo porterà nel cuore dell'Africa, un cuore oscuro e misterioso.
"È vero, da quel tempo non è ormai più uno spazio vuoto. Fin dalla mia fanciullezza si era riempito di fiumi di laghi e di nomi. Aveva cessato di essere uno spazio vuoto piacevolmente misterioso - uno spazio bianco sul quale un ragazzo potesse sognare la gloria. Era diventato un luogo di tenebra. Ma c'era in esso soprattutto un fiume, un gran fiume possente, che si poteva vedere sulla carta, simile ad un enorme serpente srotolato, la testa nel mare, il corpo in riposo le cui anse si snodavano lontano su una vasta regione, e la coda era perduta nelle profondità di quel territorio. E quando lo vidi sulla carta nella vetrina di un negozio, mi affascinò come farebbe un serpente con un uccello - uno stupido uccellino. Poi ricordai che c'era una grossa impresa, una compagnia commerciale con basi su quel fiume. Accidenti!, pensai tra me, non possono commerciare senza usare qualche specie di imbarcazione su quella gran massa d'acqua dolce - battelli a vapore! Perché non tentare di ottenere il comando di una? Proseguii lungo Fleet Street, ma non riuscii a liberarmi di quell'idea. Il serpente mi aveva incantato."
Giunto in questa terra "aspra e forte, che nel pensier rinova la paura",  la prima sensazione di Marlow è quella di una profonda insensatezza, sentimento che lo accompagnerà per tutto il suo viaggio. I villaggi sono deserti a causa della colonizzazione europea: non solo gli abitanti, ma le abitazioni stesse sono scomparse. Un immenso nulla si apre di fronte allo sguardo di questo uomo sceso negli inferi, venuto a cercare il senso stesso della sua esistenza nel centro della Terra. Tutto è incomprensibile: le grida dei selvaggi, la loro stessa presenza. Il tono del racconto è onirico: sembra che si stia descrivendo un'allucinazione, piuttosto che un'esperienza concreta e reale. Un sogno, un incubo, un senso di attesa e di sospensione nel vuoto. Marlow pensa a Kurtz, a questo grande e leggendario cacciatore di avorio, uno dei migliori, una leggenda divenuta motivo di inquietudine e di imbarazzo per i coloni occidentali, per chissà quale motivo.
Bisogna raggiungere Kurtz, Marlow sa solo questo, pensa solo al momento in cui potrà conoscerlo.

Il cuore di tenebra è un luogo dentro noi. È il nostro stesso cuore. Siamo noi quando saltano per aria tutte le convenzioni e le costruzioni sociali che ci danno sicurezza, che ci permettono di vivere. È la nostra mera natura, aspra e selvaggia come una terra dimenticata dalla civiltà, inquietante ed incomprensibile.
È quasi impossibile addentrarsi in questo luogo, ma Kurtz lo ha fatto: è giunto nel cuore dell'Africa, e da qui, ha raggiunto il suo cuore di tenebra.
Kurtz è spietato, è un pazzo, è solito decapitare i suoi nemici, infilare le teste su dei pali, ed esporle intorno alla sua casa; gli altri coloni della compagnia non ne condividono i "metodi". I metodi? Marlow si chiede che senso abbia condividere o meno i metodi di un cacciatore d'avorio che massacra decine di uomini per ottenere ciò che vuole. Esiste un metodo condivisibile?  È assurdo, insensato, agghiacciante.
Questi pensieri porteranno Marlow a sentirsi vicino a Kurtz, a trovare nella sua esperienza un senso. Il senso è l'assenza di senso. Il senso sono le nostre piccole e rassicuranti ipocrisie, costruzioni precarie, fragili. È il venire meno di queste costruzioni a contatto con la natura selvaggia.
Kurtz sintetizza il senso della sua vita in una sola parola, pronunciata poco prima di morire: "Orrore!".

"Kurtz era un uomo notevole. Lui aveva qualcosa da dire. L'aveva detta. Siccome io stesso avevo sbirciato dall'orlo del precipizio, capisco meglio il significato del suo sguardo fisso, che non poteva vedere la fiamma della candela, ma era abbastanza ampio da abbracciare l'universo intero, abbastanza pungente da penetrare tutti i cuori che battono nelle tenebra. Aveva tratto le somme - aveva giudicato. "Orrore!". Era un uomo notevole. Dopo tutto, quella era l'espressione di un qualche credo; aveva candore, aveva convinzione, aveva una vibrante nota di rivolta nel suo sussurro, aveva la faccia spaventevole di una verità intravista - lo strano mescolarsi di desiderio e odio. E non è il mio momento estremo che ricordo meglio - una visione di grigiore senza forma ricolmo di dolore fisico, e un noncurante disprezzo per l'evanescenza di tutte le cose - persino di quello stesso dolore. No! È il suo momento estremo che mi sembra di aver vissuto."

Ispirato a questo romanzo è  Apocalypse Now, film del 1979 realizzato da Francis Ford Coppola. La genialità del regista sta nel riportare il senso stesso del romanzo in un contesto differente: dall' Africa colonizzata di fine Ottocento, si passa al Vietnam invaso dagli americani negli anni Sessanta. Il regista traduce in immagini l'insensatezza che Conrad esprime a parole.
Sia leggendo il romanzo, che guardando il film, si compie un viaggio, si attraversa l'orrore, si comprende che la guerra, la violenza, il dolore sordo e insensato delle vittime innocenti, lungi dall'essere espressione di una razionalità superiore (sia essa Commercio, Libertà, Democrazia), altro non è che delirio.

sabato 26 ottobre 2013

L'ultimo dei poeti beat - John Giorno


Noi di Caratteri Vaganti non potevamo farci scappare un'occasione ghiotta come un incontro con quella "epifania poetica" che è John Giorno, l'ultimo dei porti beat. L'evento, organizzato al Cineporto di Bari il 7 Ottobre, nasce dalla collaborazione tra l'Università degli Studi di Bari e il Centro Studi di Apulia Film Commission e si propone di presentare al pubblico l'uomo che, ormai settantasettenne, ha realizzato una incredibile sinergia tra la voce e la poesia. Con Giorno, la "Spoken Word" diventa, infatti, essa stessa poesia, manifestandosi come ciò che fa parlare i caratteri "meramente" impressi sulla carta. La poesia è performance e il poeta è un modulatore di suoni, che usa la voce alla stregua della penna. Per un poeta di tal genere non si parla, dunque, solo di una bibliografia, ma di una vera e propria discografia: di John sono famosi l'lp del 1967 "Rasberry and Pornographic Poem" e il cd del 1993 "Cash Cow. The best of Giorno Poetry Systems, 1965-1993".


