mercoledì 11 gennaio 2023

Il caso di Dora. Fenomenologia di una brava moglie

Leggendo i Casi clinici di Freud ci si imbatte in una sorta di imbarazzo causato da un lato da una originale sfacciataggine attraversata da venature ironiche, dalla schiettezza disarmante di un medico piuttosto indelicato, dall’altro da stonature decisamente conformistiche e piccolo borghesi. Quando Deleuze e Guattari criticano l’operato i Freud, giudicandolo omologante nella sua riduzione degli impulsi ad universali che spesso si fanno stereotipi, non avevano tutti i torti. Effettivamente Freud sembra violare ogni particolarità del paziente a botta di interpretazioni razionalistiche, pretendendo di cancellare il dolore e il disagio con la riduzione di un complesso di emozioni, paure e desideri a poche figure, spesso solo ad una sola: il padre



Il racconto che Freud fa dei suoi casi clinici è simile ad un giallo: ogni sintomo nasconde una causa psichica, affettiva ed esperienziale al quale può e deve essere ricondotto. E lo psicoanalista è una sorta di Sherlock Holmes che investiga sul perché delle fobie e sulle cause da cui hanno origine i simboli elaborati dai pazienti sia durante il sonno che durante la veglia. Vi è un filo conduttore che lega ogni gesto della nostra vita. Il filo più spesso è proprio quello che non conosciamo, che collega i gesti per noi più insensati e sconclusionati: è come un Lete che scorre al di sotto dei nostri pensieri diurni nel quale noi gettiamo tutto ciò che ci turba, che reputiamo inutile allo svolgimento della nostra vita e delle funzioni sociali, i cui contenuti però cercano nuovamente di emergere attraverso forme fantasiose e terribili, spingendoci ad avere comportamenti che mai avremmo pensato di tenere. 


Nei casi patologici di cui Freud ci parla i sintomi, le nevrosi, le ossessioni, gli isterismi rendono impossibile la conduzione della propria vita: il malato di nervi è incarcerato nelle sue paure, ossessionato dai suoi demoni, non riesce a diventare l’adulto che dovrebbe diventare. La psicoanalisi ha come fine principale la guarigione dei pazienti, ovvero la scomparsa quasi completa dei sintomi e la possibilità di poter riprendere la propria vita. La terapia psicoanalitica è un processo di liberazione dalle gabbie dei sogni e dell’infanzia diventati spettri persecutori per poter diventare soggetti adulti e autonomi. Il lato conformistico e omologante denunciato dai due autori dell’Anti-Edipo è evidente: un soggetto adulto e completamente sano può svolgere le funzioni che gli sono state attribuite dalla società e assumere un contegno dignitoso e decoroso nel pubblico consesso. 


La storia di Dora è la storia di una guarigione che lascia l’amaro in bocca. Dora è una ragazza combattiva, caparbia, che scopre attorno a sé un mondo familiare ipocrita e sordido, segnato dalla malattia e dalla menzogna, da fantasmi che ossessionano tutta la sua adolescenza e che ne fanno l’isterica più famosa al mondo. 

Nonostante l’assenso alla critica di Deleuze e Guattari, è difficile non apprezzare il lavoro narrativo svolto da Freud. La storia di Dora ricorda la storia raccontata da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito: uno spirito tormentato alla fine fa pace con il mondo, pace rasserenante e un po’ triste, perché necessariamente mescolata con la rassegnazione e l’adattamento. Avremmo forse preferito che l’isterica non fosse mai domata e che magari il mondo si fosse adeguato un po’ di più alle sue pulsioni.

 

Uno dei meriti principali di Freud, dovuto a mio avviso proprio alla sua impostazione razionalistica, è quello di riuscire a ricostruire coerentemente la storia del paziente, in modo da restituirci un carattere complesso e un ambiente familiare e sociale articolato. Nel tracciare i sintomi di Dora, Freud disegna la scenografia di questa storia, la Vienna dei primi del Novecento, segnata da una cultura profondamente tradizionalista, in cui il padre rappresenta un’autorità molto forte e un punto di riferimento. 


