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lunedì 10 marzo 2014

Tracce di poesia - Ernesto "Che" Guevara

In "Qu'est que c'est la littérature?" (1948) Sartre scriveva: «Lo scrittore impegnato sa che le parole sono azione: sa che svelare è cambiare, e che non si può svelare se non progettando di cambiare. Ha abbandonato il sogno impossibile di dare un quadro imparziale della Società e della condizione umana. L'uomo è l'essere di fronte al quale nessun essere, nemmeno Dio, può restare imparziale. [...] L'uomo è anche l'essere che non può vedere una situazione senza cambiarla, perché il suo sguardo congela, distrugge o scolpisce o, come fa l'eternità, cambia l'oggetto in se stesso. È nell'amore, nell'odio, nella collera, nella paura, nella gioia, nell'ammirazione, nella speranza, nella disperazione che l'uomo e il mondo si rivelano nella loro verità. [...] Sa che le parole, come dice Brice-Parain, sono "rivoltelle cariche". Se parla, spara.»
Quando Sartre scrive "scrittore" intende "prosatore": il poeta, infatti, non può incarnare la figura dell'intellettuale impegnato. Nella poesia c'è sempre una perdita, un vuoto. Proprio a questa mancanza è imputabile quel "art for art's sake" di matrice wildiana: se si fa arte solo ed esclusivamente per estetica, si rischia di cadere nel vortice della pochezza e dell'inutilità. L'intellettuale è, essenzialmente, la coscienza della società e per palesare la propria essenza deve, per Sartre, scrivere in prosa. 
La domanda sorge spontanea: allora la poesia di Majakovskij? Quella di Neruda? Quella di Che Guevara? 


Ernesto Guevara nasce nel 1928 a Rosario, in Argentina, da una famiglia benestante e acculturata. I genitori di Ernesto, di tendenze liberali e anticlericali, durante la guerra civile in Spagna (1936-1939), si prodigano affinché venga formato un comitato che fornisca aiuto ai Republicanos. 
A causa delle condizioni di salute del piccolo Ernesto, afflitto da asma, la famiglia è costretta a trasferirsi a Còrdoba, la città-sfondo di gran parte dell'infanzia di Ernesto, che si forma intellettualmente leggendo Neruda, Jack London, Jules Verne, Freud e persino Bertrand Russel. Tra le tante attività svolte dal giovane, spicca la fotografia, che costituirà - assieme alla scrittura - una incredibile testimonianza dell'impegno politico del guerrigliero argentino. 
Quando, nel 1945, si trasferisce con la famiglia a Buenos Aires, Ernesto si iscrive alla facoltà di medicina e, nel gennaio del 1950, viaggia in bicicletta fino a Còrdoba, dove viene accolto dalla famiglia del suo amico Alberto Granado, che nel 1951 lo accompagnerà nel famoso viaggio alla scoperta del continente sudamericano prima a bordo della Poderosa II, una motocicletta Northon 300, e poi a piedi. Ernesto annota le impressioni del viaggio nel suo diario "Notas de viaje", che diventerà nel 2004 un film ("I diari della motocicletta"): l'idea che Ernesto, anche influenzato da letture marxiste, partorisce dal viaggio è quella di un Sudamerica devastato dalle diseguaglianze, un Sudamerica che può e deve risorgere in maniera unitaria rovesciando le strutture di potere e ristabilendo una forma di giustizia sociale.
Nel 1953 Ernesto rientra in Argentina e diventa medico, dopo aver sostenuto gli ultimi esami. Riparte immediatamente: è nel dicembre di quello stesso anno che incontra, in Guatemala, la sua prima moglie, Hilda Gadea, una esiliata peruviana che lo avvicina al governo del presidente Jacobo Arbenz Guzmán (che tenta di attuare una rivoluzione sociale attraverso varie riforme) e gli presenta un gruppo di rivoluzionari cubani legati a Fidel Castro, il rivoluzionario che ha scritto dal carcere il "Manifesto alla Nazione", denunciando i crimini della dittatura di Fulgencio Batista. In Guatemala la situazione degenera a seguito di un colpo di stato sostenuto dalla CIA: gli Stati Uniti, secondo il Che, sono una potenza imperialista che ha interessi a frenare l'emancipazione di Paesi in via di sviluppo. Sotto consiglio di Arbenz, il Che (nomignolo che risale a questo periodo) si trasferisce in Messico, dove incontra Fidel Castro e dove aderisce al "Movimento del 26 di luglio", che ha in programma di abbattere la dittatura di Batista. Dal 1956, anno in cui la nave Granma parte alla volta di Cuba, Ernesto si impegna nella guerriglia: è l'inizio della rivoluzione cubana. Nel 1959 Batista fugge e viene instaurato un nuovo governo che nomina Guevara "Cittadino cubano per diritto di nascita" e gli affida ruoli di grande rilievo: a Cuba è il secondo uomo più importante, dopo Castro. Il 1959 è anche l'anno in cui Ernesto divorzia da Hilda per sposare Aleida March, una cubana del "Movimento del 26 di luglio".
A partire dal 1965, dopo una breve latitanza, decide di occuparsi della liberazione degli altri popoli latinoamericani: prima il Congo e poi la Bolivia, dove viene catturato e ucciso dall'esercito nell'ottobre del 1967.

