Il Fasl
al-maqâl è propriamente una fatwâ
(un’emanazione dell’autorità giuridico-religiosa con cui si vuole risolvere una
questione) e in quanto tale non presenta tanto una natura prettamente
filosofica quanto giuridico-morale.
La breve opera è composta di due parti più
un’appendice, la Damîma.
Nella prima parte, il filosofo cerca di giustificare
la filosofia dal punto di vista religioso; nella seconda, cerca di giustificare
la Legge religiosa dal punto di vista filosofico.
Il fine dell’opera è esplicitato immediatamente,
subito dopo le rituali lodi a Dio di apertura:
«Ordunque:
il fine di questo scritto è indagare, dal punto di vista dello studio della Legge
religiosa, se la speculazione filosofica e le scienze logiche siano lecite
secondo il shar’ o proibite o
obbligatorie, sia perché commendevoli sia perché necessarie».
Evidentemente, questa fatwâ vuole rispondere ad un quesito: quale sia la posizione della
filosofia nei confronti del fiqh (il diritto islamico).
Secondo il diritto islamico, le azioni umane possono
essere collocate in una sorta di griglia di valutazione morale: esistono atti
permessi o leciti, (indifferenti dal punto di vista morale), atti prescritti
(in quanto semplicemente meritevoli oppure obbligatori) e atti illeciti
(semplicemente riprovevoli oppure categoricamente vietati al buon musulmano).
Averroè cerca, attraverso il Fasl
al-maqâl, di collocare la pratica filosofica in una di queste cinque
categorie di azioni.
Il primo passo è certamente fornire una definizione
della filosofia: essa
«altro
non è che speculazione sugli esseri esistenti, e riflessione su come,
attraverso la considerazione che sono creati, si pervenga a dimostrare il
Creatore».
Conseguenza diretta e immediata di questa
definizione è il fatto che:
«La
Legge religiosa autorizza, e anzi stimola, la riflessione su ciò che esiste,
per cui è evidente che l’attività indicata col nome (di filosofia) è
considerata necessaria dalla Legge religiosa, o, per lo meno, ne è autorizzata».
Il problema sembra già risolto e le pagine seguenti
costituiscono una ricca argomentazione di questa semplice soluzione, che per
altro poggia direttamente sull’autorità coranica; è infatti lo stesso Libro a
prescrivere: «Considerate attentamente, voi che avete occhi per guardare!» ( in arabo, il versetto sfrutta una sorta di gioco di parole dato dal verbo nazara, che indica tanto il ‘riflettere’, il ‘considerare’ quanto il ‘guardare’: un doppio riferimento, dunque, alla vista fisica, data dagli occhi, e quella intellettuale, fornita dal pensiero).
Averroè cita più di un versetto allo scopo di
suffragare la sua presa di posizione e puntualizza che di simili ce ne sono
innumerevoli.
Subito dopo, il filosofo nota come la filosofia si
serva del sillogismo, cioè del ragionamento razionale, per dedurre l’ignoto da
ciò che è già noto. Questo tipo di analisi, dice Averroè, «è la specie più
perfetta di studio», tanto
più che ad incoraggiare gli uomini in tale direzione è la stesse Legge
religiosa. Su questa base, Averroè afferma la superiorità del ragionamento
razionale su altre forme di ragionamento meno perfette, quali l’analogia e la
dimostrazione retorica.
Qui il filosofo puntualizza che, prima di
intraprendere un ragionamento razionale o sillogismo, è necessario averne
chiare le parti e il funzionamento: chi voglia filosofare deve preliminarmente
chiarirsi bene le idee su «quelle cose che, relativamente al pensiero, svolgono
la stessa funzione degli attrezzi relativamente all’attività pratica».