Sulla questione del padre vorrei aprire una parentesi, prima di passare al caso specifico di Dora. Freud è stato molto criticato dalle generazioni di psicoanalisti e filosofi degli anni ’70 e ’80 del Novecento per la centralità che egli attribuisce al padre e all’ambiente familiare, piuttosto che all’ambiente sociale. Si è legata questa centralità al metodo dialettico e, in fondo, piuttosto tradizionale con cui il padre della psicoanalisi affronta i disagi dei suoi pazienti. Freud cerca di guarire queste persone mitigando e ordinando quanto più possibile il caos che hanno dentro, riportando l’ordine e la disciplina laddove regnavano la ribellione delle pulsioni e il caos emotivo. A mio avviso questa critica postmoderna è un po’ troppo semplicistica e affrettata: sulla questione della centralità del padre, Freud ha avuto il merito di descrivere dall’interno dell’inconscio, dal profondo, la società patriarcale. Il padre è centrale non perché lo decide Freud ma perché è la figura del potere, è temuto e amato, è colui che impone la legge ai suoi figli. Nell’Europa dei primi del Novecento vi erano ben tre imperi, le nazioni e non soltanto le famiglie erano guidate da un padre autoritario che decideva delle sorti dei suoi sudditi. Inoltre Freud, in quanto medico privato, ha come modello le famiglie borghesi benestanti della capitale austriaca, non può attingere ad una vasta gamma di umanità. In questi nuclei familiari è il padre a mantenere la famiglia, è il centro di ogni decisione e condiziona la vita dei figli. Il padre giudica il fidanzato o la fidanzata del paziente (come accade nel caso dell’uomo dei topi), decide la carriera e il matrimonio dei propri figli, stabilisce i principi dell’educazione che questi devono ricevere. Vedremo come, nel caso di Dora, tutta la famiglia fosse costretta a trasferirsi in una località di villeggiatura a causa della malattia del padre, una brutta sifilide che gli causa una serie di problemi respiratori. La malattia del padre condiziona la percezione e l’idea che Dora si farà della sessualità e sarebbe stato difficile supporre il contrario. Riguardo invece all’eccessiva causalità che interviene nel creare il filo conduttore tra esperienze, affetti, simboli onirici e sintomi, probabilmente questi risultano spesso un po’ forzati, ma il risultato finale è la storia del paziente. Attraverso la connessione di sintomi ed esperienze frammentate, Freud ricostruisce la personalità di un individuo, senza la pretesa di essere pienamente esaustivo. E possiamo immaginare che anche il paziente si senta sollevato da questa ricostruzione, potendo guardare i propri incubi assumere un senso storico e personale ben preciso, che poter assistere alla trasformazione dei fantasmi in figure ed esperienze concrete aiuti ad affrontarli o ad accettarli, a seconda dei casi. 


Un’ultima breve aggiunta: che il soggetto integro e coerente con se stesso sia una figura omologante e opprimente non è sempre e universalmente valido. Per Deleuze e Guattari il disordine delle pulsioni è una delle poche vie di fuga da un sistema di controllo e di dominio totalizzante, come quello del regime capitalistico. Ricostruire il soggetto significa ricostruire il soldatino del capitale. Meglio la follia che genera caos piuttosto che la lucida follia dell’ordine capitalistico di produzione e di organizzazione sociale. Il dubbio che mi pongo e che si rafforza leggendo i casi clinici, è questo: come può un uomo preda dei suoi fantasmi non essere preda delle coercizioni psicologiche dell’ordine capitalistico? Se io continuo a temere mio padre senza nemmeno sapere di temerlo, allora temerò il mio professore universitario, e poi il mio datore di lavoro, e così via. Se scopro cosa mi fa soffrire posso recuperare quella potenza che avevo perduto a causa delle mie nevrosi e delle mie ossessioni. Se il malato di mente può essere un testimone della brutalità oppressiva della nostra società, violenta, competitiva, consumistica e ipocrita, purtroppo non può che essere vittima di quella violenza perché l’ha fatta sua, l’ha assorbita fino alle falde più profonde della sua personalità. Se, invece, quel malato diventa di nuovo soggetto, Ich kann, è possibile che diventi capace di resistenza attiva e di critica. In Freud quest’aspetto politico non viene affrontato, ma lo farà  Herbert Marcuse a partire dagli strumenti che Freud mette a disposizione per questo tipo di riflessione. 


Giovanni Boldini, Nudo coricato di giovane donna buona, 1890
La storia clinica di Dora prende le mosse da un episodio che sconvolge la sua famiglia e spinge il padre a condurre Dora dal dott. Freud. La famiglia di Dora, composta da padre, madre e fratello è molto legata dalla famiglia K. con cui spesso si recano in villeggiatura a causa della sifilide del padre. Dora è molto vicina ai coniugi K. e spesso il signor K. accompagna Dora a fare delle passeggiate, mentre la signora K si occupa di suo padre. La mamma di Dora spesso resta in città. Un giorno Dora torna dalla solita passeggiata con il viso stravolto sostenendo che il signor K. ha avuto nei suoi confronti un comportamento molesto e indecente. In famiglia nessuno le crede, si creano forti tensioni: Dora aveva sempre avuto un carattere difficile ed un comportamento tendenzialmente isterico. Spesso si ammalava, aveva tosse, mal di gola, addirittura periodi di afasia, ma queste malattie avevano soprattutto un’origine nervosa. Quando Dora denuncia il comportamento del signor K. sarà sola nel portare avanti la sua battaglia, il resto della famiglia resterà vicina ai coniugi K. e i loro rapporti resteranno pressoché invariati.


