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giovedì 7 giugno 2018

"Vàsame" - Il gesto teatrale contro la violenza di genere

«Io vuless addiventà nu poc e vient
Pe trasì p’a forza rint ‘a bocca toia»

Si solleva il sipario e dal buio affiorano figure immobili e allineate, come davanti al plotone d'esecuzione. Sono vestite dei colori del sacrificio rituale: la veste bianca di un agnello immolato, le scarpe rosse come il sangue versato. Dodici vittime in abito da sposa.
I vestiti vaporosi, il pizzo e il raso bianco, emergendo in un chiaroscuro violento tra il nero inchiostro delle quinte e la luce brutale dei faretti, diventano immediatamente lugubri. Le spose rompono i ranghi, si mettono comode, in piedi o sedute, per formare un salotto ultraterreno: si scambiano racconti ed esperienze, sorridendosi incoraggianti, scherzando tra loro. Si tolgono la parola a vicenda, continuano l'una la storia dell'altra. Raccontano di vite diverse, lontane nel tempo e nello spazio, riunite in quel luogo dal più brutale dei comuni denominatori: una morte violenta per mano dell'uomo che diceva di amarle. Le tante storie si fondono in un'unica storia che viene raccontata a più voci.
L'abito da sposa perseguita le donne assassinate nell'aldilà, a ricordare loro che sono morte perché mogli, ingabbiate nelle stecche e nei pizzi del loro rigido ruolo di genere, spinto fino all'estrema, deforme conseguenza. L'abito è la maschera del ruolo, della funzione sociale di quelle donne ammazzate, del luogo nel mondo che era loro predestinato («Tu sei mia, sei nata per me» grida sul palco il marito violento) e dal quale non si sarebbe mai potute evadere se non lasciando, insieme, la vita stessa. Il bouquet che le spose stringono tra le mani per tutta la rappresentazione, invece, rimanda ad un momento preciso nel tempo: il giorno delle nozze. Il giorno della festa, carico di aspettative e tenerezza. Tra le mani delle morte ammazzate, il bouquet diventa un dettaglio amaro, quasi uno sfottò alla loro innocenza, un monito tardivo all'ingenuità felice con cui si sono affidate al loro destino di morte.

Le spose recitano scalze. Le scarpe rosso sangue vengono esposte sul bordo del palco, come le teste dei giustiziati medievali venivano esposte sulle picche. Le ragazze si riuniscono al centro del palco, inginocchiate e abbracciate a formare una campana, come a chiudere dentro il loro pudore. Le circondano, camminando piano con cadenza inesorabile, in cerchio, come squali, i loro mariti. Anche loro non sono che un unico marito: il prevaricatore, il violento umiliatore, l'omicida. Di bocca in bocca, quell'unica voce destinata alla Caina espone le sue ragioni: dei passi del Quinto Canto dell'Inferno. E mentre si racconta di Gianciotto che trafigge a morte la moglie adultera e il suo amante, i mariti camminano sul palco attorno alle spose rannicchiate, e le massacrano simbolicamente, le lapidano sotto una fitta sassaiola di caramelle, che sbattono sui corpi indifesi e sull'assito del palco.



Anche gli omicidi sono incastrati nel loro abito nuziale, nel loro ruolo millenario e patriarcale che quasi li costringe al delitto d'onore. Gli sposi, i maschi, stanno in piedi per tutta la rappresentazione: sono l'elemento verticale della composizione, incarnano il principio attivo e prevaricatore, la forza che modella la materia. Le spose si inginocchiano, si siedono, si sdraiano a terra, si rannicchiano. Indossando guanti di gomma strisciano sul palco, che è il lucido pavimento di un grattacielo di Dubai, per pulirlo come schiave di altri tempi. «Siamo le schiave della globalizzazione» spiega una delle spose col viso rivolto al pubblico mentre insieme alle compagne pulisce il pavimento inginocchiata, con il busto parallelo al palco, solo la testa sollevata per produrre la Parola. Sono spose sottomesse perfino nella postura, ridotte alla posizione orizzontale della massima passività, del sonno inerte, della morte. Sono la materia che si lascia manipolare e distruggere. Le schiave con i guanti di gomma incarnano la duplice sottomissione della donna povera, la subalterna tra i subalterni di cui parla la filosofa Gayatri Spivak. E se Spivak poneva la celebre domanda, "I subalterni possono parlare?", le spose sul palco danno la più amara delle risposte. Esse riescono a produrre la parola solo dopo morte, solo unendo i loro sacrifici umani in un racconto che ormai è corpo (massacrato), è storia, è vita consumata.

