Nella mia tesi di laurea, ho cercato di sfatare il luogo comune che per mezzo secolo ha accompagnato la definizione di arte visiva, restringendo il campo propriamente artistico a poche espressioni (quella pittorica innanzitutto) che rendevano manifesta la soggettività del loro autore. Le altre forme di espressione, come la fotografia, erano tacciate di proporre una mera mimesis del reale. Avvalendomi di un confronto tra il filosofo Merleau-Ponty (che vede «nell'attività del pittore un'urgenza che supera le altre») e il fotografo Henri Cartier-Bresson (che ha smascherato l'inesattezza di quelle argomentazioni secondo cui la fotografia ben si presta a essere definita come mera riproduzione del reale), ho condotto una ricerca che mi ha permesso di incrociare le strade intraprese dai due autori: non solo risulta impossibile accusare la fotografia di semplice oggettività, ma far questo significherebbe depauperare il fotografo del suo proprio. Se il reale si dà già in maniera filtrata perché dipendente dalla percezione dell'individuo e impossibile senza tale percezione, la fotografia è il filtro del filtro, la seconda potenza della soggettività, ciò che quasi prescinde dall'oggetto perché tutto interno all'oggetto. La pretese di riportare la dimensione soggettiva a una dimensione di fatto, di sbaragliare il fenomeno ad una dimensione di appiattimento ontologico, risulta del tutto fallace. Pittura e fotografia sono, quindi, due facce della stessa medaglia poiché entrambe rivelano quella "natura all'interno" di cui parlava Cézanne e che tanto Merleau-Ponty rivendicava.
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Henri Cartier-Bresson, Dietro la stazione di Saint Lazare, Parigi, 1932 |
"Henri Cartier-Bresson nasce (...) nel 1908. Dopo aver studiato arte pittorica per due anni con André Lhote, si avvicina al surrealismo e rinnega l'arte teorica e protocollata, professata dal maestro Lhote: l'artista deve esprimersi in libertà, ignorando qualsiasi divieto. Nel suo “Manifeste du surréalisme”, André Breton scrive: «Incatenare l'immaginazione, anche trattandosi di ciò che comunemente si chiama felicità, è come sottrarci a ciò che v'è nell'intimo nostro di suprema giustizia». Questo vale anche e soprattutto per il fotografo, il quale deve rompere con la tradizione e fotografare la cosa per come essa è. Una fotografia deve immortalare la qualità essenziale della cosa, deve provocare una sensazione che riporti all'origine.
Durante il servizio militare, Henri rivaluta la sua Brown Box e fotografa, sperimenta: è davvero possibile riportare su carta l'immediatezza di una sensazione? Ed è possibile farlo in una maniera ancora più diretta della parola scritta?
Il XX secolo afferra le tecniche artistico-fotografiche del secolo precedente e le rielabora, dando inizio a quel processo che farà della fotografia un meccanismo immediato, veloce, il più delle volte tascabile. Oskar Barnack progetta il prototipo della Leica per lo stabilimento ottico di Ernst Leitz II: nel 1925, alla fiera di Lipsia, viene presentata la LEICA A, ancora dotata di obiettivo fisso. Segue la LEICA C, che possiede un obbiettivo intercambiabile (è una novità assoluta per l'epoca): ciò permette ai fotografi di scegliere tra obbiettivi con lunghezze focali diverse. Ogni scatto è diverso dall'altro perché diverso è il momento decisivo dal quale viene partorito, diversa è la soggettività del fotografo che scatta, diverse sono le sensazioni che l'immagine suscita.
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Henri Cartier-Bresson, Les enfants |
È l'incontro fortuito e folgorante con “Tre ragazzi sul lago Tanganica” del fotograto ungherese Martin Munkacsi ad avvicinare Henri alla fotografia in maniera decisiva: «Improvvisamente ho capito che la fotografia poteva fissare l'eternità di un istante», dice. E ancora: «Devo ammettere che è stata quella foto a dar fuoco alle polveri, a farmi venire voglia di guardare la realtà attraverso l'obbiettivo».
A partire dal 1934, il giovane fotografo intraprende una serie di viaggi fotografici grazie ai quali tocca l'Africa, gran parte dell'est europeo, l'Italia, l'America del Sud, New York. In tutto il suo lavoro di questo periodo, è evidente sia il richiamo alla simmetria della composizione (uno degli argomenti prediletti nelle lezioni di Lhote), sia l'influenza surrealista: «una parte di quanto compone la qualità geometrica dell'immagine è premeditata, l'altra, senza dubbio più importante, resta aleatoria. (…) Se il virtuosismo delle inquadrature di Henri Cartier-Bresson testimonia in modo innegabile l'influenza di Lhote, la parte lasciata al caso nelle sue composizioni è per lo più dovuta al surrealismo».