La storia di Dora parte da questo gesto di rifiuto e di ribellione che è costituito da un grumo emotivo profondo e complesso. È come se tutte le sue forze, i suoi desideri, il suo orgoglio e le sue paure si fossero concentrate in quel gesto di rifiuto. Un rifiuto forte, intenso e ostinato. In quella reazione Freud vede una storia di pulsioni e pensieri nascosti, una vita sessuale vivace e tormentata, fatta di segreti che Dora vuole preservare ma che ormai sono maturi per venir fuori e trasformarsi in pulsioni sociali e affettive manifeste. 


Uno dei punti centrali dell’analisi è il primo dei due sogni di Dora che Freud racconta. La ragazza è nel suo letto, mentre intorno la casa va a fuoco. Ai piedi del letto i suoi genitori, suo padre e sua madre che vorrebbe salvare assolutamente un portagioie,  mentre il padre affretta l’uscita dalla stanza. L’interpretazione di Freud è celeberrima: il centro del sogno è lo scrigno, simbolo della vagina, che va portata in salvo, tutelata e protetta da eventuali pericoli, soprattutto dal fuoco della passione. 


Questo sogno mette in luce la preoccupazione di Dora di cedere alle proposte del signor K. nei confronti del quale nutre sentimenti ambivalenti. Dora è eccessivamente ripugnata da questo signore, segno che anche le più elementari e inconsce pulsioni erotiche sono rimosse e soffocate da altri sentimenti che la tormentano. In primo luogo c’è l’associazione tra malattia e sessualità che Dora fa sin dall’infanzia a causa della malattia del padre. La figura del padre, inutile anche dirlo, è centrale: su di lui si concentrano tutte le energie della madre e dei coniugi K., in particolare della signora, con la quale il padre ha una relazione amorosa. C’è il senso di colpa: Dora da un lato accusa il padre di essere sleale e lo incolpa per questa relazione, sentendosi usata e strumentalizzata dal genitore che approfitta dell’affetto di lei nei confronti dei K. per coprire la sua relazione illegittima. Ma, d’altro canto, Dora si rende conto di aver sempre saputo di questa relazione e di averne approfittato ella stessa per stare quanto più tempo possibile con il signor K., da cui è profondamente attratta. C’è la rabbia nei confronti della signora K., con cui la ragazza ha un rapporto molto intimo: Freud durante l’analisi scopre che la signora K. è stata sua mentore nelle questioni riguardanti la sessualità e depositaria delle sue confidenze più intime. Quando la ragazza denuncia alla famiglia il comportamento del signor K., la signora utilizzerà le confidenze fatte da Dora per delegittimarla e farla passare per una ragazza di facili costumi. 


Quello attorno a Dora è un piccolo mondo che pian piano cade a pezzi: le ipocrisie dei genitori, degli amici di famiglia, delle istitutrici, i rapporti opachi che legano tra loro i membri di questa famiglia si manifestano alla coscienza di Dora in modo evidente grazie alla pratica psicoanalitica. La percezione di queste ambiguità aveva dato forma all’isteria di Dora, trasformando in spettri e in sintomi la sofferenza che questa situazione le causava. La malattia è un rifugio da una verità triste e dolorosa ed è il tempo che la ragazza si concede per fantasticare ancora un po’ prima di diventare adulta. 


Dora guarirà e conseguentemente si sposerà: riprodurrà il modello famigliare e relazionale dei suoi genitori, magari ne replicherà le stesse ipocrisie e le stesse menzogne. Freud parla di una donna finalmente serena, che ha superato l’isteria caratterizzante la sua adolescenza. Così come nella filosofia di Hegel il figlio che non accetta più il potere del padre diventa padre a sua volta, nel caso di Dora la sua isteria è il suo modo di mettere in discussione le figure autorevoli della sua infanzia in modo da fondare un suo proprio nucleo familiare. 


Ciò che viene replicato e che mai viene messo in discussione, né da Dora e né tantomeno dal suo medico, è il modello familiare. In questa guarigione che è anche un processo di crescita e maturazione, Dora ha perso qualcosa della sua intransigenza e della sua caparbietà, addolcendosi, facendosi moglie dopo essere stata isterica. 


Bibliografia


Deleuze, G. & Guattari, F. (1975), L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia. Torino: Einaudi. 


Freud, S. (2010), Casi clinici, Roma: Newton Compton. 