Nonostante la bontà di queste constatazioni sia
lampante, qualcuno potrebbe obiettare che lo studio condotto secondo il
ragionamento razionale sia una bid’a,
cioè un’innovazione biasimevole, pregiudizio che trarrebbe alimento dal fatto
che i più grandi filosofi conosciuti sono pagani, non musulmani, Aristotele
compreso, ma soprattutto dalla stramba argomentazione per cui gli antichi
musulmani non praticavano la filosofia. Averroè dimostra subito l’infondatezza
di tale tesi, facendo notare che neppure il ragionamento giuridico era
praticato nell’antichità, ma non per questo viene reputato un’innovazione
biasimevole! Quanti non vorranno farsi persuadere da questo semplice fatto (e
qui Averroè fa un caustico riferimento ad una «piccola sètta di grossolani
antropomorfisti», cioè la
hashwiyya, composta di giuristi e
teologi che si attenevano rigorosamente al significato letterale dei versetti,
anche quelli che attribuiscono a Dio mani, bocca, occhi e altre caratteristiche
umane) saranno persuasi almeno dalle citazioni dei Testi Sacri.
Qui come altrove, Averroè sembra utilizzare il
Corano per garantire il proprio discorso e per farsene scudo nei confronti di
coloro che, digiuni di filosofia e diffidenti nei confronti di chi la pratica,
si rifiutano di discutere in modo ragionevole: insomma, per risolvere con
l’autorità dei Testi Sacri l’annosa incapacità di dialogare serenamente con i
teologi tradizionali. Proprio loro, i mutakallimûn,
sono i destinatari dell’opera e gli immaginari interlocutori di Averroè. Citare
(numerosi) versetti coranici sembra probabilmente ad Averroè un modo efficace
per farsi intendere da loro e per dimostrare di non stare sostenendo nulla di
empio o contrario alle Scritture.
Per avvalorare ulteriormente la tesi per cui la filosofia
non potrebbe essere definita una bid’a
solo perché messa a punto da filosofi pagani, Averroè ricorre ad una semplice
metafora:
«Invero,
se nel praticare un sacrificio si usa uno strumento idoneo, non ha alcuna
importanza per la validità del sacrificio se lo strumento appartiene a qualcuno
che professa la nostra stessa religione oppure no. L’essenziale è che vengano
rispettate le condizioni della cerimonia.»
Dunque, se la filosofia è uno strumento idoneo ad
adempiere le prescrizioni del Corano e fare la volontà di Dio, la si dovrebbe
scartare solo perché i suoi ‘inventori’ professavano una religione diversa?
Evidentemente no, e più di questo: Averroè invita anche a leggere avidamente i
testi degli antichi filosofi, per trovarvi del vero (da accogliere) e
dell’erroneo (da respingere). Del buono vi si troverà certamente e il buon
musulmano dovrà servirsene poiché il sapere è progressivo e cumulativo, e
basarci su quanto messo a punto dai nostri predecessori è indispensabile.
Su questo punto, Averroè è chiaro e non teme di
ripetersi: un uomo solo non può progredire nella conoscenza di una disciplina
sviluppata se non sfrutta ciò che è stato già scoperto, scritto o studiato da
chi lo ha preceduto nello studio della stessa materia: ciò vale per il diritto
e, a maggior ragione, per la «disciplina suprema»,
la filosofia.
Il buon musulmano dovrebbe studiare i libri degli antichi
filosofi, seppure pagani:
«E
ciò che costoro hanno detto di conforme alla verità, lo accetteremo con gioia e
gliene saremo grati; mentre ciò che hanno detto di difforme dalla verità, lo
evidenzieremo e ne diffideremo, pur perdonandoli per l’errore commesso».
Chi proibisse ad altri che siano dotati di
intelligenza di applicarsi nello studio della filosofia commette un vero e
proprio crimine nei confronti della Legge religiosa, poiché così facendo
«sbarra la porta attraverso la quale la Legge chiama gli uomini alla conoscenza
di Dio».
È vero, infatti, che in diversi punti gli antichi
filosofi hanno errato (poiché non conoscevano la verità rivelata dei Testi
Sacri), ma è uno sbaglio proibire qualcosa di essenzialmente buono soltanto
perché qualcosa di male è presente in esso per accidente.