John Giorno durante una performance
L'approdo a questo tipo di scrittura parlante è stato sicuramente un approdo graduale in qualche modo influenzato dal lavoro della "Factory" warholiana. Ebbene, beat generation e pop art sono due mondi inconciliabili che, tuttavia, si sono amalgamati nella persona di John Giorno: «Sono stati una fonte di ispirazione. Loro facevano questo lavoro con la pittura e ho pensato: perché non fare la stessa cosa con la poesia?», ci dice John durante l'intervista coordinata dalla professoressa Francesca Recchia Luciani, docente di Storia della Filosofia Contemporanea. Così, al 1965 risale il progetto "Dial-A-Poem": chiunque, componendo dei numeri telefonici, poteva ascoltare cinque minuti di poesie perlopiù dal tema sensuale. Una provocazione, certo, ma anche il tentativo lucido e legittimo di dare spazio all'attività poetica: come ci suggerisce la professoressa, il tentativo era quello di portare la poesia dove era arrivata la pop art.
Warhol e Giorno divennero amanti e collaborarono per realizzare "Sleep" (1963), il primo film in cui il corpo di un uomo veniva presentato "come campo di luci e ombre": si trattò di riprendere John dormiente per 5 ore e 20 minuti.
Il documento visivo di Manlio Capaldi ci mostra il lato più intimo e sconosciuto della relazione tra i due: significativi sono il racconto della morte di John Fitzgerald Kennedy («La morte di J.F.K. sembrava indicare la morte delle certezze dei desideri di tutti») e la spiegazione del quadro che Warhol realizzò con una Jackie Kennedy devastata dal dolore, muta e implacabile nella sua bellezza perfetta.
Fu però un altro quadro a convalidare questa forte amicizia: "Bellevue I", del 1963, che poi Giorno vendette ad un collezionista. Anni dopo commentò: «Glielo vendetti...l'ultima benedizione degli anni '60!».


Andy Warhol, Jackie Kennedy, 1964


Andy Warhol - Bellevue I, 1963

John ci parla del suo passato con un sorrido nostalgico e, qualche volta, con una risata contagiosa. Se il pubblico gli chiede qualche aneddoto, eccolo mostrare una disponibilità incantevole e una simpatia straordinaria: nel 1958, quando era un anonimo laureato della Columbia University, andò ad una festa con una amica. Tra gli invitati spiccavano Jack Kerouac (che l'anno prima aveva pubblicato "On the Road") e Allen Ginsberg (che era ancora imputato per aver scritto "Urlo"). Il primo, con un evidente "gay behaviour", si avvicinò al novellino, ma la confusione non permetteva loro di capirsi. «Questo è un incubo! Jack Kerouac mi sta parlando e io non sento!» racconta Giorno, tra le risate del pubblico.




Gli occhi vispi di questo incredibile poeta ci colpiscono profondamente e si ergono a testimoni di una professione di fede: «La poesia, che è saggezza, sorge prima come luce e poi come suono. La poesia è parole, le parole sono suono, il suono è saggezza, la saggezza è luce. Detto altrimenti: la luce è saggezza e il suo suono è composto da parole che contengono la poesia. [...] Nella performance, la luce può divenire un punto morto se non la trasformi in un'energia che è calore, e il calore è sudore, e il sudore è il poeta che fluttua su questa soglia.» (La saggezza delle streghe, Stampa Alternativa, 2006)
La poesia ha a che fare con la fisicità, con una gestualità marcata che si imprime nello spettatore con una delicata violenza: la performance di John  Giorno è qualcosa che bisogna vedere almeno una volta nella vita perché, inesprimibile, è una di quelle esperienze che devono essere capite in quanto vissute e metabolizzate. Quando Domenico Brancale gli dice che qualcuno ha detto che la poesia è erezione, Giorno risponde: «Lo spero proprio!». Noi non possiamo che sorridere, ammirando la profondità dietro l'ironia, la poetica dietro la voce, la forza pimpante dietro il viso stanco di un settantasettenne.

Vi salutiamo con due regali: il primo è il video del singolo con cui i R.E.M., nel 2011, diedero l'addio alle scene musicali. Il secondo è un pezzo della performance di John del 7 Ottobre.



venerdì 25 ottobre 2013

"Le stelle che stanno giù - Cronache dalla Jugoslavia e dalla Bosnia Erzegovina" di Azra Nuhefendić

«Guardando dalle finestre, di notte, le luci della città apparivano come fossero delle stelle. "Guarda, le stelle stanno giù", diceva da bambina.
Anche noi adulti contiamo le stelle di Sarajevo che stanno sotto.»

Dei punti luminosi, terreni e terrestri, scambiati per stelle cadute: è la sacralità della "fratellanza dei popoli jugoslavi" che precipita su una terra dilaniata da contrasti fratricidi. Alla morte di Tito, le contraddizioni esplodono e non ci sono più Jugoslavi, ma Bosniaci, musulmani, Serbi, cattolici, Croati, comunisti atei. I solchi sono culturali, religiosi, etnici, e laddove la lingua parlata dagli ex-jugoslavi sia quasi identica ovunque si pretende anche ci siano barriere linguistiche.
In questo magma vorticante di contrasti e violenza, la giornalista Azra Nuhefendić è profondamente avviluppata.

«Pochi mesi dopo l'inizio della guerra in Bosnia Erzegovina, mi licenziarono dal lavoro. Nella capitale della Serbia, il Paese che faceva la guerra alla Bosnia Erzegovina, a Belgrado, una musulmana non poteva sperare di trovare lavoro. Disoccupata, dichiarata un nemico pubblico, cercavo di sopravvivere

Coi diciotto racconti della raccolta, Nuhefendić ci trascina nelle odissee piccole e gigantesche di chi per la guerra ha perso il lavoro, la casa, la considerazione altrui, l'identità. Le contraddizioni dell'ex-Jugoslavia ci sono raccontate attraverso la storia della Zastava di "Kragujevac la rossa", la fabbrica dal passato solidamente socialista i cui operai negli anni Duemila manifestavano per poter continuare a produrre e vendere armi; la storia del "Six billion baby", il seimiliardesimo nato dell'umanità, che divenne occasione di pubblicità e risalto per l'allora presidente dell'ONU Kofi Annan per poi essere rigettato nella sua condizione poco migliore della miseria; la storia della Haggadah di Sarajevo, un manoscritto che gli Ebrei sefarditi portarono da Barcellona dopo l'espulsione del 1492 e che, tra atti di viltà e di coraggio, riuscì a sopravvivere ai secoli e infine alla follia nazista; attraverso la storia di Alija Sirotanović, il minatore che batté il record di Stahanov (estraendo coi suoi compagni ben 154 tonnellate di carbone) e diventò l'eroe nazionale, il volto stampato sulla banconota da dieci dinari negli anni '50.