Marcuse, H. (2001), Eros e civiltà, Torino: Einaudi.

domenica 3 aprile 2022

Inventare il futuro, di Srnicek e Williams

Il mondo di oggi rimane invece costretto all'interno dei parametri imposti dal "realismo capitalista". Il futuro è stato cancellato: siamo più inclini a credere che la catastrofe ecologica sia imminente, la militarizzazione della società inevitabile e l'aumento delle diseguaglianze inarrestabile. 

 Manifesto risalente a sette anni fa, Inventare il futuro di Srnicek e Williams sembra provenire da un passato ben più remoto. In quegli anni ’10 del Duemila si cominciava a pensare, in forme contraddittorie e spesso ingenue, a nuove forme di stato sociale, a nuovi modi di produrre e redistribuire la ricchezza globale, ad una nuova concezione dello Stato e della democrazia.

In Italia abbiamo assistito alla parabola del Movimento 5 Stelle che si è fatto portatore di molte di queste nuove istanze politiche e sociali. Dalle utopiche riflessioni sulla decrescita felice all’elaborazione di forme di democrazia diretta fondate sulla partecipazione virtuale, questo movimento è arrivato in parlamento, diventando un partito tradizionale sia nell’organizzazione che nelle idee politiche, sempre più vicine alla socialdemocrazia della seconda metà del novecento.

A prescindere dal caso specifico, in questi anni abbiamo capito – soprattutto dopo l’esperienza del covid -  che la partecipazione politica non può non essere fisica, che le nuove tecnologie possono essere un supporto per nuove forme di aggregazione, ma non possono sostituire quelle tradizionali. Che è fondamentale una nuova redistribuzione della ricchezza, un nuovo modo di teorizzare e progettare lo stato sociale, ma che questo non può ridursi ad uno stato “minimo” che si limita ad elargire un reddito di base, tralasciando di occuparsi dei servizi fondamentali quali l’istruzione e la sanità. Così come non possono ridursi ad uno stato minimo e liquido i movimenti politici che propagandano e diffondo idee di riforma e progresso sociali.

Rileggere un testo come quello di Srnicek e Williams alla luce di un tempo diverso da quello in cui è stato scritto aiuta da un lato a riflettere sul nostro più recente passato, dall’altro a riprendere quei concetti che erano validi e degni di discussione allora e che lo sono altrettanto oggi, e lo sono ancora di più proprio per le esperienze e per i cambiamenti che abbiamo affrontato in questi anni.

Il manifesto dei due autori si divide in una parte critica e in una programmatica. Nella prima parte viene criticata, con il nome di folk politics, quella tendenza della sinistra europea e statunitense contemporanee a frammentarsi in tanti piccoli movimenti che portano avanti rivendicazioni molto specifiche e spesso rivolte ad un passato piccolo borghese, artigianale, che non può costituire un’alternativa valida al capitalismo sempre più aggressivo, tecnologicamente avanzato e capace di fagocitare le più diverse forme di vita.

Da Occupy Wall Street ai movimenti per lo slow food, la tendenza dei movimenti critici nei confronti del capitalismo globale hanno fatto della loro debolezza politica il loro eroismo, della loro ineffettualità la loro superiorità etica, della loro incapacità organizzativa la loro utopica creatività. Sulle radici filosofiche e teorico-politiche di questo fenomeno gli autori non si soffermano, ma è un capitolo della storia contemporanea su cui vale la pena riflettere.

Ad ogni modo, questa impostazione della lotta sociale e politica si è rivelata fallimentare, e non poteva non fallire. Questo perché l’organizzazione neoliberista della società globale – nelle sue diverse forme di sussunzione – non è il frutto di una contingenza storica, ma di un progetto articolato in diverse fasi, intelligentemente organizzato e tenacemente portato avanti. Srnicek e Williams ripercorrono la storia del neoliberismo novecentesco che nasce come una teoria economico-politica fortemente minoritaria rispetto al keynesismo, soprattutto nella seconda metà del Novecento. Ebbene, una minoranza di economisti e uomini politici ha portato avanti un progetto egemonico in controtendenza rispetto ai tempi fino alla sua piena realizzazione, formando e mandando nel mondo intellettuali, politici, uomini di scienza.

Gli autori omettono un piccolo particolare. La minoranza neoliberista appartiene comunque ad un’élite borghese che aveva mezzi e risorse per poter costruire la sua egemonia, al contrario dei ceti subalterni e dei popoli sfruttati di tutto il mondo. Tuttavia, la loro analisi, pur presentando delle ingenuità, incoraggia all’azione, alla riflessione, cerca di opporre delle argomentazioni ragionevoli al fatalismo rassegnato dell’opinione pubblica occidentale.