A sostegno di tale tesi, Averroè porta due esempi:
una semplice metafora e un hadîth,
ossia un aneddoto tratto dalla vita del Profeta (e pertanto sorretto da
autorità sacra). La filosofia, buona di per sé e solo accidentalmente dannosa,
è come il miele o l’acqua: non si può negare di bere ad un assetato solo
perché, in qualche circostanza, è capitato che qualcuno morisse annegato o
strozzato. «Infatti, morire per un’acqua malamente ingurgitata è accidentale,
mentre morire di sete è secondo sostanza e necessità».
Averroè attribuisce gli errori accidentali presenti
in diverse discipline all’incapacità di un singolo praticante, e non ad un male
essenziale nelle discipline stesse. Infatti, non tutti gli uomini hanno le
medesime capacità conoscitive. A questo punto, Averroè introduce uno degli
elementi portanti di tutta l’opera, e cioè la distinzione degli uomini in tre
classi: in base alle proprie caratteristiche individuali, ogni uomo può (o
meglio deve) approcciarsi al Testo Sacro secondo una via che gli sia consona.
La vie sono tre: quella apodittica (cioè razionale e propria dei filosofi),
quella dialettica (utilizzata dai mutakallimûn,
che, come suggerisce il loro nome ricavato dalla radice k-l-m, che in arabo origina la
classe di parole relative al discorso, alla parola, alla conversazione, si dilettano nel chiacchierare, anche senza
cognizione di causa, sugli argomenti teologici) e infine quella retorica
(propria delle masse incolte, che hanno bisogno di affidarsi all’affabulazione
mitica perché incapaci di cogliere il significato autentico delle Scritture).
Ancora una volta, Averroè affida le proprie
affermazioni all’autorità del Libro: «Chiama gli uomini alla via del Signore,
con saggi ammonimenti e buoni, e discuti con loro nel modo migliore»,
cioè nel modo più appropriato ad ognuna delle tre categorie di uomini. I
filosofi comprenderanno gli ammonimenti saggi, le persone più semplici si
ispireranno a quelli buoni (cioè finalizzati non tanto ad ampliare le loro
conoscenze quanto a regolarne la condotta) e i teologi si trastulleranno con le
torbide discussioni che trovano tanto proficue.
Averroè sottolinea la bontà di Dio, il quale ha
spianato tre vie diverse perché ciascuno, a modo proprio, possa trovare il modo
che gli è più consono per avvicinarsi alla verità: «La religione racchiude
tutti i possibili metodi di avvicinamento a Dio».
È giunto il momento, per Averroè, di trattare una
questione spinosa e facilmente fraintendibile da parte dei rigidi teologi
ashariti: quella dell’interpretazione allegorica delle Scritture. Essa giunge
in soccorso dell’interprete del Corano, laddove incappi in un passo oscuro,
ambiguo o, peggio ancora, contraddittorio. «Interpretazione allegorica
significa trasporto dell’argomentazione da un piano reale a un piano
metaforico». Può
capitare che la dimostrazione razionale conduca a un significato apparentemente
contrastante con quello letterale di determinati versetti. Questo, però, non
deve mandare in confusione il buon musulmano, né deve renderlo scettico circa
l’affidabilità del Libro: se si studiano i Testi con attenzione, si vedrà
infatti che tutte le apparenti contraddizioni possono essere sciolte grazie ad
una sapiente interpretazione allegorica.
Non sempre è obbligatorio forzare i testi con
un’interpretazione allegorica, né sempre è possibile interpretarli alla
lettera. Questo rende la faccenda troppo delicata perché ne siano rese
partecipi le masse incolte, che rischierebbero di stravolgere il significato
dei testi oppure di perdere la fede, perché delusa dall’apparente
contraddittorietà di alcuni versetti.
Ancora una volta, a sostegno di quanto dice, Averroè
chiama il Corano stesso:
«Egli
è Colui che ti ha rivelato il Libro: ed esso contiene sia versetti solidi, che
sono la Madre del Libro, sia versetti allegorici. Ma quelli che hanno il cuore
traviato seguono ciò che v’è d’allegorico, bramosi di portare scisma e di
interpretare fantasiosamente, mentre la vera interpretazione di quei passi non
la conosce che Dio.»