«A Belgrado, fu ricevuto dal presidente Tito in persona e decorato con la Medaglia dell'Eroe. 
Scrivevano che Tito gli avesse domandato cosa egli volesse per sé. E Alija chiese due cose: che portassero l'elettricità nel suo paesino e che lo collegassero, con pochi chilometri di strada asfaltata, alla città più vicina. Detto fatto. Dopo, insistettero perché Alija esprimesse un desiderio più personale. Fedele a se stesso chiese una vanga più grande, per poter prendere più carbone.»

Piccole storie ereditate da una Jugoslavia socialista ormai in pezzi. Racconti tenebrosi di guerra, racconti semplici e toccanti di umanità e speranza. Nuhefendić racconta la sua Bosnia (e anche la sua Jugoslavia) attraverso uno stile snello, pulito, giornalistico: stupisce, coinvolge, istruisce e commuove senza artifici né facile retorica. I suoi diciotto racconti brillano per la propria intrinseca potenza narrativa, puri plot spesso didascalici e ricchi di digressioni e divagazioni. Chiaro e potente, "Le stelle che cadono giù" si legge in mezza giornata e lascia la gola riarsa, il desiderio inappagato di lasciarsi condurre ancora da Nuhefendić nella terra pacificata della sua infanzia, in quella dilaniata della sua età adulta. È una piccola lucente sorpresa, un libro raro e delicato che spalanca una finestra su una realtà storica e geografica che è interessante ed edificante indagare nei suoi risvolti più tangibili, umani, intimi. Un autentico Hemingway bosniaco, Azra Nuhefendić ci affida le sue cronache semplici come racconti orali, chiari come articoli, vividi come frammenti di vita vissuta.
Ogni racconto è un nocciolo di luce, una stella caduta giù per farci esprimere un desiderio. Quello di un'"internazionale futura umanità" in cui gli uomini smettano di scannarsi tra loro ed immiserirsi e dimenticarsi gli uni degli altri.

mercoledì 16 ottobre 2013

"I dannati della terra" di Frantz Fanon

Chi sono i dannati della terra?
Sono «les damnés de la terre», «les forçats de la faim» ("i forzati della fame"), «foules, esclaves» che l'Internazionale incoraggia ad alzarsi in piedi con il suo «Debout!». Sono gli schiavi della Terra, gli oppressi, gli uomini relegati da altri uomini ad una condizione di minorità, misera, subumana e priva di dignità. Sono i servi della gleba e i proletari del nostro mondo occidentale, ma nell'opera di Fanon sono soprattutto i colonizzati: i popoli latino-americani, asiatici e nordafricani, schiacciati, dominati e sfruttati dall'Europa e dal «mostro supereuropeo» suo figlio, gli Stati Uniti.
Nato nel 1925 nella Martinica francese, discendente di schiavi africani, Fanon si è sempre trovato immerso nella condizione di sudditanza e di menomazione culturale che caratterizza il colonialismo. La sua condizione di piccolo-borghese gli permise di studiare psichiatria, filosofia, sociologia fino a diventare l'ideologo del terzomondismo. Il suo disgusto per le violenze operate dagli Europei ai danni dei popoli colonizzati lo portarono a militare nella Resistenza francese durante la Seconda Guerra Mondiale, per poi trasferirsi nell'Algeria che lottava per la propria indipendenza e collaborare alle operazioni dell'F.N.L. (il Fronte di Liberazione Nazionale algerino).

"I dannati della terra" è una ricerca estremamente ricca, attenta e raffinata sul tema del colonialismo, sui suoi risvolti sociali e culturali, sulle sue tragiche implicazioni per i popoli colonizzati.Vivendo sul campo e lavorando per i ribelli durante la Guerra d'Algeria, Fanon poté anche raccogliere materiale psichiatrico (che costituisce l'ultima parte dell'opera) sconvolgente, che corrobora la sua tesi e la sua accurata riflessione sociologica: un uomo diventato impotente in seguito allo stupro subito da sua moglie ad opera di un soldato francese, un padre di famiglia spinto sull'orlo della follia dal lavoro che lo obbliga a torturare i partigiani algerini per dieci ore al giorno, due bambini algerini che, subissati di messaggi di violenza e razzismo, testimoni delle angherie subite dal proprio popolo finiscono con l'assassinare brutalmente il loro compagno di giochi francese. La violenza distruttrice del colonialismo si riflette sulla mente e sul corpo delle vittime, che somatizzano impotenza, alienazione, dissociazione, spersonalizzazione in una serie di psicosi, irrigidimenti muscolari, attacchi nervosi, allucinazioni, deliri di persecuzione e auto-accusa, tentati suicidî.
L'opera analizza con enorme attenzione la dialettica che si instaura tra coloni e colonizzati, l'insieme di meccanismi che scattano a livello internazionale in risposta ad occupazioni, violenze colonialiste o tentativi di emancipazione da parte dei popoli occupati. Il rapporto tra Nord e Sud del mondo è sviscerato dal punto di vista fenomenologico e teorico, è illustrato con assoluta trasparenza. Fanon spiega che il Terzo Mondo non è una creazione dell'Europa, ma «l'Europa è letteralmente la creazione del Terzo Mondo», perché costruisce il suo potere, la sua ricchezza, la sua fama, la sua tecnica sulle risorse estorte ai Paesi sottosviluppati. La presa di coscienza di questa dialettica servo-padrone, per cui è il Primo Mondo ad avere disperatamente bisogno del Terzo Mondo (da violentare e sfruttare, ovviamente), è un primo passo da parte dei popoli colonizzati sulla strada dell'emancipazione culturale e infine politica. Infatti, Fanon illustra il nesso inscindibile tra la formazione di una coscienza nazionale, la riappropriazione di identità popolare, la lotta armata e infine la rivoluzione politica che possa condurre un popolo oppresso ad una nuova libertà.
«Miseria del popolo, oppressione nazionale e inibizione della cultura sono una sola e medesima cosa» e questo è evidente: dacché l'uomo esiste e fa danni, gli invasori e i colonizzatori si sono sempre adoperati per la distruzione delle culture native parallelamente alla violenza armata e allo sfruttamento economico. Se questo è vero (ed è vero) in un senso, Fanon mostra che può esserlo anche nell'altro: l'autoaffermazione culturale, l'emancipazione dal dominio linguistico, religioso ed ideologico imposto dagli occupanti, la riscoperta della cultura delle origini accompagna il processo politico che può fare del colonizzato, dell'indigeno, del sottouomo un nuovo uomo, un uomo libero. Alla domanda: «la lotta nazionale è una manifestazione culturale?», Fanon risponde che «la lotta organizzata e cosciente intrapresa da un popolo colonizzato per ristabilire la sovranità della nazione costituisca la manifestazione più pienamente culturale che esista». Un popolo che sia stato annichilito, il cui pensiero sia stato atrofizzato, la cui dignità sia stata misconosciuta, ha bisogno innanzitutto di riscoprirsi popolo per poter desiderare e attuare la propria riabilitazione come tale.
Nel processo per cui «la "cosa" colonizzata diventa uomo» è allora importante il ruolo dell'intellettuale e dell'artista. Prima dei fermenti rivoluzionari e durante le guerriglie per l'indipendenza, vediamo modifiche nella lavorazione del legno o di altro materiale da parte degli artigiani tradizionali, ad esempio: «animando volti e corpi, prendendo come tema creativo un gruppo avvitato su uno stesso zoccolo, l'artista chiama al movimento organizzato». L'introduzione del moto nelle composizioni estetiche, il maggiore fermento e le innovazioni nelle manifestazioni culturali, l'abbandono del formalismo sono il riflesso della coscienza nazionale che matura e ribolle. Osservazioni analoghe riguardano la produzione musicale, orale, scritta. Dopo una prima fase di omologazione con la cultura dell'occupante (è il caso degli indigeni africani e nordafricani che sono stati istruiti e formati attraverso l'istituzione di scuole francesi, apprendendo la lingua del colono, studiandone e apprezzandone la letteratura), l'intellettuale colonizzato riscopre la cultura originaria del suo popolo e cerca di rinverdirla, la fa fermentare, cerca di diffonderla, se ne serve come strumento di propaganda e di lotta.
Se il nazionalismo è reazionario nel mondo occidentale, esso è progressista in un Paese del Terzo Mondo: affermare la propria identità nazionale è per un popolo colonizzato una tappa fondamentale verso la libertà dalla violenza straniera, verso l'appropriazione di un'identità riconosciuta a livello internazionale che permetta il dialogo con gli altri Paesi. «La coscienza di sé non è chiusura alla comunicazione. La riflessione filosofica ci insegna invece che ne è la garanzia». Scattano allora una serie di meccanismi che coinvolgono amici e nemici di tutto il mondo: se altri popoli oppressi vedono nel ribelle un compagno di lotta e una fonte di ispirazione, gli artefici del colonialismo e i propugnatori della sua ideologia si sentono minacciati e tenuti ad intervenire con la forza.