Alla folk politics si contrappone l’universalità di un nuovo pensiero riformista e progressista. La più specifica delle questioni si inserisce in un contesto globale che va analizzato e compreso. Solo alla luce di questa comprensione totale e dei nessi che legano le specifiche problematiche della nostra società, è possibile costruire una rete di movimenti guidata da un centro coordinatore teorico e pratico. Questo “centro” io lo chiamerei “partito”, ma gli autori a questo proposito non si pronunciano.

Qual è, dunque, la visione politica che si abbozza in questo saggio? La tesi di fondo è che nella società contemporanea il lavoro non sia più necessario e che la piena automazione sia ormai una possibilità concreta. Già Herbert Marcuse, quasi settant’anni fa, aveva prospettato questa possibilità come via d’uscita e superamento della società capitalistica, che aveva creato un surplus prestazionale e repressivo che superava “l’ordinaria” amministrazione repressiva della società. Più la società capitalistica si accresce e complica, aumentando i propri bisogni, incrementando e migliorando le sue capacità produttive, sussumendo sotto di sé l’intero globo terrestre, più il disagio della civiltà diventa insostenibile e più diventa necessario amministrare non solo il tempo di lavoro degli esseri umani, ma anche il loro tempo libero, il loro modo di pensare, le loro pulsioni creative più spontanee. L’automazione permetterebbe di liberare proprio questa pulsioni e di “umanizzare” la civiltà meccanizzando il lavoro.

Secondo Srnicek e Williams la nuova sinistra deve abbandonare l’ideologia del lavoro cui è stata ancorata per più di un secolo ed abbracciare questa nuova ideologia del non lavoro, del reddito universale e della piena automazione del sistema produttivo. In questo modo, quel surplus di popolazione mondiale che viene emarginata dai processi produttivi, relegata a forme di economia di sussistenza, sopraffatta dalla miseria, dalla disperazione e dell’angoscia, potrebbe finalmente ricchezza che gioverebbe e sarebbe indirizzata all’umanità stessa, e non ritorta contro di essa.

Questo assunto universale si declina a seconda delle condizioni materiali, della storia e della cultura dei diversi popoli ma, in linea generale, è una prospettiva che coinvolge tutti gli esseri umani e che permetterebbe l’emancipazione delle classi e dei popoli oppressi. E questo proprio in una società in cui lavoro che fai segna profondamente chi sei e in cui non lavorare è visto come una colpa imperdonabile, come uno stigma che ti relega ai margini della società.

Un ultimo punto interessante. Per i due autori il problema del surplus di popolazione non è legato necessariamente a momenti di crisi economica. Si sta verificando il fenomeno per il quale anche quando l’economia è in crescita, i posti di lavoro diminuiscono e non soltanto nei paesi a capitalismo avanzato, ma anche in quelli in via di sviluppo. Il problema della popolazione “in eccesso” rispetto alle attività produttive potrebbe diventare un problema sempre più grave anche qualora si dovesse superare la crisi economica che, a fasi alterne, caratterizza gli ultimi quindici anni di capitalismo globale.

Nel saggio si descrive il mondo che dovrebbe sorgere dall’abolizione del mondo del lavoro come “post capitalismo”, termine che non mi trova d’accordo, perché ci fa capire come l’alternativa al capitalismo sia ancora talmente nebulosa da non avere nemmeno un nome, e come il capitalismo ci sembri ancora l’unico dei mondi possibili, sebbene non il migliore. Ma, come gli stessi autori ammettono, il percorso teorico e pratico è ancora lungo e difficile, tutto da costruire.  

 

 

 

 

 

venerdì 11 febbraio 2022

Il lavoro e il sogno della contemporaneità

 

In un’epoca in cui, nella civiltà occidentale a capitalismo avanzato, il lavoro è diventato sempre meno necessario, esso si vela di caratteristiche sempre più magiche e fantasmagoriche, miraggio che promette appagamento, sicurezza economica, fiducia in se stessi, riposo dopo tanti e spesso vani sforzi.

L’idea di trovare un Lavoro che ci sollevi finalmente dall’insopportabile peso dei mille “lavoretti”che si è costretti a fare per vivere, dei tanti compromessi per poter essere accettati, riconosciuti e apprezzati in un determinato ambiente sociale – sia questo la famiglia, la cerchia di amici, l’azienda in cui si vuole far carriera, l’accademia o il bar sotto casa – è il faro che guida la nostra condotta nel rapporto con noi stessi e con gli altri, con i pari e con i superiori.

Pochi di noi nati nel 1990 o giù di lì possono negare di aver sentito quel peso e quell’angoscia derivanti da un profondo senso di inadeguatezza e di smarrimento dovuti al fatto di essersi trovati sospesi nel vuoto dopo aver percorso tutto d’un fiato una strada che ci sembrava certa e sicura. Quella strada che i nostri genitori avevano percorso o sulla quale ci avevano immaginati e sognati, felici e grati dei loro sforzi.