Si dice che quando Cartier-Bresson entrò nella resistenza francese, non rinunciò alla sua Leica acquistata a Marsiglia nel 1932. La seppellì in un campo nel 1940, prima di una battaglia a Saint-Dié nei Vosgi e, catturato dai nazisti, la recuperò nel 1943, dopo trentacinque mesi di prigionia.
Nel 1944 fotografa Albert Camus. Nel 1946 Sartre e Simone de Beauvoir.
Nel 1954 Sartre scriva la prefazione a una raccolta di fotografie (“D'une Chine a l'autre”) che Cartier-Bresson scatta in Cina.
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Henri Cartier-Bresson, Hyères, 1932 |
Ciò che però risulta determinante nella carriera fotografica di Henri, è la fondazione della Magnum Photos. Il giovane fotografo si rende conto di voler fotografare «non il pittoresco: la storicità», cambia totalmente prospettiva di lavoro e si dedica anima e corpo al fotogiornalismo.
Viaggiando per la Magnum, Henri Cartier-Bresson immortala il funerale di Gandhi, la caduta della Cina imperialista, Pechino sotto i comunisti, la Russia post-Stalin.
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Henri Cartier-Bresson, Incoronazione di Giorgio VI, 1937 |
Ma se l'esigenza del giornalismo è quella di riportare la realtà dei fatti in maniera oggettiva, il fotogiornalismo è in grado di soddisfare tale esigenza attraverso le immagini? O la realtà, mediata da immagini, sarà sempre, in qualche modo, deturpata della sua oggettività? Il fotografo può veramente ritenersi super partes? O la sua Weltanschauung influenza irrimediabilmente la fotografia? Il gesto meccanico di premere il pulsante di scatto esaurisce l'implicazione del soggetto che scatta? Oppure il fatto che il mezzo di riproduzione della realtà sia usato da una soggettività, implica la manipolazione della realtà da esso riprodotta?
Come dice lo stesso Henri: «Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira testa, occhio e cuore». Ma allora forse è proprio questa equazione testa=occhio=cuore a rendere la fotografia espressione di una soggettività, di un «c'è preliminare» (per utilizzare le parole di Merleau-Ponty) che fa della stessa fotografia una forma di interpretazione della realtà alla stregua della pittura.
Non esiste fotogiornalismo che tenga: il criterio dell'oggettività non è mai assoluto e chi pensa di poter riportare la realtà nella sua esattezza, non fa altro che illudersi. C'è un momento creativo che, seppur minimo, è rappresentativo. «Siamo passivi davanti a un mondo che si muove e il nostro unico momento di creazione è il 1/25º di secondo in cui pigiamo il pulsante, l'attimo di oscillazione in cui cala la mannaia. Siamo paragonabili a tiratori che “sparano” una fucilata», dice Henri in una intervista. Forse anche per questo si manifesta il malcontento dei fotoreporter: le loro fotografie, spaccati di realtà soggettivi e irriducibili, vengono modificate a seconda del taglio di significato che il redattore intende dar loro. Riquadrature e didascalie finiscono per non rispettare né l'opera artistica all'origine dell'immagine, né l'implicazione soggettiva dell'operatore. «Si può immaginare il senso di angoscia per l’irrimediabile del fotografo mentre sfoglia quelle pagine dove c’è il suo reportage…».
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Henri Cartier-Bresson, Romania, 1975 |
L'opera che sintetizza e racchiude la ricca carriera di Henri Cartier-Bresson è senz'altro “L'immaginario del vero”, una raccolta di testi e immagini che ripercorrono non solo i viaggi che il fotografo ha intrapreso e gli incontri più importanti, ma anche la sua posizione riguardo agli aspetti tecnico-teorici della professione del fotografo.La fotografia può sembrare, ad un'osservazione superficiale, una “semplice” trasposizione tecnica di una realtà vista e non vedente. Rimanda, invece, a un impulso originario che di tecnico non ha nulla: l'inquadratura e la visione sono senza dubbio influenzate da predisposizioni individuali e da una sorta di etnocentrismo percettivo-emotivo al quale neanche il fotoreporter può venire meno. «Per “significare” il mondo, occorre essere coinvolti nella scelta di quanto lasciamo fuori dall'inquadratura» e ciò che inquadriamo è il senso ab origine di un istante.
Da cornice a tutta l'opera, la presentazione di Gérard Macé ci presenta un Henri appassionato, reso invisibile da quel «bagaglio leggero» che gli ha permesso «di assentarsi come persona fisica, di cancellarsi per meglio cogliere l'istante, proprio nel momento in cui dava un senso all'istantaneo».