L'impotenza della parola precede e fonda il delitto. «Lo aveva detto a tutti che mi avrebbe uccisa» dice una delle spose. «Lo sapevano proprio tutti. Ma allora perché glielo hanno lasciato fare? Perché io gliel'ho lasciato fare?».
Per essere potente, la parola deve essere performativa. L'annuncio («Ho avuto l'annunciazione... come la Madonna!») di un delitto non serve ad impedirlo, la parola che informa può essere trascurata, ma non la parola che obbliga, non la parola che violenta e umilia. Il fidanzato che tutte le altre invidiavano, quello che sommergeva la donna di attenzioni e tenerezze, messaggi e chiamate a tutte le ore, diventa un oppressore, furioso se respinto, se la donna chiede qualche minuto per sé («per respirare, per pensare, per leggere, per andare al cesso, per annoiarmi»).
Le numerose personificazioni del compagno/oppressore scendono dal palco e si aggirano tra gli spettatori parlando al cellulare, in un climax ansioso e ansiogeno, aggredendo verbalmente la donna, la fidanzata, la troia, che deve rispondergli, che deve rendergli conto di come si veste, di chi frequenta, del tempo che decide di non immolare a lui, di tenere per sé.
Lei frappone debole resistenza alla gelosia monomaniacale di lui, alla sua passione distruttrice («Vorrei mangiarti [...] Vorrei berti») che vuole inglobare dentro di sé l'oggetto amato (oggetto proprio perché totalmente abbandonato alla passività, e amato solo perché e fintantoché tale passività sussiste), annullandolo nella propria individualità, isolandolo da qualunque possibile esposizione al contagio libertario. L'eliminazione fisica della sposa non è che un'ultima fase di un processo violento fin nel suo primo dispiegarsi, non è che una forma di violenza distruttrice tra le tante che la sposa è costretta, nella passività oggettuale che le è propria, a subire.

Tra le donne/vittime e i mariti/carnefici c'è un personaggio che si pone al di là della rigida schematizzazione, che scavalca e scardina l'eteronormatività. Il personaggio cerniera, Thomas/Mary, non giunge tanto per conciliare i due poli della dialettica (che poi non è una vera dialettica, perché uno dei due poli è artificialmente annichilito a favore dell'altro, che riempie di sé l'intera relazione) quanto per fare saltare il tavolo. È lui/lei che spoglia le spose, le libera della loro gabbia di genere, spacca simbolicamente la rigidità dei ruoli assegnati, li rende eludibili, oggetto di scelta, spazio di libertà.

Dopo lo spettacolo "Lea - Nella pelle delle donne", "Vàsame - Il polline dei baci" (liberamente tratto da "Ferite a morte" di Serena Dandini) torna a mettere sotto i riflettori la questione della violenza di genere. Lo fa con sensibilità, creatività e grande potenza evocativa e suggestiva, grazie alla regia concettuale e pulita di Rocco Capri Chiumarulo e Anna Garofalo, il contributo della professoressa/tutor Monica Iusco, e la straordinaria interpretazione dei ragazzi e delle ragazze del Liceo Scientifico "G. Salvemini" di Bari.

mercoledì 10 gennaio 2018

Spartacu strit viu’ - Alessandra Mallamo

«Cos’è che fa camminare la strada? È il sogno.»
detto di Tuhair

Ricordarsi all’improvviso di Mejerchol’d, Grotowsky, Artaud, di cosa è stato il teatro nel Novecento, di come ci ha insegnato a scompensare i centri di equilibrio su cui avanzano le nostre giornate. E ricordarsene nel posto giusto: nel buio di un piccolo teatro comunale della “periferia dell’impero”.