Non solo, dunque, nell’opinione di Averroè, ma
secondo lo stesso Corano esistono due livelli di significato: lo zâhir (‘chiaro’, ‘splendente’: è il
significato manifesto delle parole) e il bâtin
(‘intimo’: è il senso nascosto, esoterico). Chi non sappia attenersi a quello
dei due che è più consono al suo modo conoscitivo, rischia di creare scismi e
miscredenze.
Nel discorso di Averroè fa a questo punto il suo
ingresso un concetto pregnante nella cultura araba: quello dell’ijmâ’ (termine che indicava dapprima
l’opinione dei maestri della Legge e che successivamente ha finito per
coincidere semplicemente con l’assenso comunitario, con l’opinione pubblica in materia religiosa). Ebbene, Averroè precisa
che essa ha sempre ragione in questioni di natura etico-politica, ma non sempre
quando si tratta di problemi speculativi (come invece ritengono al-Ghazâlî e
altri teologi). Averroè fa notare che
l’ijmâ’
non ha sempre risposte soddisfacenti, perché alcune questioni non sono
state affrontate dagli antichi musulmani oppure non sono sopravvissute alla
trasmissione orale (sebbene vi siano delle testimonianze di alcuni antichi
sapienti che riconoscevano un senso manifesto e un altro nascosto nelle
Scritture, il che fonderebbe l’antichità e la giustezza di una concezione
elitaria del sapere autentico, che per altro Averroè fa sua).
Statua dedicata ad Averroè nella sua città natale, Cordova. |
Sebbene al-Ghazâlî e gli altri teologi tradizionali
accusino i falâsifa di miscredenza,
Averroè è certo che l’interpretazione allegorica sia conforme alle prescrizioni
religiose, e così le deduzioni (in apparente contraddizione con i Testi Sacri)
tratte da al-Fârâbî, Ibn Sînâ e altri.
«Lo
stesso Dio, dunque, definisce (i sapienti) uomini di fede, intesa la fede
proprio come ciò cui si perviene per mezzo della dimostrazione e che non può
non accompagnarsi all’interpretazione allegorica.»
Qui, Averroè contesta per la prima volta quello che
era stato uno dei cavalli di battaglia di al-Ghazâlî nella sua polemica contro
i filosofi, e cioè la critica alla dottrina secondo cui Dio non conoscerebbe i
particolari. Averroè spiega che al-Ghazâlî ha frainteso l’affermazione dei
filosofi, interpretando con una sola parola e un solo significato la conoscenza
umana dei particolari e quella divina. In realtà, si tratta di due scienze completamente diverse, che hanno
in comune solo il nome: la scienza umana, infatti, è effetto dell’oggetto
conosciuto, mentre la scienza di Dio ne è causa. Per una spiegazione più
approfondita e soddisfacente, Averroè rinvia alla Damîma.
Altra spinosa questione toccata fugacemente da
Averroè a questo punto è quella della possibile eternità del mondo: esso è
eterno o creato nel tempo? L’apparente contraddizione tra l’opinione degli
antichi filosofi (per cui sarebbe eterno) e quella dei teologi ashariti (per
cui sarebbe creato da Dio nel tempo, come raccontato dalle Scritture) è
riconducibile ad un problema semantico: infatti, le due opzioni non sarebbero
veramente alternative l’una all’altra. Le due posizioni sono conciliabili se si
intende la creazione, la produzione del mondo come eterna: Dio è eternamente produttore e motore del mondo, che così,
pur essendo un prodotto di Dio, è a Lui coevo. Averroè non sembra dunque
condividere l’ipotesi di un mondo creato ex
nihilo, quando piuttosto quella di una creazione dell’attuale forma del
mondo (hudut). A testimonianza
dell’esistenza di qualcosa prima
della Creazione narrata dalle Scritture, ci sarebbero le Scritture stesse, in
diversi passi: per esempio, laddove si dice che «è Lui che ha creato i cieli e
la terra in sei giorni, mentre il suo Trono si librava sull’acque» o che Dio «poi s’accinse alla costruzione del Cielo, che era tutto fumo».
