martedì 29 gennaio 2013

"L'aggancio" di Nadine Gordimer


«"Un economista costretto a fare il rattoppa-motori. Chissà come ha imparato ad aggiustare le macchine."
Un altro aveva la risposta pronta.
"Per necessità. L'unico modo per entrare in un paese che non ti vuole è fare un lavoro manuale o il mafioso."»

Julie Summers, ragazza bianca emancipata e capricciosa, figlia della più alta borghesia sudafricana, resta bloccata nel traffico. Ha problemi al motore. Tra automobilisti che suonano istericamente il clacson, urlandole cose come "Stronza bianca" in afrikaan, riesce a raggiungere un'autofficina. Steso sotto la scocca di un veicolo in riparazione, con addosso una tuta rigida e unta di grasso, c'è un giovanotto senza un nome. Un meccanico, un rattoppa-motori anonimo per tutto, salvo forse per la sua bellezza esotica. Il suo inglese è sufficiente, parla con Julie e la accompagna all'auto. La riparerà. Si scambiano i numeri di telefono. Julie, intrigata dal fascino di quel misterioso "principe orientale", lo invita fuori per un caffè. Lo porta con sé al Tavolo, la famiglia alternativa (tra buddisti, poeti-filosofi e attivisti di sinistra) che si è creata per fuggire dal ceto altolocato da cui proviene e che finge di disprezzare (pur sguazzando negli agi che le garantisce).
Ma chi è questo bel giovanotto che Julie ha rimorchiato (agganciato, ecco il senso del titolo) in un'officina sudicia?

 Possiamo chiamarlo Abdu, ma il suo vero nome Julie lo scoprirà solo quando deciderà di seguirlo nel suo Paese martoriato dal colonialismo e dimenticato dal mondo, perduto nel deserto. Sì, perché Abdu-nessuno è un immigrato clandestino e non è gradito in Sudafrica, come in nessun altro Paese occidentale.

«In questa città, come in tutte le città, esiste un mondo sotterraneo, l'unico posto per quelli di noi che non possono vivere, non hanno i mezzi, non solo i soldi, ma i mezzi prescritti per conformarsi a quello che gli altri chiamano mondo. La clandestinità. L'oscurità è l'unica libertà possibile per lui.»

Così Abdu si traveste da nessuno per darsi un'identità che gli è negata perché straniero, perché sgradito. Preferisce essere nessuno "qua", dove non è desiderato ma può vivere clandestinamente il sogno di una vita migliore, piuttosto che essere Ibrahim (il suo vero nome) nel suo Paese misero e annegato dalla sabbia, dove ogni possibilità gli è preclusa, ogni ambizione è troncata.

«Alle sette del mattino lui è all'officina in quel travestimento indurito di grasso che è la sua tuta. Oppure è quando se la sfila la sera, una gamba dopo l'altra, che si spoglia della sua unica identità, per camuffarsi, "qui", da Abdu-nessuno?»

Il suo camuffamento, sebbene gli conceda il lusso di sognare, costa caro, perché «Non c'è futuro senza un'identità che lo rivendichi». Abdu viene scacciato (non c'è termine più duro e animalesco, non c'è termine più adatto). Julie lo stupisce comprando due biglietti aerei e seguendolo come una moglie. Nel villaggio miserrimo di lui, la ricca bianca dovrà confrontarsi con la lingua araba, la cultura musulmana, la famiglia acquisita. Lei cerca nuove regole, una dura disciplina che rimpiazzi il vuoto della sua giovinezza sfrenata. Si innamora della sottomissione, della tradizione, del deserto. Scopre bellezze dove Ibrahim non le vede più, accecato dal bisogno opposto: il desiderio ardente di fuggire da casa. Quella scelta, di nuovo: essere un fallito senza speranze in casa propria o un umile lavoratore con qualche sogno in un posto lontano.
Lei apprende l'arabo, si abitua al richiamo del Muezzin, si incanta a fissare la caligine luminosa del deserto dietro casa. Lui vuole ripartire. Prende la macchina dello zio ogni giorno per andare nella capitale a cercare contatti; cerca di ottenere delle spinte dalle conoscenze che sua moglie ha all'estero (si tratta di "ungere una ruota": pur di fuggire, nessun mezzo è rifiutato, per disonesto che sia). Cerca i visti, visita le ambasciate, fa domande. Sua moglie teme per lui. Comprende la sua furia e insieme non la comprende. Non ha vissuto su di sé il dramma di un'identità cancellata alla dogana, di un visto negato perché hai i documenti scritti in un alfabeto sbagliato.

«Vergogna, senso di colpa, paura, sgomento, rabbia, biasimo, risentimento nei confronti del mondo intero e di quello che è - e nomi affiorano, nomi - immaginando quel che sarà di lui. Ancora una volta. Abitare in un sudicio tugurio, dentro un grattacielo o una rimessa dietro un'officina - che cosa cambia? - con Dio sa chi altri dalla pelle del colore sbagliato, dei poveracci come lui (parole sue), a pulire la merda americana - lei ha visto i quartieri poveri di quelle città, i destini vuoti di quel devastato mondo nuovo, i detriti del degrado - a fare lavori che la "gente vera", i bianchi americani, non vogliono fare.»

L'aggancio è una storia a due facce: due culture, due Paesi, due lingue. Due persone che si incontrano nonostante le differenze, nonostante le inevitabili incomprensioni. Due strade, due vie che si aprono davanti ai protagonisti, un bivio dopo l'altro. Partire o restare. Arrendersi o tentare. Prepararsi ad una sfida o abbandonare i propri sogni. 