«Castro prende il potere a Cuba e lo dà al popolo. Quest'eresia è risentita come flagello nazionale tra gli yankees e gli Stati Uniti organizzano brigate controrivoluzionarie, fabbricano un governo provvisorio, incendiano i raccolti di canna, decidono infine di strozzare spietatamente il popolo cubano. Ma sarà difficile. Il popolo cubano soffrirà ma vincerà. Il presidente brasiliano Janos Quadros, in una dichiarazione d'importanza storica, ha ora affermato che il suo paese difenderà con tutti i mezzi la Rivoluzione Cubana. Perfino gli Stati Uniti forse indietreggeranno davanti alla volontà dei popoli. Quel giorno, noi metteremo fuori le bandiere, poiché sarà un giorno decisivo per gli uomini e per le donne del mondo intero. Il dollaro che, tutto sommato, è garantito soltanto dagli schiavi ripartiti sul globo, nei pozzi di petrolio del Medio Oriente, nelle miniere del Perù o del Congo, nelle piantagioni dell'United Fruits o di Firestone, cesserà allora di dominare con tutta la sua potenza quegli schiavi che l'hanno creata e continuano a testa vuota e pancia vuota a nutrirlo della loro sostanza.»


Capita anche che un capo di Stato europeo dichiari di voler aiutare i Paesi sottosviluppati, in un moto di strepitosa benevolenza. In casi del genere, Fanon osserva come gli ex-colonizzati non trepidino (e giustamente!) di riconoscenza: non si tratta di un'opera di carità o di un esempio di liberalità, ma di un dovere sacrosanto. Le potenze capitaliste devono pagare, e questo risarcimento è dovuto ai Paesi colonizzati, e non è comunque sufficiente a ripagarli dei danni subiti.
Infatti, l'Europa si è macchiata nel corso della storia di un'infinità di delitti, «di cui il più efferato sarà stato, in seno all'uomo, lo squarcio più patologico delle sue funzioni e lo sbriciolamento della sua unità; nel quadro d'una collettività, la rottura, la stratificazione, le tensioni sanguinose alimentate da classi; infine, alla scala immensa dell'umanità, gli odi razziali, la schiavitù, lo sfruttamento».
Ne "I dannati della terra", Fanon non si rivolge a questa Europa violenta e sfruttatrice, né agli Stati Uniti e alle loro ambizioni: gli interlocutori dell'autore sono proprio «les damnés de la terre», gli schiavi, i colonizzati. A loro Fanon rivolge un appello accorato: questo libro, il pilastro ideologico e teorico del terzomondismo, è un vero e proprio manifesto di liberazione dell'oppressione, di redenzione dell'Uomo propriamente umano dalle violenze azzeranti dei più forti, di recupero della propria dignità annullata dal capitalismo, dallo sfruttamento, dal sistema economico. "I dannati della terra" è un libro che non dovrebbe mancare nella libreria di nessuno.

sabato 5 ottobre 2013

"Il bar sotto il mare" di Stefano Benni

«- Siamo stati lieti di averla tra noi - disse il vecchio con la gardenia - e ci auguriamo che lei non vorrà venire meno alla nostra consuetudine: chiunque entra nel bar sotto il mare deve raccontare una storia.»

Un vecchio con la gardenia all'occhiello, tre uomini col cappello, un marinaio, una bionda, un nano, una sirena, un cuoco, un cane, la sua pulce, un uomo invisibile... Questi e altri sono gli avventori del bar sotto il mare. Un anonimo ospite si immerge con nonchalance nei flutti e arriva nell'onirico bar sotto il mare, dove nessuno esce senza aver ascoltato le storie degli altri e averne raccontata una a sua volta.
Ogni avventore prende la parola in un giro di valzer verbale: raffiche di parole, di stili, di citazioni, di suggestioni si susseguono a ritmo serrato, 24 racconti (più prologo) che Benni snocciola con mano liberale e frizzante. Leggere questa raccolta è come sgranare un rosario, un racconto via l'altro, in un concatenarsi avvincente e leggero.
Benni lancia occhiate fugaci ma gustose su ambientazioni del tutto diverse: un ristorante francese di mezzo secolo fa, i mari tropicali, una lussuosa California, la giungla nera africana, una dittatura sudamericana non meglio specificata e l'incredibile paesino di Sompazzo, nei cui pressi atterrano marziani innamorati e i cui abitanti ne vedono e vivono di tutti i colori. Tra i mille ambienti delineati in modo essenziale e brillante da Benni, Sompazzo è quello che strappa più sorrisi, tra le imprese da Pirgopolinice dei suoi uomini e le follie sproporzionate del suo clima. Nell'anno del tempo pazzo, ci si addormenta sotto un albero carico di mele acerbe e ci si sveglia coperti di marmellata. E se scoppia una diatriba tra due amici per una bicicletta senza proprietario, essa viene risolta in tre tempi: a fiatate e a vino e salsiccia, ma solo dopo un primo round di insulti. Ettore e Achille di Sompazzo, dopo essersi scambiati piccanti offese in rima e prima di sciorinare improperi in un'incomprensibile scriptio continua dialettale, fanno tappa sull'insulto politico:

«Carogna fetente di un fascistaccio più fascista di tutti i padroni fascisti della casa del fascio più fascista del peggio fascista che a confronto a te Mussolini era un compagno che compagno a tresette ti ci vorrebbe Kappler e compagno a bocce il führer che sei più fascista di un prete fascista e più democristiano di un treno di suore e fascista più di tutte le esseesse passate di qua e di tutti i dittatori del Vanzenzuela e di tutti i preti che c'è a Roma e di tutti i padroni che c'è al mondo.»