Qualcosa, in una qualche forma, esisteva prima della Creazione e continuerà ad
esistere dopo la fine del mondo, «Il giorno in cui la terra sarà cambiata in
un’altra terra, e in altri cieli i cieli».
Con questi numerosi esempi, Averroè vuole dimostrare
come, letteralmente, il Corano sembra suggerire sia una Creazione del mondo dal
nulla sia l’esistenza di qualcosa di anteriore: ancora una volta la
contraddizione è apparente, perché una delle due affermazioni va interpretata
allegoricamente.
In ogni caso, destreggiarsi tra sensi manifesti,
sensi nascosti, verità ed errori non è semplice, neppure per gli uomini più
dotti e dotati. A questo proposito, Averroè tratteggia due classi di errori,
gli uni scusabili e gli altri no, in quanto colpe terribili. In realtà, il tipo
di errore è uno solo: a dargli diverso valore, è chi lo commette.
«Per
questo disse il Profeta – su di lui la pace! - : “Se un magistrato, esercitando
la propria capacità di giudizio, applica la verità, riceverà doppia ricompensa;
se sbaglia, ricompensa semplice” (…); e se c’è un errore che la Legge condona,
è proprio l’errore di coloro che si applicano all’analisi dei difficili
problemi che la Legge stessa impone di affrontare.»
Averroè afferma con assoluta decisione, ancora una
volta, la natura elitaria del sapere autentico: interrogarsi su questioni
difficili, servirsi della filosofia, interpretare i Testi Sacri in modo
allegorico, tutto ciò è prescritto ad una certa classe di uomini (i filosofi,
quelli dotati per natura di intelligenza e colti quanto serve): pertanto, è
obbligatorio che essi si impegnino in tali attività ed è doppiamente meritorio
che lo facciano con successo. Qualora dovessero sbagliare, sarebbero
perdonabili per via dell’alta difficoltà del compito assegnato loro.
Coloro che, qualora sbagliassero nello svolgere
queste attività, non sarebbero perdonabili, sono le altre due classi di uomini:
i teologi e gli uomini più semplici. Gli uni e gli altri semplicemente non
hanno i mezzi per riuscire nell’impresa: pertanto, avere la pretesa di
filosofare o interpretare i testi, condurrebbe inevitabilmente ad errori e
sarebbe necessariamente fallimentare. Per questa ragione, essi non devono neppure
tentare. Non compete loro; proprio per questa ragione Dio ha creato tre vie per
accostarsi alla verità. Per evitare che, approcciandosi in maniera sbagliata,
secondo vie non adatte, gli uomini possano venire traviati, perdere la fede o
intorbidire le acque.
Chi non è in grado di cogliere i significati
autentici delle cose, deve attenersi a quelli manifesti (che anche laddove non
siano letteralmente veri, quantomeno saranno buoni, cioè condurranno alla
rettitudine morale). Lo testimonia un hadîth:
«Il
Profeta – su di lui la pace! -, quando una negra gli disse che Dio abita in
cielo, ordinò di non punirla, considerandola anzi una credente. La negra,
infatti, non faceva parte della classe dimostrativa; (…) quel tipo di gente,
che non presta assenso se non grazie al soccorso della facoltà immaginativa –
poiché tutto trasfigura con l’immaginazione -, ha difficoltà a riconoscere
l’esistenza di esseri che non siano in qualche modo collegati con qualcosa di
immaginabile».
Appartengono alla stessa categoria gli
antropomorfisti e coloro i quali assegnano a Dio un luogo (i Cieli) o degli
attributi umani. Queste categorie di persone sono tenute ad attenersi ai sensi
letterali dei Testi, poiché, incapaci come sono di comprendere
l’interpretazione allegorica, ne sarebbero spiazzati e condotti alla
miscredenza. E, ancora peggio:
«Chiunque
dei sapienti si permettesse di propalare l’interpretazione allegorica presso la
gente comune, sarebbe un propagandatore di miscredenza; e chi propaganda la
miscredenza, è egli stesso un miscredente.»