Autoritratto in Thailandia, 1964
L'importanza della scrittura, per il Che, non è solo intimo bisogno di confidarsi, ma è narrazione, inno, lotta e rivoluzione. I versi del guerrigliero argentino trasudano ideologia e evocano un bisogno sostanziale e ineludibile: il bisogno di giustizia sociale. «Il guerrigliero è un riformatore sociale, che prende le armi rispondendo alla protesta carica d'ira del popolo contro i suoi oppressori, e lotta per mutare il regime sociale che mantiene nell'umiliazione e nella miseria tutti i suoi fratelli disarmati» (Da "Scritti, discorsi e diari di guerriglia", 1959-1967): il rivoluzionario (rigorosamente armato) deve far riemergere dall'oblio lo splendore di un'America Latina assoggettata al potere imperialista. La denuncia è chiara e proprio da questa denuncia nasce un ponte che collega Ernesto a Pablo Neruda. D'altronde, non a caso, Ernesto legge "Canto generale" e lo commenta: «Quando il tempo avrà un po' sfumato gli andamenti politici e contemporaneamente - ineluttabilmente - avrà assegnato al popolo la sua definitiva vittoria, questo libro di Neruda si porrà come il più vasto poema sinfonico d'America. [...] È un canto generale d'America che ripercorre tutto ciò che è nostro, dai giganti geografici fino alle povere bestioline del signor monopolio.»
Ecco che la poesia diventa anch'essa impegnata: come potrebbe non esserlo? E come potrebbe l'intellettuale non utilizzare lo strumento di espressione più vicino e affine a sé per urlare? «Ciò significa che all'universo dell'immaginario, del sogno, del fantastico è necessario attribuire un potenziale rivoluzionario, una carica di ribellione, quanto meno simile all'attività liberatoria del guerrigliero che lotta contro la fame nel Terzo Mondo, contro il potere economico che schiaccia e uccide, contro la rapina di colui che possiede già tanto, e ancor più pretende di avere da chi non ha.» (dall'introduzione al libro "Poesie e scritti sulla letteratura e l'arte", a cura di Elena Clementelli e Walter Mauro)

E qui


«Sono meticcio», grida un pittore dalla tavolozza infuocata, 

«Sono meticcio», mi gridano gli animali perseguitati,
«Sono meticcio», esclamano i poeti pellegrini,
«Sono meticcio», riassume l'uomo che mi incontra
nel quotidiano dolore di ogni angolo,
e persino l'enigma di pietra della razza morta
accarezzando una vergine di legno dorato:
«È meticcio questo grottesco figlio delle mie viscere».

