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giovedì 3 ottobre 2013

"Cuore di cane" di Michail Bulgakov

"Cuore di cane" è un romanzo fantascientifico-satirico pubblicato per la prima volta nel 1928 nella Russia comunista. Il peso delle recenti vicende economico-politiche si avverte sin dalle prime pagine, dove salta all'occhio il tono marcatamente polemico con cui Bulgakov ironizza sul nuovo stato comunista (l'Urss) fondato da Lenin pochi anni prima (1922). Lo si nota subito: i proletari, senza alcuna eccezione, vengono dipinti come gretti, rozzi e violenti. L'incipit dell'opera è eloquente: a parlare è un cane ferito che si rifugia vicino ad un portone nel centro di Mosca dopo la truce aggressione di un cuoco.

«Uuuuhhh! guardatemi sto morendo. La bufera nel portone mi urla il de profundis e io ululo con lei. Sono finito, finito. Un delinquente col berretto sporco, il cuoco della mensa degli impiegati del Consiglio Centrale dell'Economia Nazionale, mi ha rovesciato addosso dell'acqua bollente e mi ha bruciato il fianco sinistro. Che bestia! E sì che è un proletario! Signore santissimo, che dolore! Quella maledetta acqua bollente mi ha ustionato fino alle ossa e adesso ululo, ululo, ululo, ma serve forse a qualcosa?»

Nelle prime pagine i pensieri del cane scorrono fluenti, mostrandone un tagliente spirito critico: dal suo rifugio di fortuna, l'animale dà modo al lettore di avere un primo sguardo lucido sul contesto della vicenda attraverso il susseguirsi di giudizi implacabili sui proletari, che vengono presentati per categoria. Gli spazzini? Di certo i più infimi! I cuochi? Bisognerebbe aprire un discorso a parte! Una dattilografa di nona categoria guadagna quarantacinque rubli...come fa a comprare quelle costose calze di seta? Gliele darà sicuramente l'amante!

«Gli spazzini, fra tutti i proletari, sono i più vigliacchi; sono canaglie, feccia dell'umanità, sono la categoria più bassa. Per i cuochi, be', per i cuochi è un altro paio di maniche; prendi, per esempio, la buonanima di Vlas di via Prečìst'enka. Ha salvato la vita a un sacco di cani! [...] Vlas era un grand'uomo, un cuoco da signori: il cuoco dei conti Tolstoj! Niente a che vedere con quei dannati cuochi del Consiglio dell'Amministrazione Normale. [...] Una dattilografa di nona categoria guadagna quarantacinque rubli. Le calze di seta, d'accordo, gliele regala l'amante; ma quante umiliazioni deve ingoiare, per quel filo di seta! [...] Mia fa una pena, la ragazza! Ma io mi faccio ancora più pena. Non parlo per egoismo, questo no, ma effettivamente c'è una bella differenza tra lei e me. Lei perlomeno a casa se ne sta al caldo e io invece...dove vado io? Uuuuhhh...!»

Il malcapitato è ormai al culmine della disperazione quando, prossimo all'accettazione del proprio inequivocabile destino, gli si avvicina un distinto signore, uno di quelli che "non prende a calci ma non ha paura di nessuno, e non ha paura perché è sempre sazio". Non si tratta certo di un proletario! Qui la perfidia di Bulgakov raggiunge vette scandalose, nella misura in cui ci presenta l'accoppiata cittadino-compagno come un'accoppiata ossimorica: «Dall'altra parte della strada sbatté la porta di un negozio vivamente illuminato, e ne uscì un cittadino: "Beh, si: si tratta proprio di un cittadino, non certo di un compagno; anzi, questo qui è addirittura un signore. E non che giudichi dal cappotto -non sono così sciocco-. Oggi il cappotto ce l'hanno anche i proletari, o molti di loro.»