Basta sfogliare un attimo il libro per essere colpiti dalla varietà e dalla versatilità di cui fa sfoggio Stefano Benni. Modella il proprio stile in base al racconto (tetro e misterioso nel racconto in stile Edgar Allan Poe, snello e fiabesco in quello del venditore di tappeti, composto di grammelot e supercazzole marziane quello sull'alieno innamorato), sempre conservando un registro colto, un tono vivace e una piacevole leggerezza.
"Il bar sotto il mare" è un cabaret di racconti gustosi, divertenti, intelligenti e mai scontati, una carrellata di storie brevi o brevissime che si leggono tutto d'un fiato. Consigliatissimo!

«IL RACCONTO DELLA PULCE DEL CANE NERO
RACCONTO BREVE

C'era un uomo che non riusciva mai a terminare le cose che iniziava. Capì che non poteva andare avanti così. Perciò una mattina si alzò e disse:
"Ho preso una decisione: d'ora in poi tutto quello che inizie..."»

venerdì 4 ottobre 2013

"Ragione e sentimento" di Jane Austen

Pubblicato anonimo nel 1811 ed inizialmente intitolato "Elinor e Marianne", "Ragione e sentimento" è il primo romanzo compiuto della preromantica Jane Austen. Nonostante la congiunzione copulativa presente nel titolo, l'idea che si impone immediatamente è quella di un contrasto (niente affatto ostile, meglio forse dire una divergenza) tra le due protagoniste, appunto Elinor e Marianne.
Diciannovenne la prima, diciassettenne la seconda, le sorelle Dashwood incarnano due perfetti antipodi caratteriali, la passionalità e la posatezza, maldestramente rese dal titolo italiano "Ragione e sentimento" (non è poca la differenza col titolo in lingua inglese, "Sense and sensibility", che nessuna delle alternative italiane è mai riuscita a rendere soddisfacente, neppure il "Sensibilità e buon senso" proposto nel 1945 da Evelina Levi, che pure si avvicina di più al risultato auspicato e conserva l'allitterazione dell'originale). La contrapposizione tra la ragione e il sentimento, infatti, sembrerebbe suggerire una soggiacenza all'amore da parte di una protagonista e un'austera indifferenza (insensibile e magari calcolatrice) da parte dell'altra. Non è affatto così.
Infatti, la primogenita, Elinor potrebbe essere considerata incarnazione di un ottimo antirazionalismo, piuttosto che di una fredda razionalità a tenuta stagna. Come sua sorella è innamorata (del poco brillante e caratterialmente amorfo Edward Ferrars), ma fa sfoggio del suo "sense" mostrando un carattere pacato e la capacità di gestire le proprie pene amorose con dignità. Diversamente,

"Ragione e sentimento" nella 
bellissima edizione curata da 
Dacia Maraini per la collana
 "Grandi Autrici" del 
Corriere della Sera
«Marianne Dashwood era nata per un singolare destino. Era nata per scoprire la falsità delle sue opinioni e per sconfiggere con la sua condotta le sue massime più care

La secondogenita è infatti impulsiva, preda di stati d'animo tracotanti ed ingestibili, al punto da finire allettata, indebolita e considerata in fin di vita in seguito alle pene d'amore (che, del tutto analoghe a quelle di Elinor, sono subite con trasporto piuttosto che affrontate).
Infine la terzogenita, Margaret, «aveva già assorbito una discreta quantità del romanticismo di Marianne senza aver la sua intelligenza, non prometteva, a tredici anni, di uguagliare le sorelle in un periodo più avanzato della sua vita». In poche parole è un'indegna nullità che si limita a fungere da tappezzeria, brillando per la sua assenza e irritando per la mediocrità che emerge da quell'unico rigo di descrizione che le è concesso in tutta l'opera.
La storia delle due sorelle maggiori si dipana tra villeggiature di campagna e soggiorni nella trafficata Londra, nell'accogliente benché modesto villino di famiglia e nei salotti altrui, in un avvicendarsi estenuante di ricevimenti, gite ed inviti. Con un'ironia che sembra a tratti lasciar affiorare una punta di disprezzo, Jane Austen offre spaccati attenti ed eloquenti della società borghese e aristocratica tardo-settecentesca e dei primi dell'Ottocento, dandone un'immagine piuttosto squallida. La necessità di intessere pubbliche relazioni, di curare la propria immagine e di stringere i rapporti giusti campeggia nelle preoccupazioni dei personaggi, che si dedicano senza requie all'abbellimento della propria dimora e alla selezione delle giuste frequentazioni, e che consumano il proprio intelletto e spremono le proprie meningi nella decisione su come trascorrere il pomeriggio (esercizio al pianoforte o gitarella sui verdi prati fuori porta?). Neanche il rubacuori Willoughby è esente da critiche (del resto meritate) per il suo opportunismo.

«"Tutto il suo comportamento" rispose Elinor, "dal principio alla fine di questo affare, è stato basato sull'egoismo. E' l'egoismo che da principio lo ha fatto scherzare col tuo affetto; che in seguito gli ha fatto ritardare la dichiarazione del suo, e che finalmente lo ha portato via da Barton. Il proprio piacere, o il proprio vantaggio, è stato sempre, in ogni particolare, il principio che lo ha diretto"