Spartacus strit viu’


“L’attore è un atleta del cuore” scriveva Artaud ne Il teatro e il suo doppio, ed è proprio l’impegno fisico, lo sforzo muscolare, che localizza storie e passioni sul palcoscenico, a giustificare uno spettacolo teatrale su un uomo come Franco Nisticò, un “gladiatore” che nella sua vita ha cercato giustizia e libertà dando tutto ciò che poteva dare; come Spartaco, appunto (non a caso Karl Marx ha scritto: “Spartaco è l'uomo più folgorante della storia antica. Un grande generale, un personaggio nobile, veramente rappresentativo del proletariato dell’antichità”).
Ciò che permette di restituire tutto questo senza retorica è il corpo di un attore.
Il volto è nascosto da un casco: come quello che i gladiatori indossavano quando scendevano nell’arena ma anche come le maschere che hanno popolato il teatro in tanti luoghi e tempi diversi. Il copricapo “marziano” e “marziale” di Francesco Gallelli è l’oggetto che tiene insieme la dimensione spettacolare della lotta - i gladiatori non erano anche loro i protagonisti di uno spettacolo? - e il pericolo del campo di battaglia, che richiede di rischiare e di mettere in gioco se stessi.
Ma il casco è anche solo un casco, di quelli che mettiamo quando andiamo in moto; un casco/elmetto/maschera che ricorda così anche la bruta realtà della strada/arena/teatro di cui si parla: la 106, su cui corrono e trascorrono le nostre vite.
Dunque attore e gladiatore: oscillando tra questi due momenti si articola tutto lo sviluppo dello spettacolo e si spiega perché un’opera su un uomo che ha lottato con tutto se stesso per la sua terra è allo stesso tempo un discorso su cosa significa fare teatro in questa terra, ovvero su cosa significa fare teatro tout court.


Biografia, ma anche autobiografia, anzi nessuno delle due: la passione di Franco, il corpo di Francesco e viceversa. Non ci sono furti, non ci sono indebiti paragoni o mescolanze, solo la condivisione dell’arena, anzi la condivisione della strada.
Teatro come lotta, attore come lottatore. In questa congiunzione il gladiatore di Spartacu stit viu’ sviluppa la sua muscolatura affettiva attraverso lo sforzo, il respiro e il sudore. Massimo dispendio di energia per la creazione del bios scenico minimo, la posizione fondamentale che consiste nel rifiutare l’enfasi o la disperazione per concentrarsi sull’unica cosa che conta: l’intensità.
Intensità che aumenta a ogni giro della corda che Francesco salta ininterrottamente per tutta la prima parte della performance: salto, nome, età, luogo, salto, nome, età, luogo, salto, nome, età, luogo. Un elenco interminabile e straziante di vite perse affolla il discorso mentre l’attore continua a saltare e parlare e respirare. Chi non respira dopo un po’ è lo spettatore, ipnotizzato dall’alone luminoso della corda che gira ritmicamente e in ansia perché non si capisce quando finirà (“Sbaglierà? La smetterà prima o poi? Rallenterà? Perché lo sta facendo?”).
Ripetizione, Rabbia, Resistenza. Ripetizione per dire la monotonia di una vita non libera, rabbia per dire la perdita, resistenza per imparare a lottare.
Nel saltare la corda si tengono insieme la frustrazione e la rivalsa e sulla scena vediamo lentamente un corpo che cambia, che si trasforma e innerva le parole che pronuncia. Il salto della corda è infatti l’esercizio fondamentale del lottatore, e in particolare del boxeur, per sviluppare rapidità, gioco di gambe, resistenza e fiducia. Nello sferrare un pugno è più importante la posizione dei piedi che la forza del braccio poiché è lo spostamento del centro di equilibrio a determinare la potenza. La corda, dunque, può essere una frusta o una catena ma è proprio grazie a questo che impariamo a condurre la nostra lotta, a prepararci, ad affermare una forza.
Altrimenti resteremo sempre e soltanto all’estasi vuota dell’attore che “imita” un passo dell’Alcesti, che riproduce con le sole espressioni del volto o con un gesto vuoto la psicologia di un dolore; si tratta invece di essere Alcesti, di vivere e comprendere la perdita di Admeto, quando perde la donna che ama. Si tratta, più precisamente, di ri-vivere, essere capaci di trasformare il dolore, far vivere ancora quelli che ci sono stati portati via, ri-creare il senso di una vita in tutta la sua complessità; anche se questo significa mischiare il triviale e il terribile, l’epopea di biutiful con l’evento spaventoso del comizio di Berlinguer a Padova.
Tutto ciò per imparare a condurre una battaglia autenticamente politica, dove, per prima cosa, bisogna lasciar andare la retorica del vittimismo; l’etica dello schiavo su cui da sempre fanno leva speculatori, ignoranti arricchiti e politicanti da quattro soldi; la logica della necessità che ci spinge a sopportare tutto e ad abbandonare le nostre priorità. Sembra che per imparare, di nuovo, tutto ciò che conta veramente nella vita occorra la finzione, l’arte, il teatro. Serve “l’immagine atletica di un corpo impegnato nella lotta”.