Averroè accusa apertamente al-Ghazâlî di compiere
tale gravissimo errore, traviando le masse, confondendole e spingendole alla
miscredenza. I capi musulmani dovrebbero proibire la lettura dei libri suoi e
dei suoi pari alla gente comune. Essi, mettendo in dubbio le semplici verità di
fede, hanno lo stesso risultato (di spiazzare e insinuare il dubbio) che hanno
i libri dei filosofi, ma con una grande differenza: i libri dei filosofi
vengono quasi sempre presi in mano solo da gente colta, capace di comprendere
quanto legge e non perdere la fede; i libri dei teologi, invece, possono essere
letti da chiunque, ed essere così male interpretati dalle persone poco accorte.
Ormai la frattura tra Averroè e i mutallimûn, al-Ghazâlî in particolare, è
insanabile ed esplicita: alla Tahâfut
il filosofo affiderà il resto delle sue invettive e delle sue gravi
accuse.
La seconda parte del Fasl al-maqâl, speculare rispetto alla prima, si apre definendo lo
scopo della Legge religiosa: «insegnare la vera conoscenza e il retto
comportamento».
Averroè torna a ribadire l’esistenza dei tre tipi di
giudizi (dimostrativi, dialettici e retorici) e la non idoneità di ogni uomo ad
ogni tipo di giudizio, indifferentemente. Di nuovo ed esplicitamente viene
tematizzata la suddivisione degli uomini in tre classi e l’ammonimento contro
chi agisce come al-Ghazâlî, spingendo le masse a confrontarsi con problemi che
non sono alla loro portata.
Come suo solito, Averroè cerca di chiarire il più
possibile la questione trasformandola in
metafora: un uomo che dica ad un paziente che prescrizioni fornitegli dal
medico sono sbagliate, lo getterebbe nella più grande confusione, poiché il
paziente non dispone di conoscenze sufficienti per distinguere chi menta, se
l’uomo o il medico; finirebbe con il dubitare dell’operato del medico, senza
averne la competenza. Si comporta così il teologo che intende mostrare al volgo
il senso allegorico delle Scritture senza padroneggiarlo egli stesso: finisce
con l’instillare negli altri uomini il dubbio circa l’affidabilità dei Testi,
senza sapere poi egli stesso sciogliere quel dubbio. Tornando alla metafora:
l’uomo, che distoglie il paziente dai consigli del medico, non è in grado di
curare le malattie in prima persona; né può insegnare al paziente come curarsi
da solo. Distoglierebbe l’ammalato dall’unica via che può salvarlo, senza
offrirgli valide alternative, portandolo alla morte.
L’analogia è calzante, poiché la salute del corpo
corrisponde alla salute dell’anima: il medico e il Testo Sacro sono gli unici
depositari della verità, che va presa così com’è da chi non è in grado di
concettualizzarle e discuterla.
Si tratta del principio del bi-lâ kaif (senza un come,
senza domandare il come): la fede può
(e in taluni casi deve) fare a meno della ragione.
L’uomo che, al contrario, è in grado di servirsi
opportunamente della ragione e di applicarla all’interpretazione allegorica dei
Testi Sacri, deve sfruttare tale
propria capacità; quella dell’interpretazione corretta è una vera e propria missione
affidata da Dio agli uomini capaci di portarla a termine:
«Noi
abbiam proposto il Pegno ai cieli e alla terra e ai monti, ed essi rifiutaron
di portarlo e ne ebber paura. Ma se ne caricò l’uomo».
Eppure, il Corano sembra suggerire anche un limite
ragionevole oltre il quale non è più opportuno allegorizzare.