Il frammento di società messo a nudo in "Ragione e sentimento" (come in tutta la produzione della Austen) è dei più repellenti. Gentaglia ben vestita e benpensante che vive di rendita e si sdilinquisce in affettati convenevoli, misconoscendo la fatica come l'autenticità dei rapporti umani. Si potrebbe godere del caustico sguardo dell'autrice se in "Ragione e sentimento" si conservassero intatti e coerenti quel tono critico e quella ironica presa di distanza che mi hanno fatto apprezzare "Lady Susan". Invece, nonostante i personaggi che fungono da contorno e sfondo (l'ottusa lady Middleton con i suoi marmocchi, la pettegola signora Jennings convinta con le sue invadenti e maldestre pratiche da agente matrimoniale dilettante, le sorelle Steele con i loro modi da gattemorte, la gelosissima e perfida Sophia Grey che si disputa il belloccio Willoughby con Marianne) siano spietatamente descritti in tutta la loro pusillanime superficialità, anche le due protagoniste sembrano avviluppate nella mentalità del loro ceto.
Anche loro vivono di salotti e tempo libero, osservarlo è ovvio e banale, oltre che superfluo. La narratrice cerca di rendere le sue protagoniste più apprezzabili mostrandone le sofferenze amorose, le oneste intenzioni, la sincerità dei sentimenti, il mancato attaccamento ai rapporti intessuti per interesse o per prestigio. Quando una delle due sorelle riesce a coronare il suo sogno d'amore, accasandosi con l'amato, ogni lettore si direbbe appagato così e sguazzerebbe festoso nel lieto fine. Invece, Jane Austen rimane vittima della mentalità borghese che sembra tanto aspramente criticare, e si mette a puntualizzare sulla rendita del marito, sull'eredità dei suoceri, sul fato benevolo che garantisce ai neosposini maggiore benessere di quello preventivato (poveri cari, non si poteva certo lasciare che la protagonista vivesse modestamente solo d'amore!).
Non si può comunque decontestualizzare quest'opera, dimenticandone il retroterra sociale e storico. Non esiste parola disincarnata e Jane Austen era pur sempre una signorina dello Hampshire di duecento anni fa. Ciò considerato, "Ragione e sentimento" dev'essere senza dubbio ritenuto una lettura importante e onestamente anche abbastanza piacevole (a me i languori dei salotti e gli struggimenti delle signorine inglesi danno l'orticaria, eppure sono sopravvissuta).

«"Lì, proprio lì" e indicò con la mano, "su quel monticello sporgente, lì caddi, e vidi Willoughby per la prima volta."
La sua voce si abbassò a quella parola, ma subito riprendendosi aggiunse:
"Grazie a Dio posso guardare quel punto con così poco dolore! Ne riparleremo ancora, Elinor" disse, esitante, "o sarà meglio di no?... Spero di poterne parlare adesso come si deve:"
Elinor la invitò teneramente ad aprirsi con lei.
"Quanto al rimpianto" disse Marianne "l'ho superato per ciò che lo riguarda. Non voglio parlarti di quello che sono stati i miei sentimenti verso di lui, ma di quello che sono adesso. Oggi, se potessi assicurarmi di una cosa sola, se mi fosse concesso di pensare che non ha rappresentato sempre una parte, che non mi ha ingannata sempre, ma, soprattutto, se potessi sentirmi sicura che non è stato mai tanto perfido come ho paura di averlo immaginato qualche volta [...]".»

giovedì 3 ottobre 2013

"Cuore di cane" di Michail Bulgakov

"Cuore di cane" è un romanzo fantascientifico-satirico pubblicato per la prima volta nel 1928 nella Russia comunista. Il peso delle recenti vicende economico-politiche si avverte sin dalle prime pagine, dove salta all'occhio il tono marcatamente polemico con cui Bulgakov ironizza sul nuovo stato comunista (l'Urss) fondato da Lenin pochi anni prima (1922). Lo si nota subito: i proletari, senza alcuna eccezione, vengono dipinti come gretti, rozzi e violenti. L'incipit dell'opera è eloquente: a parlare è un cane ferito che si rifugia vicino ad un portone nel centro di Mosca dopo la truce aggressione di un cuoco.

«Uuuuhhh! guardatemi sto morendo. La bufera nel portone mi urla il de profundis e io ululo con lei. Sono finito, finito. Un delinquente col berretto sporco, il cuoco della mensa degli impiegati del Consiglio Centrale dell'Economia Nazionale, mi ha rovesciato addosso dell'acqua bollente e mi ha bruciato il fianco sinistro. Che bestia! E sì che è un proletario! Signore santissimo, che dolore! Quella maledetta acqua bollente mi ha ustionato fino alle ossa e adesso ululo, ululo, ululo, ma serve forse a qualcosa?»

Nelle prime pagine i pensieri del cane scorrono fluenti, mostrandone un tagliente spirito critico: dal suo rifugio di fortuna, l'animale dà modo al lettore di avere un primo sguardo lucido sul contesto della vicenda attraverso il susseguirsi di giudizi implacabili sui proletari, che vengono presentati per categoria. Gli spazzini? Di certo i più infimi! I cuochi? Bisognerebbe aprire un discorso a parte! Una dattilografa di nona categoria guadagna quarantacinque rubli...come fa a comprare quelle costose calze di seta? Gliele darà sicuramente l'amante!

«Gli spazzini, fra tutti i proletari, sono i più vigliacchi; sono canaglie, feccia dell'umanità, sono la categoria più bassa. Per i cuochi, be', per i cuochi è un altro paio di maniche; prendi, per esempio, la buonanima di Vlas di via Prečìst'enka. Ha salvato la vita a un sacco di cani! [...] Vlas era un grand'uomo, un cuoco da signori: il cuoco dei conti Tolstoj! Niente a che vedere con quei dannati cuochi del Consiglio dell'Amministrazione Normale. [...] Una dattilografa di nona categoria guadagna quarantacinque rubli. Le calze di seta, d'accordo, gliele regala l'amante; ma quante umiliazioni deve ingoiare, per quel filo di seta! [...] Mia fa una pena, la ragazza! Ma io mi faccio ancora più pena. Non parlo per egoismo, questo no, ma effettivamente c'è una bella differenza tra lei e me. Lei perlomeno a casa se ne sta al caldo e io invece...dove vado io? Uuuuhhh...!»

Il malcapitato è ormai al culmine della disperazione quando, prossimo all'accettazione del proprio inequivocabile destino, gli si avvicina un distinto signore, uno di quelli che "non prende a calci ma non ha paura di nessuno, e non ha paura perché è sempre sazio". Non si tratta certo di un proletario! Qui la perfidia di Bulgakov raggiunge vette scandalose, nella misura in cui ci presenta l'accoppiata cittadino-compagno come un'accoppiata ossimorica: «Dall'altra parte della strada sbatté la porta di un negozio vivamente illuminato, e ne uscì un cittadino: "Beh, si: si tratta proprio di un cittadino, non certo di un compagno; anzi, questo qui è addirittura un signore. E non che giudichi dal cappotto -non sono così sciocco-. Oggi il cappotto ce l'hanno anche i proletari, o molti di loro.»