mercoledì 22 marzo 2017

La nuova colonia, Luigi Pirandello


La nuova Colonia fu rappresentata per la prima volta al Teatro Argentina di Roma nel 1928. Un’opera che coniuga la narrazione mitica, biblica, con la tradizione realista siciliana di verghiana memoria,  che ci spinge ad una attenta riflessione sulla natura del potere, sulle dinamiche prevaricatorie che inevitabilmente sorgono all’interno di una comunità, sulla naturale brutalità e violenza degli esseri umani, scissi tra il desiderio di riscatto e la loro essenza intrinsecamente corruttiva.

Il primo atto si svolge in una taverna di “un paese meridionale”: un locale che si affaccia sul porto, meta di avventori  dalle facce consumate dalla vita dissoluta, fatta di espedienti, di violenza e furberie, necessarie per sopravvivere. Su questo scenario degradato si susseguono personaggi di dubbia moralità: una prostituta, La Spera, pirandellianamente acconciata, Tobba, un ex galeotto di tarda età, e poi una cricca di delinquenti, Currao, Osso-di-seppia, Fillicò, Burrania, Crocco ed altri. Si parla di un’isola, sede di un penitenziario ormai dismesso: Tobba descrive quest’isola come un Eden, ameno e incontaminato, rimpiangendo i tempi della sua permanenza in quel luogo. Ad ascoltarlo incantato un innocente giovanotto, Dorò, figlio di un notabile locale, Padron Nocio, il quale irrompe sulla scena per dissuadere suo figlio dal frequentare quel covo di corruzione e decadenza, invano. Tra un bicchiere di vino e un’imprecazione, tra una discussione accesa e una rissa, la combriccola giunge alla conclusione che in questa civiltà nessuno di loro potrà mai riscattarsi. Qualunque tentativo di redimersi è vano: se un delinquente è stato in galera, ne avrà sempre la puzza addosso, sarà sempre considerato un delinquente, perché questa è l’etichetta che la società ti ha affibbiato, questa è l’onta che non potrai mai cancellare; se una prostituta si spoglia del trucco eccessivo, del vestiario allusivo, gli altri la vedranno sempre volgarmente truccata e disinibita. Non c’è riscatto, quando negli altri vive l’immagine che ti condanna alla corruzione e all’emarginazione. La Spera allora fa una proposta: perché non andare tutti sull’isola per ricominciare? Perché non fondare una nuova civiltà che finalmente ci permetta di cambiare? Dopo alcune perplessità, dovute soprattutto al modo in cui recarsi sull’isola e al fatto che quel posto è destinato ad essere sommerso dal mare, decidono di partire. Una nuova colonia costituita da ex galeotti e da una prostituta che decidono di fuggire dalla civiltà che li ha impietosamente condannati.