Io pure sono meticcio per un altro aspetto:
nella lotta in cui si uniscono e si respingono
le due forze che agitano il mio intelletto,
le forze che mi chiamano sentendo delle mie viscere
lo strano sapore di frutto racchiuso
prima di raggiungere la sua maturità dell'albero.

Mi giro al limite dell'America ispana
ad assaporare un passato che ingloba il continente.
Il ricordo scivola con dolcezza indelebile,
come un lontano suono di campana.


Non c'è arte che sia scevra da una dimensione politica: non è concepibile un'arte che non sia calata nella storia e che dalla storia assorba il suo proprio modo d'essere; le impressioni sensibili si fondono con un sentire più ampio, ideologico, eterno: secoli di soprusi, di aggressioni, di sottomissioni, di sfruttamento. E poi la ribellione, che si sbocconcella in versi di una bellezza inaudita. 

Vecchia Maria

Vecchia Maria, tu vai a morire, 
voglio parlarti seriamente:

La tua vita è stata un rosario completo di agonie, 
non un uomo amato, né salute, né denaro, 
appena la fame da spartire; 
voglio parlare della tua speranza, 
delle tre diverse speranze 
che fabbricò tua figlia senza saper come.

Prendi questa mano d'uomo che pare di bambino 
nelle tue sfregate dal sapone giallo. 
Strofina i tuoi calli duri e le nocche pure 
nella morbida vergogna delle mie mani di medico.

Ascolta, nonna proletaria: 
credi nell'uomo che arriva, 
credi nel futuro che non vedrai mai.

Non pregare il dio inclemente 
che per tutta la vita deluse la tua speranza. 
Non chiedere clemenza alla morte 
per veder crescere le tue grigie carezze; 
i cieli sono sordi e in te comanda il buio; 
soprattutto avrai una rossa vendetta, 
lo giuro per l'esatta dimensione dei miei ideali: 
i tuoi nipoti tutti vivranno l'aurora, 
muori in pace, vecchia combattente.

Vai a morire, vecchia Maria; 
trenta progetti di sudario 
diranno addio con lo sguardo, 
il giorno, tra questi, in cui te ne andrai.

Vai a morire, vecchia Maria, 
rimarranno mute le pareti della sala 
quando la morte si congiungerà con l'asma 
e copuleranno il loro amore nella tua gola.

Quelle tre carezze costruite in bronzo 
(l'unica luce che allevia la tua notte), 
quei tre nipoti vestiti di fame, 
rimpiangeranno i nodi delle vecchie dita 
dove sempre trovavano un sorriso. 
E sarà tutto, vecchia Maria.

La tua vita è stata un rosario di magre agonie, 
non un uomo amato, né salute, letizia, 
appena la fame da spartire, 
la tua vita è stata triste, vecchia Maria.

Quando l'annuncio del riposo eterno 
intorbida il dolore delle tue pupille, 
quando le tue mani di perpetua sguattera 
assorbono l'ultima ingenua carezza, 
pensi a loro... e piangi, 
povera vecchia Maria.

No, non farlo! 
Non pregare il dio indolente 
che per tutta una vita deluse la tua speranza 
e non chiedere clemenza alla morte, 
la tua vita è stata orribilmente vestita di fame, 
e finisce vestita d'asma.

Ma voglio annunciarti, 
con la voce bassa e virile delle speranze, 
la più rossa e virile delle vendette, 
voglio giurarlo per l'esatta 
dimensione dei miei ideali.

Prendi questa mano d'uomo che pare di bambino 
nelle tue sfregate dal sapone giallo, 
strofina i calli duri e le nocche pure 
nella morbida vergogna delle mie mani di medico.