Le cose sono andate diversamente. E continuano ad andare diversamente per le generazioni successive. Quelle strade non sono più sicure, ma piene di buche e insidie, di trappole in cui si può cadere. E morire.

Il sogno di un lavoro sicuro e appagante si trasforma in un incubo sia perché è difficilissimo da raggiungere e richiede molto tempo e fatica, sia perché questo traguardo così importante, posto in cima ad un’altissima montagna che siamo spinti a raggiungere, condiziona tutta la nostra esistenza, il nostro presente, che diventa un impercettibile passaggio tra un passato da dimenticare e un futuro da inseguire.

In una società in cui la fatica non è più necessaria, come giustificare questa corsa insensata? Più il lavoro diventa inutile, più l’individuo è valutato sulla base delle proprie capacità prestazionali e delle proprie competenze specialistiche. Se da un punto di vista oggettivo si fa concreta la possibilità di vivere degnamente senza doversi sobbarcare la fatica del lavoro, dal punto di vista soggettivo gli individui si convincono che la loro professione qualificata sarà ciò che li renderà felici, protagonisti all’interno della società, amati e rispettati. Gli individui si convincono che una volta raggiunto il loro scopo non saranno più soli, che non dovranno più lottare, che avranno vinto sulle pressioni sociali. Noi uomini contemporanei occidentali viviamo nella contraddittoria e illusoria convinzione che possiamo diventare liberi dall’angoscia che ci viene dalla società, dal grande Altro che ci giudica e ci osserva – che per ognuno di noi assume un volto diverso – solo se ne assecondiamo ogni richiesta o, ancora meglio, se riusciamo ad intuire anticipatamente queste richieste e a soddisfarle ancor prima che ci vengano fatte.

Siamo educati e diretti verso la “realizzazione” di noi stessi, che non è estrinsecazione libera e gioiosa della nostra personalità, ma darwiniano adattamento alle condizioni ambientali, a quella seconda natura che è la nostra civiltà. Oggi le condizioni ambientali si fanno sempre più dure e i sacrifici necessari per l’adattamento sempre più dolorosi. I sintomi, i ritorni di ciò che viene rimosso, le coazioni a ripetere riemergono sempre più frequenti.

 Inquietante, sorge un dubbio: è davvero necessario? Ne va davvero della nostra sopravvivenza? Se non si riesce a vincere la lotta per l’adattamento è necessario rinunciare a vivere?

Comincio a credere che nella risposta che diamo a questa domanda ne vada davvero della nostra vita. Ma in un senso contrario a quello dell’ideologia della prestazione e della “realizzazione di sé”. Penso che inseguire questo falso idolo stia diventando pericoloso per la nostra vita, che l’adattamento all’ambiente non sia più giustificato dalla necessità della sopravvivenza ma che, al contrario, ci conduca alla morte. Le modalità e le manifestazioni di questo principio distruttivo e mortifero sono innumerevoli,  vanno dalla morte intesa in senso metaforico come annichilimento delle pulsioni più vitali e creative degli esseri umani – e non solo – alla morte reale.

D’altro canto penso che ogni manifestazione di rifiuto di questa logica annichilente sia un moto della vita che non riesce a negare se stessa e che raccoglie le sue poche e deboli energie per fronteggiare il processo della sua distruzione. Molto probabilmente mancare del tutto o in parte l’adattamento potrebbe salvarci dalla morte, magari permetterci di fare esperienza di forme di appagamento differenti, di scoprire una nuova vita. Più morbida, più dolce, più adatta a noi.

 

 

 

giovedì 18 febbraio 2021

"Il racconto dell'ancella" di Margaret Atwood


Fraternizzare
significa comportarsi da fratelli. Me l'ha detto Luke. Diceva che non c'era una parola equivalente che significasse comportarsi da sorelle. Avrebbe dovuto essere sororizzare, diceva lui. Dal latino. Gli piaceva sapere queste cose. La derivazione delle parole. Io lo prendevo in giro per la sua pedanteria.

Questo è un libro scritto e narrato da una donna. 

Fin dalle prime pagine si comincia a delineare uno scenario distopico. Si tratta del regime di Gilead, la società a cui approderemmo se vincesse la logica del "È stata stuprata perché aveva la gonna corta". Una società di questo tipo è una società che "eleva" la donna a creatura debole, bisognosa di protezione e di salvaguardia perché custode del dono della procreazione. Di contro, ogni mancata fecondazione non è mai causata da una deficienza dell'apparato riproduttivo maschile, ma esclusivamente da una infecondità patologica della donna. Le donne sterili, incapaci dunque di assolvere al diritto-dovere di procreare, sono esiliate nelle Colonie e prendono il nome di Nondonne. 