L'uomo offre al cane un pezzo di salame e si fa seguire sino al suo lussuoso appartamento sulla Prečìst'enka, dove l'animale malmesso viene curato e sfamato. Non c'è da stupirsi se il buon samaritano, il cui nome è Filìpp Filìppovič Preobražénskij, presto si rivelerà un professore di medicina di fama mondiale, che ha avvicinato l'animale unicamente per il bene della propria sperimentazione scientifica: l'intento è sempre stato quello di trapiantare nel cane i testicoli e l'ipofisi di un uomo morto al fine di compiere quell'esperimento straordinario che avrebbe finalmente dimostrato l'utilità e il compito dell'ipofisi. Dal momento in cui Pallino (è così che viene chiamato l'animale) viene anestetizzato per procedere con l'operazione chirurgica, la narrazione (inizialmente un flusso di pensiero del cane) cambia registro: il lettore legge direttamente dal diario del dottor Bormentàl, il fedele assistente di Filìppovič. Bormentàl annota dettagliatamente le condizioni della cavia, fino ad arrivare ad una scoperta inimmaginabile: l'ipofisi determina la natura umana! Dopo l'operazione, infatti, Pallino perde la coda e gli artigli, inizia a camminare su due zampe e, a tutti gli effetti, diventa un uomo.

«Si apre un nuovo capitolo della scienza: senza ricorrere agli alambicchi di Faust abbiamo creato l'homunculus. Il bisturi del chirurgo ha dato vita a una nuova entità umana. Prof. Preobražénskij, lei è un creatore!»

L'ipofisi, però, è anche portatrice di una serie di informazioni cerebrali che l'homunculus si ritrova a possedere: l'ex cane parla di Marx ed Engels, esige di avere dei propri documenti di riconoscimento, si esprime come un topo da osteria. La situazione tragicomica che si viene a creare diviene insopportabile, non solo per le evidenti conseguenze politiche (il medico controrivoluzionario ha creato un proletario!), ma anche per quel trascinamento animalesco che ancora Pallinov Poligràf Poligràfovič (è questo il nome che Pallino si dà in quanto cittadino registrato all'Anagrafe del Comune di Mosca) porta con sé: egli dà la caccia ai gatti e, assecondando il proprio istinto sessuale, si intrufola nella stanza della governante in piena notte e senza alcun ritegno! 
Dopo l'ennesima marachella, Preobražénskij decide, dunque, di sostituire nuovamente l'ipofisi umana con quella del cane, dando il via al processo che dall'uomo Pallinov riporterà in vita il cane Pallino. 

La critica mossa dallo scrittore è una critica su più fronti: la satira tocca, da un lato, i "nuovi ricchi" (i ricchi che sono diventati ricchi, ma che non hanno perso le proprie rozze abitudini), dall'altro lo spingersi della scienza al di là dei limiti sanciti per essa dalla natura stessa. 

«Ecco, dottore, cosa si ottiene quando il ricercatore, invece di procedere in armonia con la natura, forza le cose e solleva il velo: ora tieniti Pallinov e goditelo

Lo stile di Bulgakov è certamente figlio della più arguta tradizione russa: la traduttrice Viveka Melander rintraccia un chiaro albero genealogico-stilistico che vanta nomi quali Gogol', Saltykov-Scedrìn, Majakovskij («L'esasperazione, la tensione, la sovreccitazione narrativa, la dilatazione dello spazio in dimensione infinita, la dinamica aerea, l'attenzione per le macchine, per il jazz, per il neon [...] sono caratteristiche decisamente futuriste»). Caratteristiche frequenti in Bulgakov e nella letteratura russa in generale sono certamente "l'animazione oggettuale" («occhiali che parlano, vestiti che significano: "La bufera, vecchia strega, fece sbattere il portone e galoppando sulla scopa, ferì l'orecchio della ragazza"»), ma anche il fatto di assegnare ai personaggi denominazioni significative. Preobražénskij, ad esempio, significa "colui che trasfigura". Non solo! All'interno della struttura dell'opera, il lettore si accorgerà sicuramente della presenza di quattro differenti stili linguistici associabili ad altrettante classi sociali: c'è una lingua rude tutta fatta di imprecazioni (la lingua del sottoproletariato), poi c'è quella burocratizzata (la lingua dei compagni fedeli al partito), quella del parlato semplice (la lingua quotidiana della governante) e, infine, quella della ex classe dominante (la lingua dei borghesi). Procedendo nell'analisi di questa gerarchia linguistico-sociale, «con Preobražénskij, anzi, con Filìpp Filìppovič Preobražénskij, ché lui ci tiene a essere chiamato per nome e patronimico, siamo all'aristocrazia della lingua, alla nobiltà semiologica, alla sublimazione del parlato». 