Riposa in pace, vecchia Maria, 
riposa in pace, vecchia combattente, 
i tuoi nipoti tutti vivranno l'aurora, 
LO GIURO.


Persino le parti in prosa (sulla letteratura e sull'arte) non perdono mai del tutto la liricità: il Che scrive inevitabilmente sorretto dall'amore per gli invisibili. Scrive in qualità di lettore, di viaggiatore, di poeta, di guerrigliero, ma mai in qualità di uno solo di questi individui. Ernesto è tutte queste personalità al modo di una sola: fare della sua scrittura (anche quando essa si dedica a considerazioni artistiche) qualcosa di separato dall'impegno politico significherebbe de-naturalizzarla. «Se la silloge di poesie del Che [...] riflette stati d'animo, percezioni del sensibile, slanci di umana vitalità, quando Guevara affronta la storia dell'America Latina nelle sue più profonde strutture, analizzando le radici da cui è poi scaturito il disagio, il malessere, la condizione esistenziale del presente, allora la scrittura comprime il tono di una innata liricità (che appartiene alla mitezza di carattere del guerrigliero liberatore) e va a inoltrarsi nel buio fondo della Storia, con un vigore di schieramento dalla parte delle vittime che sta pure a significare una poetica interpretazione della marxista filosofia della prassi, tutta tesa a sfociare nel conseguimento del socialismo reale come approdo necessario dell'utopia.» E infatti gli scritti sull'arte non sono altro che «commosse ricognizioni sull'arte degli Inca e dei Maya, i due popoli-bersaglio del genocidio della Conquista Spagnola.» 
Il popolo deve essere riscattato e non ci può essere sconfitta: «Hasta la victoria siempre» diventa il motto di chi non può arrendersi, di chi deve lottare (in senso letterale) per garantire possibilità di vita migliori a chi ha conosciuto sempre crepuscoli e mai aurore.
Il Che dà ancora oggi il più grande insegnamento: la rivalsa da un regime di oppressione (che sia politica, ma anche culturale o economica) è ancora possibile, persino quando il numero dei collaborazionisti e dei corrotti sembra maggiore di quello dei sovversivi. E allora hasta siempre, comandante!


