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lunedì 18 settembre 2017

¡Viva la vida! - Frida Kahlo secondo Pino Cacucci

«Ho cominciato dipingendo me stessa perché non c'era nessun altro e nient'altro intorno a me. Ma era la mia faccia, in quello specchio? O era la Pelona che si incarnava in me, che mi entrava dentro fino a fondersi e sciogliersi in questa eterna stagione delle piogge che è la mia vita?»

Pino Cacucci racconta, in prima persona e in forma di monologo teatrale, la vita della pittrice messicana Frida Kahlo: una vita dalle tonalità intense e sensuali, animata da passioni e immagini perturbanti, resa cupa da angosce insuperabili, intrisa di mexicanidad come i suoi quadri.
Il monologo somiglia a uno dei tanti autoritratti: sullo sfondo della giungla nella stagione delle piogge e delle pareti colorate della Casa Azul di Coyoacán, raffigura Frida come una presenza ingombrante, contraddittoria, primordiale. Ce la racconta a partire dal giorno fatale dell'incidente del tram su cui Frida viaggiava, in quel settembre 1925: appena diciottenne, la pittrice incontra la Pelona, la cagna spelacchiata, la morte, e la mette in fuga con la sua disperata voglia di sopravvivere a dispetto delle numerose fratture e del dolore straziante. L'incidente rende Frida "una sciancata" per il resto della vita, ne mina gravemente la salute, la rende fisicamente incapace di portare a termine le quattro gravidanze iniziate e desiderate, e soprattutto la ossessiona per sempre: la morte, incontrata e scampata quel giorno, diventa per Frida una compagna costante, un'ossessione, un demone che la abita, una parte di lei e dell'abisso che si porta dentro per il resto della vita. Ogni giorno, fino alla morte giunta troppo presto, viene vissuto come un palmo di terra sottratto alla Pelona con una guerra di posizione che non lascia requie e tormenta, negli infiniti giorni trascorsi immobile nel letto di ospedale o rinchiusa nei busti di gesso e metallo, nelle interminabili notti piene di angosciosa solitudine.


È in questi soggiorni forzati, in queste lunghe prigionie in un corpo infermo con l'unica compagnia di uno specchio e del materiale da disegno, che la giovane Frida inizia a comporre i suoi dipinti. Colorati, violenti, intensi come il Messico, e con protagonisti gli occhi penetranti dell'autrice e le sue sopracciglia come "ali di gabbiano nero".
Cacucci racconta delle amicizie di Frida con Lev Trockij [stupefacentemente traslitterato "Tročkij"] e con Tina Modotti, e soprattutto del suo incontro fatale (almeno quanto l'incidente del tram) con il Rospo, Diego Rivera. L'artista degli immensi murales pieni di facce e di storia, il segretario generale del Partito Comunista Messicano, il marito
incredibilmente fedifrago, l'omaccione "alto il doppio e pesante il triplo" della "Colomba" sua moglie, ci viene raccontato da una Frida ammirata, inguaribilmente innamorata, e allo stesso tempo sofferente fin quasi a odiare l'uomo del quale, tuttavia, non può e non vuole fare a meno. Numerosi tradimenti vengono commessi da una parte e dall'altra: Frida ci racconta del suo amante giapponese, l'artista Isamu Noguchi, di alcune amanti donne, della liaison con "el Viejo León", e ci racconta anche dei tradimenti subiti. Uno su tutti, quello che spinge Frida ad abbandonare Diego (dal quale, pure, tornerà), coinvolge Cristina, la sorella amata, e colpisce Frida all'indomani dell'ennesimo straziante aborto spontaneo.
Tra aneddoti biografici e sfoghi, che ricalcano a volte gli scritti di Frida e sempre cercano di richiamarne il carattere e la tormentosa passione, il rapporto tra "l'Elefante e la Colomba" (come titolarono i giornali il giorno delle loro nozze) ci viene raccontato come una convivenza tra geni artistici, prima e oltre che come un matrimonio difficile.

«Mentre Diego rappresenta l'universalità del mondo visibile, Frida dipinge pensieri che si materializzano, stati d'animo che diventano forme e colori: lui è l'interprete di un popolo e della sua lunga e travagliata storia, lei è l'immediatezza dell'esperienza vissuta e immaginata, dove vivere e immaginare si fondono, si compenetrano, si tormentano a vicenda

"Autoritratto come Tehuana (o Diego nei miei pensieri)"

Nel finale Frida, vestita con gli abiti tribali delle donne di Oaxaca e carica di gioielli come una divinità azteca, si prepara all'incontro, sempre rimandato, temuto e desiderato, con la Pelona. Frida cammina incontro alla Pelona, ne brama l'abbraccio come si brama una liberazione dalle sofferenze fisiche ed emotive, dal peso non più sostenibile di una vita intensa e travagliata. Aspetta la partenza, come scrisse nel suo diario alla vigilia della morte, e spera di non tornare mai più.
Il libro si conclude con due brevi testi che raccontano qualcosa in più dell'ambiente abitato da Frida e Diego e della genesi del monologo ¡Viva la vida!, dell'ammirazione di Cacucci per figure di Tina Modotti e Nahui Olin e soprattutto del suo amore per Frida, che pone al di sopra delle altre e che chiama, ammaliato dai suoi occhi penetranti e dalla sua personalità, la "stella intramontabile".