Un libro pungente e al tempo stesso toccante, che si divora in pochi giorni. Bulgakov non sarà stato il massimo nelle scelte politiche, ma è stato sicuramente un valido scrittore. Assolutamente da avere in libreria!

sabato 15 giugno 2013

"Il Maestro e Margherita" di Michail Bulgakov


«Seguimi lettore! Chi ha detto che non c'è al mondo un amore vero, fedele, eterno? Gli taglino la lingua malefica a quel bugiardo! Seguimi lettore e io ti mostrerò un simile amore!»

Il Maestro e Margherita non è un romanzo, ma un autentico affresco: grandioso, ricchissimo, visionario, originale. Eugenio Montale lo ha definito "un miracolo che ognuno deve salutare con commozione". Un esercito di personaggi, verosimili o grotteschi, si avvicenda in una selva di episodi personali e collettivi, sullo sfondo di una Mosca e di una Eršalaim che a tratti si accavallano come per un contrappunto musicale.
La trama esplode e inizia a srotolarsi dall'incontro ai Patriaršie prudy di due letterati moscoviti, il direttore del Massolit Berlioz e il mediocre poeta Ivan Nikolaevič Bezdomnyj, con Woland. Quest'individuo si presenta come uno straniero loquace dall'aspetto bizzarro: origlia come per caso la conversazione dei due, che verte sull'esistenza di Dio, e si intromette. I due, perfettamente integrati in un ambiente culturale che fa dell'indiscutibile ateismo una bandiera, asseriscono con decisione che non esistono entità ultraterrene, e cercano di persuadere il diavolo della propria inesistenza, senza conoscere la vera identità del loro interlocutore.
Su questo imbarazzante equivoco, su una profezia sinistra che si realizza nel giro di pochissime pagine, su una decapitazione fulminea e spiazzante è imperniato l'incipit del libro. Woland, che incarna le forze oscure e richiama il Faust di Goethe con una miriade di similitudini, parallelismi e citazioni, si spaccia per un prestigiatore e si esibisce nel teatro di Mosca, scatenando una serie di eventi tragicomici che nel corso del romanzo conducono alla morte, in galera o in manicomio gran parte dei personaggi. Ad affiancare Woland c'è un seguito pittoresco, composto dal versatile Korov'ёv, dal demone-assassino Azazello, dalla splendida diavolessa Hella e da Behemot, un gattone nero dotato di spigliata parlantina, oltre che di modi a tratti servili e a tratti insolenti (credo il personaggio più appariscente e piacevole).
Solo a storia inoltrata il lettore incappa nel Maestro e in Margherita, e nella loro storia d'amore. Lui, uno scrittore reso folle dalle diffamazioni e dalle pessime recensioni dei critici riguardo un suo manoscritto, incontra Ivan Nikolaevič nella clinica psichiatrica dove entrambi sono ricoverati, e lì gli racconta del proprio incontro con Margherita, una donna sposata ed estremamente infelice.

«L'amore è balzato davanti a noi dal nulla, come un assassino in un vicolo, e ci ha colpiti entrambi, nello stesso istante. Così colpisce la saetta, così colpisce il coltello a serramanico. Ma lei, in seguito, sosteneva che non era successo così, e che noi ci amavamo già da tanto, tanto tempo prima, senza conoscerci, senza esserci mai visti.»