L'emancipazione fisica mentale e sociale della donna e l'approdo ad una mercificazione del corpo femminile, in Gilead, vengono estremizzate al punto da essere ribaltate: e se riuscissimo davvero a instillare nei più la concezione secondo cui la donna, mostrandosi, desacralizzerebbe il proprio corpo? Cosa accadrebbe se perseguissimo una antica gloriosa purezza che non potrebbe mai collimare con un disvelamento sacrilego del corpo? Le donne del libro finiscono così per essere rigidamente rinchiuse nei loro ruoli, delineati da abiti distinti per colore che accomunano le donne della stessa "specie": Ancelle, Marte, Mogli, Vedove, Economogli. Il regime, dichiarando nulli tutti i secondi matrimoni e le relazioni non maritali, si assicura un copioso numero di reclute donne, le Ancelle. Dapprima inviate in un istituto correttivo nel quale venga loro impartito il corretto stile di vita per adempiere al proprio dovere, quello di essere degni contenitori, vengono poi assegnate ad un Comandante, un uomo sposato e in là con gli anni la cui moglie non è stata in grado di assicurare una discendenza (ricordiamoci che la responsabilità di una mancata fecondazione ricade sempre sulle donne, siano esse di basso o di alto rango). È qui che le Ancelle vengono spogliate persino del proprio nome: Offred, il nome della protagonista narrante, non è altro che un patronimico, composto dalla preposizione con valore possessivo (of-) e dal nome di battesimo del Comandante assegnatole (Offred, di Fred). 

Il mio nome non è Offred, ho un altro nome, che adesso nessuno usa perché è proibito. Mi dico che non è importante, un nome è come un numero di telefono, utile solo per altri; ma mi sbaglio, è importante. Tengo la coscienza di questo nome come qualcosa di nascosto, un tesoro che tornerò a scavare un giorno. È un nome sepolto, circondato da mistero come un amuleto, un amuleto sopravvissuto a un passato incredibilmente distante. La notte sto sdraiata sul letto, con gli occhi chiusi, e il mio nome è lì, sospeso dietro gli occhi, non del tutto a portata di mano, che brilla nel buio. 

Alle donne non è permesso leggere. L'unica lettura di cui possano godere è quella di alcuni passi della Bibbia letti dal Comandate nei giorni di Cerimonia, i giorni cioè in cui avviene un atto sessuale prestabilito e controllato tra l'Ancella e il Comandante. Non c'è spazio per la passione o l'erotismo. Quello che avviene in quei giorni è una trattativa d'affari stipulata sotto il vigile occhio della padrona di casa, niente di più. 

Lì sotto il Comandante sta fottendo. Ciò che sta fottendo è la parte inferiore del mio corpo. Non dico fare l'amore, perché non è ciò che sta facendo. Anche copulare non è l'espressione esatta, perché indica la partecipazione di due persone mentre qui solamente uno di noi è coinvolto. Neanche parlare di stupro sarebbe giusto, perché non sta succedendo nulla che io non abbia sottoscritto.

Gilead, patriarcale nella forma e matriarcale nel contenuto, è una fandonia. Gli uomini di alto rango, quelli che posseggono la parola, continuano a godere delle proprie piccole o grandi perversioni: possedere tante donne e farne delle puttane o delle sante a loro piacimento. Scopo del regime, messo a punto dagli uomini e dagli uomini gestito, effettivamente non è la sublimazione della figura femminile, ma la possibilità di aizzare le donne le une contro le altre. Uno Stato come questo giustifica la violenza se indirizzata ai traditori, ma punisce chi attenta alla vita degli schiavisti degli alti ranghi; rifugge da qualsivoglia iniziativa solidale tra i suoi membri, ma concede grandi manifestazioni per le esecuzioni capitali; eleva la donna a simbolo di purezza, ma permette che i Comandanti frequentino club in cui altre donne vengono costrette a prostituirsi. Lo Stato si fa garante del benessere dei propri cittadini, che sono considerati inabili alla scelta del proprio bene. Ma fin dove è lecito per un garante spingersi nella limitazione della libertà? E ammesso che il fine sia giusto (giusto per chi?), il fine giustifica il mezzo?