Il secondo atto comincia con una discussione tra Crocco e Fillicò. La ciurma è approdata sull’isola, e bisogna stabilire dove ognuno di loro debba vivere e quale pezzo di terra debba lavorare. La discussione verte proprio su questo punto: entrambi hanno adocchiato la medesima abitazione diroccata e lo stesso pezzo di terra. Interviene nella disputa Currao, riconosciuto come capo e garante dell’ordine in quanto possiede l’unica donna della comunità, La Spera, la quale da prostituta  diventa la donna più desiderata, che si prende cura degli uomini, amata e  rispettata da tutti perché  compagna legittima di Currao. Questi propone di formare un tribunale che possa dirimere la controversia. Crocco reagisce con rabbia, non si è liberato da una legge per sottomettersi ad un’altra! Currao gli risponde che è necessaria una legge «che valga per te e per tutti allo stesso modo; legge tua e nostra, che ce la comandiamo noi stessi, perché l’abbiamo riconosciuta giusta; come la necessità ce l’ha insegnata: del lavoro che dobbiamo fare, tutti, ciascuno il suo, per darci aiuto a vicenda: tu questo, io quello, secondo le forze e le capacità. Non te l’impone nessuno. Tu stesso. Perché possa ricevere, in cambio di quello che dai». Crocco si rifuta di obbedire a questa legge condivisa, non riconosce il potere di Currao legittimo, perché il fondamento di questo potere si fonda su un privilegio, il possesso di una donna. Allora decide di andarsene, sottraendo alla comunità l’unica imbarcazione che permetteva loro di avere un contatto con il vecchio mondo.

Il terzo atto si apre con l’invasione dell’isola. Crocco ritorna accompagnato da Padron Nocio, che vuole portare il figlio con sé e da altri che vogliono entrare a far parte della nuova comunità. Questi portano donne e vino, voglia di far festa e corruzione. L’arrivo delle donne porta a due conseguenze fondamentali: la promiscuità sessuale, per cui, in assenza di una legge, le donne sono continuamente insidiate dagli uomini, trattate come oggetti di piacere, e la seconda, più importante, è il declino del ruolo della Spera. Questa ritorna ad essere la prostituta e l’emarginata che era sempre stata: gli uomini che l’avevano desiderata adesso la insultano e dileggiano, Currao la abbandona, desideroso di riprendersi il potere contraendo un nuovo “matrimonio” con la figlia di Padron Nocio, Mita. A difenderla resta solo l’innocente Dorò, a darle conforto il suo bambino. Tutto diventa corruzione, l’isola da luogo ameno di lavoro e collaborazione diventa una Sodoma di perdizione e anarchia: nessuno lavora, e la vecchia vita frugale è adesso scandita da orge dionisiache e da lotte per il potere. Crocco e i suoi amici elaborano un piano diabolico per evitare l’alleanza tra Currao e Padron Nocio: bisogna uccidere Dorò e far ricadere la colpa su Currao. Allora Padron Nocio sarà l’unico legittimato al potere, e Crocco e gli altri saranno le sue “guardie del corpo”, la forza armata che stabilirà la legge del più forte, alla quale lo stesso Nocio sarà assoggettato. Nell’intrigo viene coinvolta, con l’inganno, anche La Spera, che durante una grande festa in cui si celebrano dei finti matrimoni – volutamente ufficiosi – accuserà pubblicamente Currao di voler uccidere Dorò. L’ultima scena vede lo sciogliersi dell’intrigo: Currao dichiara la sua innocenza, ripudia La Spera e cerca di sottrarle il figlio. La prostituta scappa, correndo lungo la salita di un’altura. Gli altri restano in basso ad urlare ed imprecare, finché questa civiltà, appena nata e già corrotta, viene scossa da un violento terremoto e sprofonda in mare. Restano sulla  cima della montagna la reietta e il bambino: l’unica persona che era stata davvero in grado di cambiare, di redimersi, la sola che aveva servito la comunità con autentica passione e generosità, l’unica ad aver resistito alla corruzione del potere; e resta il futuro, un nuovo 
piccolo uomo che, da adulto, potrà fondare una società migliore.