L'uomo offre al cane un pezzo di salame e si fa seguire sino al suo lussuoso appartamento sulla Prečìst'enka, dove l'animale malmesso viene curato e sfamato. Non c'è da stupirsi se il buon samaritano, il cui nome è Filìpp Filìppovič Preobražénskij, presto si rivelerà un professore di medicina di fama mondiale, che ha avvicinato l'animale unicamente per il bene della propria sperimentazione scientifica: l'intento è sempre stato quello di trapiantare nel cane i testicoli e l'ipofisi di un uomo morto al fine di compiere quell'esperimento straordinario che avrebbe finalmente dimostrato l'utilità e il compito dell'ipofisi. Dal momento in cui Pallino (è così che viene chiamato l'animale) viene anestetizzato per procedere con l'operazione chirurgica, la narrazione (inizialmente un flusso di pensiero del cane) cambia registro: il lettore legge direttamente dal diario del dottor Bormentàl, il fedele assistente di Filìppovič. Bormentàl annota dettagliatamente le condizioni della cavia, fino ad arrivare ad una scoperta inimmaginabile: l'ipofisi determina la natura umana! Dopo l'operazione, infatti, Pallino perde la coda e gli artigli, inizia a camminare su due zampe e, a tutti gli effetti, diventa un uomo.

«Si apre un nuovo capitolo della scienza: senza ricorrere agli alambicchi di Faust abbiamo creato l'homunculus. Il bisturi del chirurgo ha dato vita a una nuova entità umana. Prof. Preobražénskij, lei è un creatore!»

L'ipofisi, però, è anche portatrice di una serie di informazioni cerebrali che l'homunculus si ritrova a possedere: l'ex cane parla di Marx ed Engels, esige di avere dei propri documenti di riconoscimento, si esprime come un topo da osteria. La situazione tragicomica che si viene a creare diviene insopportabile, non solo per le evidenti conseguenze politiche (il medico controrivoluzionario ha creato un proletario!), ma anche per quel trascinamento animalesco che ancora Pallinov Poligràf Poligràfovič (è questo il nome che Pallino si dà in quanto cittadino registrato all'Anagrafe del Comune di Mosca) porta con sé: egli dà la caccia ai gatti e, assecondando il proprio istinto sessuale, si intrufola nella stanza della governante in piena notte e senza alcun ritegno! 
Dopo l'ennesima marachella, Preobražénskij decide, dunque, di sostituire nuovamente l'ipofisi umana con quella del cane, dando il via al processo che dall'uomo Pallinov riporterà in vita il cane Pallino. 

La critica mossa dallo scrittore è una critica su più fronti: la satira tocca, da un lato, i "nuovi ricchi" (i ricchi che sono diventati ricchi, ma che non hanno perso le proprie rozze abitudini), dall'altro lo spingersi della scienza al di là dei limiti sanciti per essa dalla natura stessa. 

«Ecco, dottore, cosa si ottiene quando il ricercatore, invece di procedere in armonia con la natura, forza le cose e solleva il velo: ora tieniti Pallinov e goditelo

Lo stile di Bulgakov è certamente figlio della più arguta tradizione russa: la traduttrice Viveka Melander rintraccia un chiaro albero genealogico-stilistico che vanta nomi quali Gogol', Saltykov-Scedrìn, Majakovskij («L'esasperazione, la tensione, la sovreccitazione narrativa, la dilatazione dello spazio in dimensione infinita, la dinamica aerea, l'attenzione per le macchine, per il jazz, per il neon [...] sono caratteristiche decisamente futuriste»). Caratteristiche frequenti in Bulgakov e nella letteratura russa in generale sono certamente "l'animazione oggettuale" («occhiali che parlano, vestiti che significano: "La bufera, vecchia strega, fece sbattere il portone e galoppando sulla scopa, ferì l'orecchio della ragazza"»), ma anche il fatto di assegnare ai personaggi denominazioni significative. Preobražénskij, ad esempio, significa "colui che trasfigura". Non solo! All'interno della struttura dell'opera, il lettore si accorgerà sicuramente della presenza di quattro differenti stili linguistici associabili ad altrettante classi sociali: c'è una lingua rude tutta fatta di imprecazioni (la lingua del sottoproletariato), poi c'è quella burocratizzata (la lingua dei compagni fedeli al partito), quella del parlato semplice (la lingua quotidiana della governante) e, infine, quella della ex classe dominante (la lingua dei borghesi). Procedendo nell'analisi di questa gerarchia linguistico-sociale, «con Preobražénskij, anzi, con Filìpp Filìppovič Preobražénskij, ché lui ci tiene a essere chiamato per nome e patronimico, siamo all'aristocrazia della lingua, alla nobiltà semiologica, alla sublimazione del parlato». 

Un libro pungente e al tempo stesso toccante, che si divora in pochi giorni. Bulgakov non sarà stato il massimo nelle scelte politiche, ma è stato sicuramente un valido scrittore. Assolutamente da avere in libreria!

lunedì 30 settembre 2013

"Mondo piccolo - Don Camillo e il suo gregge" di Giovannino Guareschi




Il mondo della Bassa è bucolico e sanguigno: il Grande Fiume scorre negli argini, serpeggia tra i campi coltivati e i pascoli, portando con sé «incredibili favole vere». Ne sono protagonisti i lavoratori della Bassa, gli abitanti dell'anonimo paesello che nei film sarà ribattezzato Brescello, i Rossi "trinariciuti" e soprattutto Don Camillo. Il pretone di campagna è celeberrimo in Italia e all'estero (Guareschi è l'autore italiano più tradotto), tanto da non abbisognare affatto di presentazione. Sagace fino all'acidità, astuto fino all'inganno, irascibile fino ad essere manesco, è un personaggio così spropositato da apparire del tutto verosimile. Epiche le sue rispostacce, come il suo innocente sventolarsi con una panca quando le provocazioni dei rossi lo fanno accaldare. Accattivante ed indimenticabile, incarnato da uno strepitoso Fernandel, è il giusto ed intramontabile monumento alla memoria di un autore straordinariamente dotato e brillante. La penna di Guareschi è straordinaria, i suoi racconti impareggiabilmente piacevoli, spesso brillanti e spassosi, talvolta commoventi. Quelli di Guareschi furono un ingegno, un talento letterario e una felice ispirazione purtroppo asserviti ad una causa discutibile.
Nei film di Duvivier, Gallone e Comencini (la cui visione, nel mio caso, ha preceduto la lettura dei racconti) Don Camillo risulta generalmente vincitore nelle diatribe ideologiche e politiche che lo contrappongono al sindaco comunista Peppone, ma non mancano compromessi, pareggi, momentanee sconfitte. Soprattutto, le due parti sono sostenute in un modo quasi equilibrato: a trionfare non è una fazione o l'altra, ma sempre e comunque la comune umanità che precede e fonda le ideologie. La profonda umanità dei personaggi è corroborata da una salda amicizia, nata per caso durante la Resistenza, e screzi, dispetti e finanche scazzottate non sono che il grazioso ornamento di un rapporto litigarello ma in fin dei conti armonioso.
Nei racconti la situazione è molto meno equilibrata, arrivando ad essere esplicitamente schierata.
Di fronte ad una provocazione:

«Peppone voleva dire un sacco di cose ma gli si ingolfò il carburatore e si limitò a farsi venire le vene del collo grosse come bastoni

Ci sembra di riconoscere l'adorabile sindaco delle pellicole: uomo volenteroso e impulsivo, con la miccia un po' troppo corta e qualche sbavatura impacciata e timida nel comportamento, tale da suscitare solo tenerezza. Ebbene, il compagno Bottazzi dei racconti devia da questo identikit: non è solo simpaticamente goffo, ma un autentico pusillanime (in uno dei racconti arriva a votare il candidato della DC alle elezioni per il nuovo sindaco, in preda ad un attacco 
di insicurezza; in un altro racconto, intimorito dalla linea del proprio partito e dall'eccessiva disciplina pretesa dai suoi superiori, medita a lungo nella cabina elettorale per poi consegnare la scheda bianca; del resto, è stato Guareschi a coniare in altra sede lo storico slogan "Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no"). I passi indietro e le piccole contraddizioni di Peppone costituiscono nei film delle divertenti gag, paradossali e spensierate; nei racconti, i suoi atteggiamenti contraddittori ed ipocriti sono delle precise armi ideologiche utilizzate da Guareschi per fare apparire i comunisti di Brescello come privi di spina dorsale, opportunisti, disonesti, ottusi, violenti, creduli. Gli uomini di Peppone si comportano come degli autentici delinquenti, arrivando ad intimidazioni e atteggiamenti di tipo marcatamente mafioso (un rosso di un paese vicino con l'aiuto dei suoi uomini e il tacito consenso di Peppone, uccide un rivale in amore etichettandolo genericamente come "nemico del popolo" e ne fa sparire il corpo, seppellendolo nei campi). 

Guareschi impernia la sua narrazione su un tripode dottrinario chiaramente manifesto: anticomunismo, simpatie filomonarchiche (la bandiera con lo stemma sabaudo si presenta nei racconti prima di coprire la sua stessa bara, durante il funerale che sarà disertato dalle autorità) e aderenza abbastanza ortodossa al cattolicesimo. Animato da una volontà quasi catechizzatrice, Guareschi prende talvolta degli sgradevoli scivoloni. Se il Crocifisso dell'altar
Fernandel e Gino Cervi nei panni di
Don Camillo e Peppone
maggiore interloquisce con Don Camillo in continui siparietti dal tono infantile e spesso umoristico, costituendo un elemento vincente e praticamente cult della serie, Guareschi sciupa il risultato, straripando dagli argini molto elastici della finzione letteraria, e approda al luogo comune: nel Mondo Piccolo ci sono miracoli come se piovesse. Un tentativo poco elegante di mostrare la superiorità dell'approccio cattolico rispetto a quello razionale propugnato dai rossi di Peppone (che passano davanti alla chiesa gridando «Medioevo!») conduce ad un'autentica overdose di interventi divini: ogni inezia viene risolta grazie a fenomeni ultraterreni. Si deve spostare una statua pesantissima? Provvede il Signore ad infondere forza sovrannaturale in chi di dovere. Un comunista si impunta per avere il rito funebre civile e fare tirare dritto il carro davanti alla chiesa? No problem, per intercessione divina il motore si guasterà proprio sul sagrato. 
Credo che Guareschi, in questo senso, prenda uno scivolone dal piano della fede (autentica, intima e assolutamente inopinabile) a quello molto più grossolano dell'apparenza, per cui un futile miracolo ad ogni pagina manifesterebbe la potenza divina e ricondurrebbe sulle vie del Signore anche i più scettici miscredenti. Il tutto spolverato da abbondanti "Dio lo vuole". In effetti, si sente un po' di puzza di medioevo.

Quanto all'anticomunismo, Guareschi forse cerca (invano) di "avanzare mascherato" alla maniera cartesiana. Inserisce le sue morali della favola nei racconti, ma purtroppo lo fa in modo spesso grossolano: quelle che forse era sua intenzione rendere delle frecciatine sottilissime e taglienti, in realtà sono prese di posizione esplicite e molto dozzinali.
Parlando della linea filomonarchica e fortemente conservatrice del suo giornale Candido, Guareschi puntualizzò di essere animato da ideali di destra, senza con ciò essere fascista, né del resto antifascista. Questo inutile sbandierare la propria ignavia crolla come un castello di carte nel leggere i suoi racconti.
In particolare, la linea dell'avversione politica (del tutto legittima) si stempera in direzione di un generale disprezzo per la classe operaia in quanto tale, e qui Guareschi a parer mio prende una grave cantonata.
Guareschi in un proprio "autoritratto" sull'argine del Po
Che Guareschi non fosse antifascista, sì, è chiaro come il sole. Ma in uno dei racconti, "L'anello", lo scrittore e giornalista parmense arriva ad esaltare la figura del Podestà del paese, strettamente ammanicato col personaggio di Don Camillo (che perde punti). Niente di incontrovertibilmente "male" in questo, se la posizione rimanesse quella delle considerazioni sul "personale" e sul privato di un personaggio che, seppur fascista, a quanto pare era bello-buono-bravo. Guareschi toppa laddove rincara la dose: pur di fare apparire il Podestà come una povera vittima, l'autore inizia a lanciare strali polemici contro le pretese totalmente ingiuste da parte del popolo di migliori condizioni di vita. I lavoratori che rasentano la miseria vengono in questo racconto presentati come assassini, ladri, ingannatori, servitori infidi ed ingrati. Insomma, Guareschi compone una profusione di insulti ed immagini sprezzanti del popolo, per esaltare di contro l'opulenta classe dominante, con tutti i suoi pregi e le sue virtù. Atteggiamento alquanto miope e puerile che ritroviamo in diversi racconti, in cui lo stesso Don Camillo appare irritante, nel suo dare torto a prescindere a qualunque tipo di rivendicazione sociale da parte dei lavoratori, che, come Guareschi molto esplicitamente insegna, dovrebbero invece subire ingiustizie e soprusi, continuando a sguazzare serenamente e silenziosamente nella propria giusta miseria. Inoltre, dall'essere un saggio pastore, Don Camillo scade spesso in quella scadente «propaganda clericale» contro cui Peppone punta il dito ad ogni occasione.

Ognuno abbia le sue opinioni: quello che rimprovero a Guareschi è solo la mancata eleganza in numerosi passaggi. Avrebbe potuto far passare i suoi (discutibili) messaggi in modi più raffinati, meno offensivi, rifuggendo alcuni cliché ed evitando facili generalizzazioni e atteggiamenti talvolta infantili. 
Il mio commento sulle storie del Mondo Piccolo in una parola sola: "Peccato".
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