lunedì 6 gennaio 2014

"Latinoamericana" di Ernesto Che Guevara

Impropriamente noto come "I diari della motocicletta", "Latinoamericana" non è un testo politico ed è praticamente scevro da tecnicismi e asserzioni ideologiche o dottrinarie: non espone una verità già conquistata o un'ideologia già acquisita. È un testo snello, a volte poco più sviluppato di un semplice taccuino di appunti, uno zibaldone di pensieri sparsi e un resoconto asciutto e sbarazzino di un viaggio, ma soprattutto, è il racconto dell'acquisizione di un'ideologia, della maturazione di un pensiero che il giovane Ernesto Guevara ha sviluppato nel corso di un lungo e avventuroso viaggio per l'America Latina: è in questo senso che "Latinoamericana" rappresenta un testo cardine del cosiddetto guevarismo.
Alberto Granado (detto Mial), un giovane biochimico, e il suo amico Ernesto Guevara, non ancora il Che ma
 Fuser, uno studente in medicina prossimo alla laurea, lasciano Buenos Aires in sella alla Poderosa II, una Norton 500 M18 del '39, con un bagaglio essenziale e grandi scorte dell'immancabile mate. È il 4 gennaio 1952 e l'America Latina è martoriata e dissanguata dalle multinazionali, gli indios conservano una percezione triste e rassegnata della propria identità culturale, gli operai e i mineros si assoggettano placidamente allo sfruttamento degli yankee e alle devastanti condizioni in cui versano, bisognosi di lavoro. Il giovane Ernesto non ha ancora nozioni esaurienti di tutto questo, ma la realtà dolorosa dell'America Latina è quanto apprenderà dal lungo e avventuroso viaggio. In otto mesi, lui e Alberto attraversano Chile, Perù, Colombia e infine Venezuela, prima in moto e poi a piedi, scroccando passaggi, imbarcandosi come clandestini, perfino arrivando in un'isolata circostanza a pagare un biglietto! La meta è il lebbrosario di San Pablo, in Perù, dove i due giovani intendono prestare opera di volontariato per un paio di settimane. Come per ogni viaggio che sia degno di essere definito tale, l'importante non è l'arrivo a destinazione ma tutto quanto si trova lungo la via. Ernesto si rende conto realmente delle condizioni di quella che chiama Maiuscola America, e che ritiene sia un'unica grande terra, per certi aspetti omogenea, suddivisa fittiziamente in Stati artificiali e inutili. La miseria e l'ingiustizia che imperversano nel continente fanno fermentare in lui quelle vaghe nozioni su socialismo, marxismo, fanonismo. Le condizioni amare e umilianti degli indios esacerbano i sentimenti di Ernesto verso l'imperialismo, lo sfruttamento dei mineros gli fa comprendere ed odiare la natura del capitalismo. Le sue "Notas de viaje" sono appunti frettolosi sulle sue avventure, intercalati da qualche riflessione sull'ideologia che inizia a comporsi e consolidarsi nel suo animo, come reazione alle molte ingiustizie di cui è per la prima volta testimone oculare. È durante il viaggio con Alberto Granado che nasce il Comandante: la persona che rientra a Buenos Aires nella tarda estate del '52 non è lo stesso giovane perplesso e indeciso che era partito otto mesi prima. La storia e la lotta di Che Guevara stanno per incominciare.
"Latinoamericana" è una lettura facile e ispirante, ricca di aneddoti e di confidenze sincere che permettono al lettore di guardare da vicino il giovane Che ancora in formazione e di scoprire le cause della sua ferrea convinzione. È il resoconto di una scelta che diventa sempre più nitida, gradualmente più consapevole: la scelta tra il perseverare di un sistema ingiusto e vessatorio e la lotta ardente e rivoluzionaria. È un cult da non perdere.

«La notte, che si era ritratta al contatto con le sue parole, mi catturava di nuovo, confondendomi dentro di sé; ma, nonostante le sue parole, adesso sapevo... sapevo che nel momento in cui il grande spirito divino avesse separato con un abisso enorme l'umanità in due sole fazioni antagoniste, io sarei stato con il popolo; e so, perché lo vedo scritto nella notte, che io, eclettico dissezionatore di dottrine e psicanalista di dogmi, ululando come un ossesso, assalterò le barricate e le trincee, tingerò di sangue la mia arma e, pazzo di furia, sgozzerò tutti i vinti che cadranno nelle mie mani. E poi mi vedo, come se una stanchezza enorme sgretolasse la mia esaltazione, cadere immolato all'autentica rivoluzione standardizzatrice delle volontà, e pronunciare il "mea culpa" esemplare. Sento già le mie narici dilatate assaporare l'odore acre della polvere da sparo e del sangue, della morte dei nemici; già contraggo il mio corpo, pronto alla battaglia, e preparo il mio essere come se fosse un recinto sacro, perché in esso risuoni con vibrazioni nuove e nuove speranza l'urlo bestiale del proletariato trionfante.»

Nel 2004, Walter Salles ne ha tratto il film "I diari della motocicletta", diventato così celebre da soppiantare spesso il titolo originale del libro con quello dello stesso film (l'edizione seguente della Piccola Biblioteca Oscar Mondadori è appunto sottotitolata così, oltre a riportare un fotogramma del film in copertina). Nel soggetto sono confluite anche le informazioni tratte dal libro di Alberto Granado, "Un gitano sedentario (Con el Che por America Latina)". Il film ha ricevuto due nomination agli Oscar, vincendone uno per la miglior canzone ("Al otro lado del río").
Nella foto, Gael García Bernal nei panni di Fuser (Ernesto).