E la terra veramente, come se il tremore del frenetico, disperato abbraccio della Madre si propagasse a lei, si mette a tremare. Il grido di terrore dalla folla con l’esclamazione “La terra! La terra” è ingoiato spaventosamente dal mare in cui l’isola sprofonda. Solo il punto più alto della prominenza rocciosa, dove La Spera s’è rifugiata col bambino, emerge come uno scoglio. 

mercoledì 1 luglio 2015

"Diatriba d'amore contro un uomo seduto": monologo in un atto di Gabriel García Márquez

«E così siamo andati in pari: tu ripudiato dai tuoi genitori e io dai miei. Ma felici di quello che avevamo. L'esatto contrario di adesso, che abbiamo tutto in abbondanza tranne che l'amore.»

Non si tratta di un romanzo, ma di un testo per il teatro: sul palco ci sono Graciela, una donna benestante che festeggia il venticinquesimo anniversario di matrimonio, e un manichino sprofondato in poltrona, coperto dal giornale che finge di leggere, ossia suo marito.
Il lungo, a tratti disperato e rabbioso, a tratti innamorato monologo di Graciela si snoda tra i ricordi di un passato misero ma felice, le gelide constatazioni sullo stato attuale del suo matrimonio, i propositi furiosi per il futuro immediato. Ma, soprattutto, cade nel vuoto: il marito di Graciela (un manichino appunto) non spiccica parola per tutto lo spettacolo, non interviene neppure come protagonista dei ricordi narrati dalla donna, non batte ciglio nell'udire le memorie amareggiate di lei, né le sue minacce o i suoi scatti d'ira. La verità è che il marito di Graciela è sempre stato nei confronti esattamente quello che è nella messinscena teatrale: un manichino, un essere non-umano, indifferente ai sentimenti della moglie, un po' come lei adesso è diventata apparentemente impermeabile agli atteggiamenti irrispettosi di lui.
Che lui l'abbia amata in gioventù? Non ne siamo certi. Il loro è stato il classico matrimonio riparatore (la buona società commentò il felice connubio osservando che, aspettando ancora un poco, il pargolo avrebbe potuto fare da testimone). Osteggiato, per giunta, dalle rispettive famiglie. Così, un po' per incoscienza e un po' per ribellione, i due giovani (benestante e blasonato lui, di umili origini e fuggita di casa senza neppure gli abiti addosso lei) hanno coronato quello che era una specie di dispetto felice. E per i primi tempi, almeno, felice davvero, con lui che rinunciava alla ricchezza di famiglia per lei e trovava casa in un barrio popolare, con una sola amaca per due, un fornelletto e vecchie tubature gorgoglianti con l'alta marea. Ma poi, così come la giovinezza li aveva spinti verso ciò che era precluso e sconsigliato, ciò che sembrava amore e libertà, la riconciliazione di lui con i suoi genitori li aveva risospinti nell'alta società che avevano dribblato con orgoglio, li aveva ricacciati nel mondo patinato della vita borghese e del benessere economico che li avrebbe distrutti.
Carica di gioielli di famiglia e servita sul palcoscenico da muti servitori che fanno apparire e sparire vecchie amache e luminosi mobili da toletta nell'ondeggiante flusso di ricordi e attimi presenti, Graciela manca di tutto ciò che desidera profondamente, di tutto ciò che la fece imbarcare nell'avventura di quelle nozze maledette: il tema onnipresente in Gabriel García Márquez, l'amore. Nel corso del monologo riversa sul marito, che non ribatte perché non la