Sullo sfondo, la società multietnica del Sudafrica, che è la società italiana e quella di qualsiasi altro Paese del Primo Mondo. In primo piano una storia d'amore sorprendente e piena di nodi, intensi e dolorosi, di riflessione.
Nadine Gordimer, Premio Nobel per la Letteratura del 1991, in questo libro ci racconta una delle infinite facce dell'incontro-scontro tra culture. E ci fa innamorare del deserto, che forse è meno arido delle nostre floride società dei climi temperati.

lunedì 28 gennaio 2013

"Uno, nessuno e centomila" di Luigi Pirandello

"Ma sa che una volta io ho veduto ridere un cavallo? Sissignore, mentre il cavallo camminava. Lei ora va a guardare il muso del cavallo per vederlo ridere, e poi viene a dirmi che non l'ha visto ridere. Ma che muso! I cavalli non ridono mica col muso! Sa con che cosa ridono i cavalli, signor notaro? Con le natiche. Le assicuro che il cavallo camminando ride con le natiche, sì, alle volte, di certe cose che vede o che gli passano per il capo. Se lei vuol vederlo ridere il cavallo, gli guardi le natiche e si stia bene!"

Quando pensiamo a noi stessi, al nostro Io, abbiamo una determinata immagine di noi: il nostro corpo, con i suoi pregi e i suoi difetti, la nostra intelligenza, il nostro carattere; siamo abbastanza certi di poter dire chi siamo, per questo tendiamo a dare delle definizioni di noi stessi, proviamo a descriverci agli altri, perchè pensiamo che il nostro Io sia un "qualcosa" che si può comprendere e comunicare. Allo stesso modo, siamo convinti degli altri: quando guardiamo qualcuno, cogliamo in lui i suoi aspetti peculiari, da quelli che lo rendono per noi affascinante o interessante, a quelli che lo rendono ridicolo. Ridiamo, parliamo degli altri, non chiedendoci se gli altri vedano ciò che vediamo noi, e soprattutto non ci chiediamo cosa gli altri pensino di noi, sicuri che, in fondo, la nostra personalità sia abbastanza definita, e che gli altri colgano, in noi, ciò che noi stessi cogliamo e percepiamo. Vivendo con questa convinzione, il rapporto con se stessi e con gli altri è salvo: abbiamo dei punti di riferimento che sono i nostri, ma che proiettiamo anche sugli altri, creando, così, una comunanza d'intenti, che ci permette di dialogare, di essere un Io di fronte ad un Tu. Ma ora, proviamo ad immaginare che ad un certo punto della nostra vita, ci capiti un episodio, apparentemente insignificante, un'inezia tra le inezie della vita quotidiana, che però, comincia a far saltare alcuni punti del sistema: immaginiamo, ad esempio, di scoprire, dopo quarant'anni, di avere un difetto fisico, di cui non ci eravamo mai accorti, e che gli altri, invece, avevano sempre notato in noi, ma non ce l'avevano fatto presente, credendo che noi sapessimo di avere questo difetto. Alcuni di noi, probabilmente, ne riderebbero, riterrebbero un episodio del genere, una dimostrazione della propria mancanza di spirito d'osservazione, o addirittura, altri, se ne potrebbero compiacere, dimostrando, così, di non essere delle persone vanitose che badano solo al proprio aspetto fisico, ma di avere ben altro a cui pensare! Altri, però, potrebbero restare davvero perplessi: riconoscere un proprio difetto fisico dopo quarant'anni, per quanto insignificante, è un episodio che lascia, dentro di sè, una strana sensazione, difficile da definire; e pensare che altri abbiamo capito, percepito qualcosa di noi, prima di noi, può creare imbarazzo, forse anche risentimento. Un dubbio si può sollevare: chi sono io per gli altri? E poi, chi sono io per me stesso? E ancora, cos'è "Io", cos'è "Altri"? Se io mi vedo in un modo, e gli altri mi vedono in un altro modo, chi sbaglia? Potremmo dire che sono gli altri a sbagliarsi: ma, quando noi diamo un giudizio su qualcuno, e questo qualcuno nega di essere così, noi pensiamo forse di aver torto, o pensiamo che, in fondo, questo qualcuno non vuole riconoscere qualcosa che gli è proprio, e quindi, che noi siamo nel giusto, e che lui è nel torto? Inoltre, non tutti gli altri mi vedono allo stesso modo: chi, tra di loro, è nel giusto? Quale immagine viene fuori di questo "me stesso"? E, una volta che questo dubbio si è insinuato in me, che per me sono diventate equivalenti tutte le immagini di me stesso, compresa la mia, l'ultima domanda è: chi sono?
Questa è l'avventura di Vitangelo Moscarda, "nome brutto fino alla crudeltà", nel labirinto della propria identità: la vertigine dei suoi pensieri raggiungerà il paradosso, la follia, l'annullamento di sè. La conclusione del protagonista è che noi tutti siamo "uno, nessuno e centomila", maschere, bambole di pezza riempite di tutte le convenzioni, le ipocrisie, le illusioni che ci sono state imposte.
Tra ironia e paradosso, Pirandello apre un grande spazio di riflessione: guardare a se stessi e agli altri con lucidità dello sguardo, e cogliere il ridicolo che è in ognuno di noi. Perchè, a volte, può giovare ridere di sè e imparare a ridimensionarsi, essere un po' folli, per diventare più saggi.
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