La malattia psichica di lui li ha allontanati, senza che lei avesse notizie della sorte del suo amato. Quando Azazello incontra Margherita e le lascia intendere di avere informazioni sul Maestro, lei accetta senza indugi di incontrare Woland. Per la speranza di rincontrare il suo amato, Margherita lascia il tetto coniugale, si trasforma in una strega e stringe un patto con Woland. La narrazione culmina nel variopinto e allucinato capitolo Il gran ballo di Satana, in cui gusto macabro, atmosfera vivace e fantastica e riferimenti storici dottissimi si intrecciano alla blasfemia che si addice ad un festino satanico, culminando con la scena forse più cupa e intensa del romanzo, quella in cui Woland uccide un uomo, ne versa il sangue nella coppa ottenuta dal cranio di Berlioz e lo beve sottoforma di vino, nel blasfemo rovesciamento della cristiana transustanziazione del vino in sangue.
La storia d'amore di Margherita e del Maestro si intreccia alle vicende di quest'ultimo, coinvolto e come posseduto dal proprio romanzo fino ad impazzirne, alle vicende di una marea di personaggi minori e ai tiri mancini di Behemot e Korov'ёv, che si dilettano fino all'ultimo dei capitoli (trentatré come gli anni di Cristo) a spargere panico e confusione; il tutto è situato su un piano narrativo che si alterna con un secondo contesto: quello altrettanto vivido della passione di Cristo, il "filosofo" Ha-Nozri, che fino alla morte predica invariabilmente che: «Tutti gli uomini sono buoni». Questo secondo piano narrativo coincide con il romanzo del Maestro, con i sogni che turbano fino alla fine Ivan Nikolaevič e con la storia tormentosa di Ponzio Pilato, che per duemila anni porterà con sé il peso della propria decisione, quella di lasciare che Ha-Nozri venisse ucciso, come una maledizione.
Seppure estremamente fantasioso, Il Maestro e Margherita è uno specchio realistico della società moscovita degli anni '30 (non a caso, il libro sarà pesantemente censurato e vedrà la luce in forma definitiva solo dopo la morte di Bulgakov): nell'intreccio dei singoli fili narrativi, Bulgakov inserisce e incastona la satira sociale, la polemica sull'assegnazione degli appartamenti, soprattutto la critica beffarda dell'ambiente letterario e culturale moscovita (molti personaggi sono il calco di artisti e letterati realmente esistiti; ad esempio, Margherita Crepax identifica il personaggio minore di Rjuchin con il poeta Majakovskij, del quale in tal caso si darebbe una rappresentazione a dir poco impietosa).

Il Maestro e Margherita è un intrecciarsi inquietante di alienazioni, capovolgimenti della realtà, straniamenti, e gronda di tocchi macabri e profetici. Bulgakov incontrò gravi difficoltà nella stesura dell'opera, di cui compì una tripla redazione, per giunta di continuo rimaneggiata, e nella sua pubblicazione. Stroncato dalla critica dei suoi contemporanei, represso e censurato dal governo, l'autore ebbe modo di scrivere a Stalin:


«Io considero la lotta contro la censura, di ogni natura e qualsiasi potere la sostenga, come un dovere dello scrittore allo stesso titolo degli appelli alla libertà di stampa. Io sono un feroce partigiano di questa libertà e dichiaro che uno scrittore che possa farne a meno somiglia ad un pesce che dichiara pubblicamente di poter fare a meno dell'acqua». 

Nonostante le sue convinzioni, Bulgakov fu così demoralizzato dalle avversità che bruciò la prima versione del romanzo, oggi considerato uno dei più grandi capolavori della letteratura del Novecento. Allora, visto che l'opera è fortunatamente arrivata fino a noi in un modo o nell'altro, è bello trovare un che di profetico nelle parole pronunciate da Woland, in riferimento al romanzo su Pilato scritto dal Maestro e anche da lui distrutto in preda allo sconforto: 

«I manoscritti non bruciano.»
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