«««v

venerdì 1 novembre 2013

"Puerto Escondido" di Pino Cacucci

«Non l'ho mai sentita come una casa vera; le cianfrusaglie che ho accumulato alla rinfusa sono rimaste sempre in posizioni precarie, in attesa di qualcosa. Non c'è niente di indispensabile, qui dentro. Speravo di cambiare città per un motivo di lavoro, di innamoramento, di schifo per tutto, per un'occasione che forse non ho mai cercato sul serio. E magari sarei rimasto qui per sempre, a sopravvivere come ho fatto finora


L'anonimo protagonista trascina trascina la sua esistenza vuota e priva di stimoli in una Bologna asettica e inospitale, o almeno percepita come tale da quello che si autodefinisce «un disadattato» invidioso dei giovani che riescono ad essere (o apparire) felici. Ha una house ma non una home: si limita ad una sopravvivenza fisiologica. Inserito in modo maldestro e superficiale nella società, privo di legami affettivi e
scopi esistenziali, il protagonista che Cacucci mantiene (con un tocco di classe e una perfetta coerenza) nell'anonimato vive in uno stato di scontentezza cronica e solitudine. Le sue pulsioni più umane, ambizioni e sentimenti, sono come anestetizzate.
A scuotere la sua vita scialba e insignificante è il commissario Schiassi, un personaggio controverso, sanguinario ma estremamente bisognoso di affetto, praticamente folle, in ultima analisi assolutamente amabile. Prima cerca di assassinare il protagonista, poi si convince di aver trovato in lui il proprio unico amico e si salda alle sue costole. Proprio per sfuggire all'affetto del bizzarro commissario dal grilletto facile, il protagonista fugge alla volta dell'isola d'Elba.
Sulla sua strada incrocia Aivly, una donna misteriosa e intrigante che prima affascina il giovane fuggitivo e poi si richiude nella propria stranezza e nei suoi loschi affari. Il fulmineo e intenso innamoramento del protagonista è raccontato in un modo molto femminile: interiore, delicato, sofferto, come il relativo (brusco) allontanamento di lei.

«C'è stato un momento in cui forse ha smesso di fingere. Non so quanto sia durato, ricordo solo quella sensazione di naturalezza più forte dei nostri nervi contorti. La guardo di spalle, ripercorro la sua pelle, e mi cresce dentro una desolazione infinita, un bisogno di afferrarti e scuoterti e urlarti perché adesso sei così diversa.»


Prima catturato e ammanettato nella cabina di una barca, poi liberato (in maniera molto piratesca) in vista di una costa, il protagonista finisce innamorato e abbandonato, squattrinato e disorientato a Barcellona. Lì incontra altri giovani, figli come lui di una generazione smarrita e triste, che si stordisce nell'alcol e nella droga per rifuggire il senso di vuotezza, inadeguatezza, solitudine. Bazzica i locali più alternativi, resta coinvolto in zuffe, si fa di tutte le droghe che gli passino a tiro, si avvicina a Pill, punk nerovestita che si occupa di lettering e non ha mai fame. Arriva a pensare di fermarsi, almeno per un po'. L'illusione di aver trovato un senso e una casa vengono frantumate dall'arrivo sorprendente di Schiassi che spinge il protagonista ad una nuova fuga. Così, tra scambi di persona, viaggi esasperanti avventure contorte, il protagonista arriva in Messico.
Lì trova un «sole che carbonizza i capelli e fa colare il cervello dal naso», il compaesano Elio che prima lo deruba e poi lo coinvolge nel narcotraffico, ma soprattutto trova «un senso di vastità che in Europa si è estinto nella memoria genetica da almeno dieci generazioni».
A Puerto Escondido, meta di surfisti e di criminali, tra viaggi su una «corriera tenuta assieme coi miracoli», sparatorie, roghi di marijuana, tejónes e altri animali sconosciuti all'Europa, poliziotti-criminali, furti (subiti e compiuti), il protagonista trova nuovi amici e ritrova vecchie conoscenze. Forse è la sua destinazione finale, forse non può esserlo perché la ricerca di un senso è destinata a rimanere insoddisfatta. Di sicuro è la tappa di un'avventura dentro sé stesso e la vita messicana, coi suoi ritmi distanti dalla frenesia europea, è il nuovo paio di lenti con cui guardare a una vita rinnovata. 
"Puerto Escondido" non è uno spuntino, né un pasto ordinario, ma una colossale abbuffata che lascia un po' intontiti ma estremamente soddisfatti. È un libro estremamente accurato, brillante, caleidoscopico, ricco, divertente, trascinante. Ha uno spirito meravigliosamente interculturale, un sapore gustosamente picaresco. Cacucci è così dettagliato e documentato da far apparire verosimile una storia del tutto extra-ordinaria (sebbene ispirata ad un personaggio realmente vissuto, il veronese Claudio Conti). "Puerto Escondido" regala un'intensa voglia di viaggiare, di fuggire, di cercare, di innamorarsi, di farsi di peyote, di sfidare l'autorità. Il protagonista è così umano, così imperfetto, così disperatamente alla ricerca del suo posto nel mondo da farsi amare, da diventare un autentico amico dal quale non si vorrebbe più essere lasciati.
Un libro incredibile, variopinto e soddisfacente come pochi.

Nel 1992 Gabriele Salvatores ne ha tratto un bel film,
alquanto infedele alla lettera del libro ma altrettanto
fedele al suo spirito e alle sua suggestione.
Il protagonista (con il nome di Mario Tozzi) è interpretato
da Diego Abatantuono. Valerio Golino è Anita (Aivly)
e Claudio Bisio interpreta il bandito Alex (il
malinconico Elio del libro). Renato Carpentieri
interpreta il commissario Viola (lo squilibrato e adorabile Schiassi).

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