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Henri Cartier-Bresson, Livorno, 1932 |
La pittura non ha più un’urgenza predominante: «di tutti i mezzi di espressione la fotografia è la sola capace di rendere l’eternità d’istante». Il fotografo ha a che fare con una realtà in continua sparizione e ciò che sostanzia il suo operato è proprio questa continua tensione al non-più-essere, questo essere «alle prese con l’attimo fuggente di un rapporto instabile».
L’istante da cogliere può essere ovunque e in chiunque: «Il soggetto, come possiamo negarlo? S’impone. […] In fotografia, la cosa più insignificante può diventare un grande soggetto, un trascurabile dettaglio umano divenire il motivo conduttore». Il primato della fotografia e la sua imposizione come arte deriva dalla sua democratizzazione: essa non cerca l’entità, ma le minuzie incorporate in quell’entità, che acquista significato attraverso esse. «Noi fotografi, vediamo e facciamo vedere in una sorta di testimonianza il mondo che ci circonda ed è l’avvenimento, per la funzione che gli è propria, a provocare il ritmo organico delle forme».
Quello del pittore è l’artificio che il fotografo tenta di evitare perché «uccide la verità umana»: il pittore ricerca la grazia, il fotografo la aborre. «Le persone temono l’obiettività dell’apparecchio, mentre il fotografo cerca un’intensità psicologica. […] L’armonia si ritrova cercando l’equilibrio dell’asimmetria che ha ogni viso, e così potremo evitare la soavità o il grottesco. Meglio dell’artificiosità di certi ritratti, allora, quelle piccole foto appiccicate le une alle altre alle vetrine dei negozi dei fotografi da passaporto. Sono facce alle quali puoi sempre fare una domanda e anche se non c’è un’identificazione poetica, puoi scoprire un’identità documentaria».
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Henri Cartier-Bresson, M, 1967 |
È per questo che il fotografo non deve perdersi alla ricerca di una qualche correttezza formale (a parte quella della composizione) della propria fotografia. Scrive Cartier-Bresson: «Mi fanno proprio ridere le fisime di certuni a proposito della tecnica fotografica e che si traducono in un gusto smodato per la nitidezza dell’immagine. Cos’è, una passione da pignoli per le minuzie o sperano che il reale si arrenda ai loro trompe-l’oeil?». Il fotografo è colui il quale, attraverso il proprio sguardo, individua istintivamente il momento riassuntivo di un evento e, coi riflessi di una gazzella, lo blocca: «Una fotografia è […] riconoscere simultaneamente, in una frazione di secondo, da un lato il significato di un fatto e dall’altro l’organizzazione rigorosa delle forme percepite visualmente che questo fatto esprimono». Non si tratta di irrealtà, ma proprio di quanto di più reale esista: l’immagine maieuticamente ricavata dalle cose è sintesi di una realtà analitica, culmine di verità che racchiude il significato e il senso di un essere-nel-tempo. È quanto riassunto, nell’introduzione, da Macé, il quale, parlando di Henri, afferma: «Certo, gli impressionisti prima di lui avevano piantato il cavalletto sull’argine dei fiumi, nei prati, dove la luce scende come rugiada, ma il loro mondo è un’eterna domenica, mentre la fotografia permette di far vedere anche i giorni lavorativi». Quanto c’è di reale in una mano che riproduce realisticamente un paesaggio? Quello riprodotto sarà pur sempre un paesaggio riprodotto, non quel paesaggio rinvenuto dall’asse temporale e fissato eternamente.
Quella del fotografo è una continua diatriba tra interno ed esterno: «Così vivendo dentro e fuori, noi ci sentiamo, scoprendo il mondo, forgiati da lui, proprio mentre siamo in grado di agire su di lui. Si stabilisce un equilibrio fra due mondi, esterno e interno, che intrecciati in dialogo finiscono per informarsi, ed è il mondo che dobbiamo trasmettere». Cartier-Bresson è ad un passo ulteriore rispetto a Merleau-Ponty: la dialettica dentro-fuori che il pittore soddisfa attraverso il movimento della propria mano non è prerogativa della pittura. L’atto del fotografo richiama quella disputa come qualcosa di preesistente che, scontrandosi con l’esistente, genera nuova esistenza. La fotografia ha, in tal senso, la stessa urgenza della pittura e «fotografare è un modo di capire che non differisce dalle altre forme di espressione visuale». «Si fa della pittura ogni volta che si prende una fotografia. Quel battere di ciglio che vale per la sua freschezza di impressione, esclude forse un’esperienza a lungo studiata? Si può trovare la stessa immediatezza quando si resta a lungo in un paese? Di passaggio o stabili in un luogo per meglio significare un paese o una situazione è necessario, quando svolgiamo il lavoro, stabilire dei rapporti con la comunità umana che ci ospita: vivere prende tempo, le radici hanno spesso percorsi profondi, lentamente identificabili. Così “l’istante” può essere frutto di una lunga consuetudine oppure l’effetto di una sorpresa»: pittura e fotografia si compenetrano perché l’una è madre dell’altra. Come madre, la pittura fornisce i propri strumenti alla fotografia e quest’ultima li ringiovanisce, sublimandoli.