ascolta neppure, i rancori accumulati in una vita, insieme ma non davvero. È la sera del loro venticinquesimo anniversario, la festa è stata grandiosa ai limiti del buon gusto, tra gli invitati si scorgevano tutti quelli che contano qualcosa nel Paese, ossia (precisa Graciela) tutti i ricchi e i corrotti. C'era anche lei, volgare e più brutta di Graciela, l'amante fissa di suo marito: Graciela stessa ha voluto invitarla, per non dare a nessuno la soddisfazione del contrario, per farle vedere e toccare con mano il fasto che fa gola alle amanti povere ma che non basta a rendere felici le mogli, o almeno non lei. Ma la presenza di questa donna nel loro matrimonio, sebbene forse la più bruciante, non è l'unica umiliazione che Graciela ha dovuto subire: tutto il Paese ha letto sul giornale o sentito passare di bocca in bocca, nel corso degli anni, delle avventure galanti finite male, che hanno visto il marito di Graciela una volta bloccato in casa con una minorenne, una volta aggredito e minacciato, sempre e comunque diviso tra molte donne, più o meno occasionali. Mentre lei, Graciela, ha sempre rinunciato a tradire quel marito che pure lo avrebbe meritato, perfino quell'unica volta che provò ardentemente il desiderio di farlo e si rese conto che avrebbe potuto farlo senza sentirsi infedele. Graciela è rimasta negli argini della convenienza borghese, del buon gusto e dell'opportunità, del contegno signorile che ci aspettava da lei, della più elegante e matriarcale sobrietà, della necessità di una decorosa ipocrisia, fino al trionfo sociale di oggi, fino all'esplosione di tutte le contraddizioni del suo matrimonio in questo giorno di festa in cui non resta neppure una traccia d'amore, se non quella del sentimento intenso che Graciela ancora nutre per lui (ciò che le fa provare tanta rabbia, ciò che in parte la trattiene e in parte la spinge via), se non quella dell'amore venturo, che Graciela non è più disposta a sacrificare. Si tratta di una forma di riscatto radicale e viscerale: se non sarà amore, sarà la sua ricerca disperata, sarà la speranza di tornare felice come lo era da povera, la fede che era solo sopita ma che ora, risvegliata, sarà inesauribile, in un amore che riempia la vita, le dia valore, la renda significativa e semplicemente bella.