domenica 19 maggio 2013

"La pietra" di Ernesto Che Guevara

"La storia sta per cominciare", una biografia
per immagini. Un libro coinvolgente e
interessante: documenti, lettere, interviste,
appunti di lettura, racconti e poesie, note
di viaggio, considerazioni politiche e
soprattutto tante foto, scattate dal Che
(appassionato fotografo) o che lo
immortalano in compagnia di parenti,
amici e compagni guerriglieri..
Il Comandante Che Guevara non era solo un guerrigliero, né, come lo definirono, un libertador (titolo che comunque rifiutò, affermando che sono i popoli a liberarsi da soli). Studente di medicina, viaggiatore avventuroso ed instancabile, fotografo curioso, «poeta fallito» (come si definì nello scambio epistolare con León Felipe)... Era una persona poliedrica: audace e carismatico (quel che si dice un uomo d'azione) ma anche creativo e colto. Lettore insaziabile, tra le sue letture troviamo i «mattoni sovietici», i vangeli del partito comunista, Marx, Engels, Trockij, ma anche filosofi dialettici, materialisti e idealisti come Democrito, Leucippo, Hegel; i teorici del capitalismo come Marshal, Keynes e Schumpeter; e poi poeti e scrittori, su tutti Goethe e «Pablito» Neruda.
Leggeva e scriveva molto, oltre ad esprimere la propria vocazione artistica attraverso la fotografia (che peraltro, in alcuni momenti della sua vita, gli diede da vivere): variegati e curiosi i suoi scatti delle rovine incaiche di Palanque e Machu Picchu, dei paesaggi congolesi, tanzaniani e asiatici, i suoi diversi autoritratti.
Il libro "La storia sta per cominciare", oltre a una serie nutrita di epistole, carteggi e stralci delle sue diverse opere ("Notas de Viaje", "Otra Vez", "Guerra de guerrillas"), raccoglie alcuni brani poeticamente notevoli, che mettono in luce non solo l'intelligenza di Che Guevara (che emerge anche dai testi scarni di natura politica e dalla sagacia con cui di barcamenava tra giornalisti e intervistatori) ma la sua sensibilità artistica. Tra i racconti, "Il dubbio" (dall'impianto solidamente narrativo) e "Il cucciolo assassinato" (un episodio reale appena sviluppato). Il più pregevole, forse, è proprio "La pietra".
Scritto in Congo nel 1965, il racconto prende le mosse da una tragica telefonata. Il compagno Osmany Cienfuegos informa il Comandante che le condizioni della madre Celia sono gravi.
«Non mi nascose la preoccupazione o il dolore, ma io cercai di non mostrare né l'una né l'altro. Fu così facile!» Che Guevara riceve la notizia come un presagio, più funesta di quel che appare: crede sia una mossa preparatoria, cui seguirà l'annuncio della morte. «Non rimaneva che aspettare. Con l'arrivo della notizia ufficiale avrei deciso se avevo il diritto o meno di mostrare la mia tristezza. Ero propenso a pensare di no».
A ricevere la notizia funesta non è il figlio o l'uomo, non è il giovane Ernesto, ma è il Comandante. Immediatamente sorge la distrazione (pensare alle previsioni del tempo, la pioggia che cesserà presto e la siccità che seguirà) e prova a frapporsi tra Che Guevara e la notizia appena incassata. Lui la mette da parte, la relega nella parte più intima di sé, quella assolutamente invisibile ai suoi uomini. Si irrigidisce, si pietrifica, perché «il capo è impersonale; non che gli si neghi il diritto di provare dei sentimenti, semplicemente non deve mostrare che prova sentimenti suoi; quelli dei suoi soldati, forse». Per quanto la notizia sia sconvolgente, per quanto il dolore possa essere intenso, «Mi chiesi se si poteva piangere un po'. No, non si doveva».
Nella prima parte del racconto (il cui manoscritto occupava una decina di pagine di appunti disordinati) è questo il Che Guevara che si mostra al lettore.
Suscita ammirazione ma soprattutto soggezione. È un guerrigliero temprato dalla lotta, è un capo disposto e capace di farsi violenza nel modo più crudele (negando la propria umanità nel mettere a tacere la sofferenza filiale e il dolore del lutto incombente) pur di mostrarsi solido davanti ai propri uomini.
Che Guevara si impone una stoica aponia, e ancora si rifugia nella distrazione, fumando la pipa.