Nonostante nei suoi scritti si rintraccino dei riferimenti al dibattito riguardo al ruolo della fotografia nelle arti visive, Henri ha sempre rifiutato di entrare nel merito del discorso: «Il dibattito su quale grado e posto dovremmo conferire alla fotografia fra le arti plastiche non mi ha mai preoccupato, poiché il problema delle gerarchie mi è sempre sembrato d’essenza puramente accademica».
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Henri Cartier-Bresson, Queen Charlotte's Ball, London, 1959 |
L’attenzione di questo «enfant prodige della fotografia francese» non si focalizza sulle questioni di grado: è interessato alla gente. Si avvicina all’umano rispettandone l’intimità, rimanendo in ombra, mantenendo una certa discrezione. Arrivato a Mosca nel 1955, ha dichiarato: «Sono interessato soprattutto alle persone e mi piacerebbe osservarle per strada, nei negozi, sui luoghi di lavoro, quando si divertono in tutti gli aspetti manifesti della realtà, ma a passo di lupo, per non urtare coloro sui quali è puntato l’obiettivo». Henri è un maestro in questo: custodisce il sacro equilibrio tra il fotografo e il fotografato con un assoluto rifiuto del flash. «Mai fotoflash, per rispetto alla luce, anche quando non c’è, altrimenti un fotografo diventa insopportabilmente aggressivo». «Il fotografo deve provare a farsi dimenticare, indovinare ciò che si svela in modo fugace, approfittare dell’attimo in cui la persona, nel suo ambiente, è di fronte a se stessa e far scivolare delicatamente l’apparecchio tra la camicia e la pelle. Non do mai indicazioni alla persona che ho davanti, sono io che mi devo spostare […] Per non rendersi insopportabile, basterebbe al fotografo invertire i ruoli, mettersi al posto del modello […]».
«Per Cartier-Bresson, la posizione fisica del fotografo corrisponde a una posizione etica»: come il fotografo deve abbandonare qualsiasi invadenza, così deve astenersi dalle messinscene al fine di ricercare il “l’istante decisivo” che si manifesta facendo capolino dalle fitte reti del reale. «La formulazione di istante decisivo di Cartier-Bresson, sia nel testo che nelle immagini, corrisponde a una specie di esito estetico dell’istantaneità fotografica o, per dirla diversamente, al suo ingresso nell’arte».
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Henri Cartier-Bresson, Belgium Brussel, 1932 |
La rilevanza artistica di una fotografia si sussume dalla sua capacità di nascere dall’immediatezza, di portare all’essere qualcosa di creato e non qualcosa di subìto. Il fotografo è immune da qualsiasi accusa di passività perché traspone, prima nell’inquadratura e poi nella fotografia, un sentire soggettivo che è irriducibile a qualsiasi pretesa di oggettività.
La fotografia mette in campo quello che Cartier-Bresson chiama “tiro fotografico”: «Abituato sin dall’adolescenza, a maneggiare i fucili durante lunghe cacce in Sologne, era un ottimo tiratore. In Costa d’Avorio, aveva imparato ad attirare la selvaggina con una lampada all’acetilene, quindi a cacciare con la luce: bella metafora per chi si apprestava a diventare fotografo». Con la scoperta delle religioni orientali, Henri adopera molto meno la metafora della caccia e delle armi da fuoco per descrivere l’atto fotografico. Si serve, invece, del paragone con il tiro con l’arco. Negli anni Cinquanta Georges Braque gli regala “Le Zen dans l’art chevaleresque du tir à l’arc” del filosofo tedesco Eugen Herrigel, il quale racconta la propria iniziazione alla meditazione zen tramite il tiro con l’arco. Non solo la concentrazione descritta da Herrigel è straordinariamente vicina a quella provata da Cartier-Bresson, ma la nozione di tiro fotografico è anche più efficace di quella di istante decisivo: se quest’ultima si limita a connotare la destrezza della pratica fotografica, la prima ingloba nella propria definizione il rapporto tra il fotografo e ciò che lo circonda.
La fotografia, in ultima istanza, è questo rapporto mai manifesto, ma sempre vigile. Essa non è una riproduzione meccanica: dietro la macchina fotografica vi è un operatore che sceglie e scatta. «La fotografia è […] l’impulso spontaneo di una attenzione visiva perpetua che coglie l’attimo e la sua eternità. Il disegno, attraverso la sua grafologia, elabora quello che la nostra coscienza ha colto di quell’istante. La foto è un’azione immediata; il disegno una meditazione»."