martedì 15 aprile 2014

"Tutti uniti! Tutti insieme! Ma scusa, quello non è il padrone?" di Dario Fo

La commedia in due atti, sottotitolata "lotte operaie 1911-1922", racconta di Antonia, una «ocona» svampita e frivola che l'amore per il socialista Norberto «detto Saxofono» (per via della sua voce bassa e suadente) trasforma in una militante temeraria. Al principio della fabula, Antonia capita per caso in uno scantinato pieno di ferventi socialisti intenti a complottare sabotaggi e occupazioni. Tra loro ci sono un fanatico «trombone», un certo Mussolini, e un operaio in giacca e cravatta che subito colpisce Antonia con la bella presenza e la voce appunto da saxofono. Lui ci tiene a stare in giacca e cravatta perché i padroni vogliono gli operai morti di fame, mentre lui lotta per la loro dignità e libertà dallo sfruttamento. Il colpo di fulmine fa appena in tempo ad abbattersi sulla ragazza che una retata delle forze dell'ordine fa sgomberare lo scantinato. Trascinata in commissariato, l'ingenua Antonia spiffera tutto quello che ha sentito, causando l'arresto dei due socialisti che spiccavano nel gruppo di sovversivi: al giovane Mussolini vengono fatti bere due litri di acqua e sale mentre il bel Norberto detto Saxofono, superata l'arrabbiatura iniziale per l'involontaria soffiata di Antonia, la prega di portare un messaggio ai compagni rimasti in libertà. Lei si offre di assumere un'identità fittizia, quella di «morosa» del Saxofono, e quando lui le dà il via libera, lei chiede candidamente: «Posso dirlo in giro?». E, ricevuto un nuovo, stupito assenso, prende a saltellare festosa per il commissariato: «Ho il moroso rivoluzionario più bello del mondo!».
Conosciuti in un covo clandestino di sovversivi, fidanzati in commissariato, i due si sposano dopo un periodo di reclusione che Norberto deve scontare per la sua attività rivoluzionaria e Antonia, già incinta, trascorre tra l'umile lavoro e il nuovo interesse per la politica.
Antonia non si vota alla causa rivoluzionaria per mera osmosi né per ottusa emulazione, né tanto meno a causa di un entusiasmo passeggero legato alle lotte operaie che scuotono Torino (dove la storia è ambientata): lei vuole imparare il linguaggio della politica non per adeguarsi alle passioni del marito, non per compiacerlo, ma per capire le sue arringhe e le sue affermazioni, per seguire i dibattiti che lui tiene con gli amici, per poter fare domande e mettere bocca. L'innamoramento per il suo Saxofono è solo la scintilla che fa scattare in lei il desiderio di comprendere la sua realtà e di viverla autenticamente, in prima persona. Alla consapevolezza segue immediatamente l'azione: dal farsi interrogare dalle colleghe sarte per memorizzare meglio cosa vogliano dire termini come "massimalisti" e "turatiani", passa all'andare in giro carica di volantini di propaganda.
Quando l'attività clandestina di Norberto lo porta per l'ennesima volta dietro le sbarre, Antonia ha una vera e propria crisi di coscienza e la sua fede, che in pochi anni era nata e si era consolidata, vacilla. Si chiede se valga la pena lottare, se non sarebbe meglio avere un marito che non capisce un'acca di politica e si lava le mani dello sfruttamento degli operai, se il suo stesso impegno politico non sia superfluo o addirittura dannoso. Due anni dopo è di nuovo nel commissariato, tra una ricca industriale, il capitano di allora (intanto diventato colonnello) e un fascista, e di fronte a loro difende la causa rivoluzionaria con forza e ironia, senza risparmiare insulti e minacce, senza tentennare di fronte al potere, alla solidità dell'ordine costituito, alla violenza di chi lo rappresenta, ai sacrifici e alle difficoltà in agguato per chi insegue nonostante tutto l'utopia socialista.
Fittamente intrecciata con la vicenda personale dei protagonisti è la storia che corre dal 1911 al 1922: l'occupazione delle fabbriche a Torino, l'attività (controproducente) di sindacati e partito socialista, la frattura al suo interno che porta alla nascita del partito comunista (al quale immediatamente si votano i protagonisti), la nascita dei fascisti a tutela dell'ordine dei padroni, la repressione. In "Novecento", Bernardo Bertolucci fa pronunciare a Olmo Dalcò queste parole:



«I fascisti non sono mica come i funghi, che nascono così, in una notte. No. I fascisti sono stati i padroni a seminarli, li hanno voluti, li hanno pagati. E coi fascisti i padroni hanno guadagnato sempre di più, al punto che non sapevano più dove metterli i soldi.»

Questa stessa fenomenologia è la filigrana che si intravede nelle ultime sequenze della commedia scritta da Dario Fo, quando Antonia (interpretata da Franca Rame nel debutto del 27 marzo 1971 a Varese Belforte) ribatte con sarcasmo e sfacciataggine al borioso fascista che non incarna ancora una forza propriamente politica ma solo il braccio armato vigliacco e interessato dei ricchi industriali e degli agrari.
A proposito di un'altra sua commedia, "Morte accidentale di un anarchico", Dario Fo diceva che è sempre meglio trattare del materiale drammatico in modo comico: così facendo si evita la catarsi, la purificazione attraverso il dolore dell'immedesimazione e il pianto liberatorio. Dopo un bel pianto, l'evento triste o rabbioso che lo ha scatenato è come accantonato. Trasformare un evento doloroso in una farsa (come nel caso dell'assassinio di Giuseppe Pinelli nella commedia citata) invece contribuisce a che il dolore e la rabbia non si sfoghino ma restino nello spettatore a covare, a covare, ad alimentare rabbia e indignazioni più durature di uno sbotto o di un pianto, capaci di stimolare profondamente la coscienza. "Tutti uniti! Tutti insieme! Ma scusa, quello non è il padrone?" cerca di conseguire questo stesso scopo: tra gag clownesche e battute a profusione, delinea la genesi del fascismo all'indomani di una rivoluzione mancata e la lascia a covare nello spettatore (o nel lettore), a decantare, a farsi oggetto di riflessione storica e politica.
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