L’allegorizzazione incontrollata è quella che ha condotto alla formazione delle
sètte islamiche, in perenne lotta fra loro. I primi musulmani erano più cauti
nella loro missione di lettura e interpretazione, e quando coglievano qualche
contraddizione apparente o qualche versetto oscuro, ne tenevano per sé il
significato: per questa ragione le sètte sono sorte solo più avanti nel tempo,
sviluppandosi di pari passo con la presunzione e l’imprudenza dei teologi.
In questo passo, Averroè inserisce un’accorata
lamentazione per l’esistenza delle sètte che sventrano l’Islam, lacerandolo in
continui dissapori e lotte fratricide. Il filosofo dichiara di essere
amareggiato da profonda afflizione al pensiero di questi gravi fatti, dovuti
all’incapacità di Ashariti, Mutaziliti e altri pervertitori della dottrina
dell’Islam, che si servono malamente dei metodi della filosofia.
«Le
ferite inferte da un amico fanno più male di quelle inferte da un nemico: e siccome
la filosofia è amica della religione, e anzi sua sorella di latte, le ferite
inferte (alla religione) da chi vorrebbe essere affine ai filosofi sono più
dolorose, senza mettere in conto le inimicizie, l’odio e le liti che ne vengono
attizzate. Al contrario, filosofia e religione si accompagnano per natura, e
per essenza e inclinazioni si amano scambievolmente».
Alla vita di Averroè è ispirato il film "Il destino" del regista egiziano Yūsuf Shāhīn (Youssef Chahine): al centro della sua visione, lo scontro ancora vivo tra estremismo religioso e razionalità. |
Questo è uno dei passi più belli e famosi
dell’intero Trattato. Con esso, e con
l’elogio degli Almohadi citato nel capitolo precedente, l’opera si chiude.
Segue una breve appendice, la Damîma. In essa approfondisce il problema già incontrato della
differenza che intercorre tra la conoscenza umana delle cose e quella divina.
Dice Averroè che se gli oggetti sono presenti nella
mente di Dio prima di essere creati, delle due l’una: o vi sono presenti uguali
a come saranno dopo essere creati, o in una maniera diversa. Il primo caso è
assurdo, perché fra l’essere degli oggetti e il loro non-essere (cioè fra il
loro essere in atto e il loro essere prima di essere in atto) non ci sarebbe
alcuna differenza, il che è una contraddizione in termini; il secondo caso è
altrettanto assurdo, poiché la conoscenza di Dio sarebbe soggetta a cambiamento
(al pari della conoscenza degli uomini).
Sulla base di queste premesse, qualsiasi conclusione
risulterebbe inaccettabile o quantomeno blasfema.
La soluzione, ancora una volta, è più semplice e
antecedente allo stesso dispiegarsi del problema: il problema, infatti, non si
pone veramente. La conoscenza di Dio e la conoscenza degli uomini hanno in
comune il nome e niente altro: l’indebita analogia fra le due genera confusione
ed equivoci. L’esempio di Zayd che guarda una colonna e che rimane identico a
sé stesso sia quando si trova alla sua destra che quando si trova alla sua
sinistra rappresenta un'efficace metafora della conoscenza di Dio, che resta
inalterata nonostante le alterazioni subite dagli oggetti conosciuti.
A chi volesse approfondire (in lingua italiana e francese) suggerisco:
- "Averroè", M. Campanini, Il Mulino 2007, un'ottima introduzione alla vita e alle opere di Ibn Rushd.
- "Storia del pensiero nel mondo islamico", M. Cruz Hernàndez, Paideia 1999: tre volumi incantevoli e ricchissimi (in particolare, per quanto riguarda nello specifico Averroè, indico il secondo volume).
- "Pour une histoire de la 'double verité'", L. Bianchi, Vrin, Paris 2008, un libro leggero ma illuminante sulla questione della "doppia verità", ossia la tesi falsamente attribuita ad Averroè che esisterebbero due verità diverse (ossia non coincidenti), quella razionale e quella religiosa, il che implica la "blasfemia" per cui la religione sarebbe contraria alla ragione: tesi che costerà alle opere del Commentatore la messa all'indice.
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