«Osservando i percorsi del fumo si può eliminare qualsiasi distanza, direi che addirittura si può credere ai propri piani e sognare la vittoria senza che sembri un sogno, ma solo una realtà che appare vaporosa per la distanza e le nebbie che avvolgono sempre i percorsi del fumo.»

Riflessioni sulla morte, sulla sopravvivenza specifica oltre la morte individuale, sul rapporto conflittuale che un figlio (suo figlio) potrebbe avere con la proiezione di un padre defunto con cui doversi misurare senza uno scambio reale. E poi un soldato, candidamente, interrompe il filo dei suoi pensieri.

«"Ha perso qualcosa?"
"Nulla." [...]
"E questa pietruzza? Ho visto che l'aveva nel portachiavi."
"Oh, cazzo.

L'edificio di superficiale imperturbabilità si sfalda. L'insensibilità fittizia di Che Guevara si sfalda e frantuma di fronte all'eventualità di avere smarrito una pietruzza.
Ha tutte le cose necessarie con sé: l'inalatore (quella contro l'asma è una delle sue battaglie fin da piccolo), le penne, i taccuini, l'accendino, l'indispensabile pipa. Quanto agli oggetti futili ma dal grande valore simbolico, «in guerra avevo portato con me solo due piccoli ricordi; il fazzoletto di garza, di mia moglie, e il portachiavi con la pietra, di mia madre». Il timore di avere smarrito la pietruzza, un oggetto «di poco valore, ordinario» scaraventa il Comandante in quella parte di sé che aveva provato a rinnegare. Gli sbatte in faccia tutta la propria fragilità, lo turba, lo confonde.

«Che ne so. Davvero, non lo so. So solo che provo una necessità fisica di veder apparire mia madre e di piegare la testa nel suo grembo magro, e sentirle dire "mi viejo", con una tenerezza decisa e piena, e sentire la sua mano goffa tra i capelli».

Eppure, lo smarrimento dura solo un attimo. Qualcuno gli rivolge la parola, e Che Guevara chiude il racconto con la propria risposta: «sto aspettando che arrivi l'ordine per vedere se portano del trinciato come si deve. Uno avrà il diritto di fumarsi anche solo una pipa, tranquillo e con gusto, no?...»

Il Comandante ha ripreso il sopravvento, ma non prima che il lettore potesse scorgere la fragilità nascosta dietro la corazza impenetrabile di quello che si dice un eroe.
Il racconto "La pietra" ha la toccante profondità di una confessione intima e sincera: i sentimenti che Che Guevara non ha osato manifestare davanti ai suoi uomini e compagni, il lettore si sente privilegiato di essere chiamato a condividerli. Si instaura una comunione tenerissima con l'uomo nascosto dietro il Comandante e dietro il mito. "La pietra" non è solo un brano vivido e raffinato, ma è emblema della più profonda umanità: nostalgia, smarrimento, solitudine, bisogno di amore e di pace si conservano anche nel cuore del più violento guerrigliero. E commuove leggere la confessione di come anche il Comandante, solido e mitico, uno scoglio di audacia e spirito guerresco, il punto di riferimento degli uomini durante la battaglia, sia stato tanto segretamente vulnerabile da sognarsi bambino, il piccolo Ernesto, cullato e accarezzato dalla propria mamma.
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