Questi e altri gli spunti di riflessione che offre questo libro. Una lettura quasi d'obbligo per donne e uomini del nostro tempo. 

martedì 23 giugno 2020

Reggio: la rabbia esplode. Un ricordo dal Canzoniere delle Lame - Janna Carioli


Janna Carioli, mitica componente del Canzoniere delle Lame, ci racconta di quando compose la canzone "Reggio: la rabbia esplode", in occasione dei moti scoppiati a Reggio Calabria, cinquant'anni fa, per la definizione del nuovo capoluogo di Regione.
Erano tempi in cui una solidarietà, oggi dimenticata, univa i compagni e le compagne, da un capo all'altro dell'Italia, per combattere insieme una lotta comune. E per combattere, ci si serviva anche della musica.



In questi giorni, su molti giornali, si ricordano i pesantissimi scontri avvenuti 50 anni fa per la definizione del capoluogo dell’allora neonata Regione Calabria. Il contendere era fra Catanzaro e Reggio. Ovviamente non era questione di campanile ma di soldi.
Tanti soldi.
La destra e dietro di lei la ‘ndrangheta si mobilitarono attivamente per ottenere che il capoluogo fosse a Reggio e non nella designata Catanzaro.A me capitò di partecipare a quella avventura.
All’epoca facevo parte del Canzoniere delle Lame, un gruppo che cantava canzoni di protesta.
In genere facevamo concerti nella nostra regione o poco più lontano, ma un giorno ci arrivò un S.O.S da Reggio Calabria.
Ci telefonò un funzionario della federazione del PCI di Bologna che era stato mandato in Calabria per “dare una mano” ai compagni calabresi.
“Dovete venire qua subito a fare concerti. I fascisti sono pieni di soldi e fanno dischi, manifesti, materiali di propaganda. Noi non abbiamo nulla, serve un aiuto”.
Prendemmo le ferie e ci sciroppammo 1500 chilometri per andare in Calabria.
Rimanemmo una settimana durante la quale cantavamo in media quattro volte al giorno.
La situazione era pesantissima. Il primo concerto lo facemmo a Reggio, nel quartiere di Sbarre, mentre a una ventina di metri dal palco un gruppo di ragazzini di 8 anni rovesciava macchine. In un paese qualcuno mise una bomba davanti alla porta del sindaco (democristiano) perché aveva dato il permesso di fare il nostro concerto.
Ovunque ci chiedevano di scrivere una canzone che parlasse di loro, di quello che succedeva, delle lotte che stavano facendo. Ma con tutta la buona volontà a me quella canzone proprio non veniva. Alla fine della settimana avevamo le tonsille in fiamme. Avevamo fatto 20 concerti in 5 giorni. Le ferie erano finite e dovevamo assolutamente rientrare.I lunghissimi 1500 chilometri del ritorno li feci guidando il pullmino, con un foglietto sulle ginocchia. A mano a mano che i brandelli di quella esperienza tornavano a galla nella mente, scrissi la famosa canzone che non mi era venuta durante tutta la settimana.
All’ultimo autogrill prima di Bologna la canzone era fatta.
Ci procurammo dei gettoni (allora i telefoni pubblici funzionavano così) e chiamammo Reggio Calabria.
“La canzone è uscita… ma magari non vi serve più!”.
“Ci serve e come! Mandateci subito 1000 dischi”.
Il giorno seguente eravamo in uno studio a registrare e una settimana dopo mille 45 giri partivano per Reggio.
Come andò a finire lo leggemmo sui giornali: Reggio Calabria diventò capoluogo della Regione.
Della sorte dei dischi non avemmo più notizie. Poi, un anno dopo, in treno, sentimmo che nello scompartimento a fianco cantavano la canzone che avevo composto.
Rimanemmo esterrefatti e andammo a chiedere col tono più indifferente possibile, che canzone fosse mai quella.
“Una canzone delle parti nostre”, ci fu risposto.
Non dissi che l’avevo scritta io.
Per un cantante popolare come mi ritenevo a quell’epoca, il fatto che quella canzone fosse stata adottata e riconosciuta come “delle parti loro” era una medaglia sul petto.




Reggio, la rabbia esplode la miccia brucia già
Ma chi l'ha accesa sono gli stessi che vendon fame qua. 
Il capoluogo serve alla D.C. e ai mafiosi 
Per ottenere ancora più potere di quello che hanno già. 
Il sindaco Battaglia serve da copertura 
Dietro ha gli agrari, i proprietari tutta la mafia nera. 
Non costa far promesse alla povera gente 
Che cosa importa se alla fine si fa scannar per niente. 

Reggio la rabbia esplode

La miccia brucia già 
Ma chi l'ha accesa 
Sono gli stessi 
Che vendon fame qua. 
Le barricate a Sbarre la gente spara già
Spara miseria, spara la fame ma non sa contro chi. 
Fascisti con le bombe mafiosi col potere 
I proletari solo le braccia hanno da far valere. 
Fascisti quelle bombe vi scoppieranno in mano 
I comunisti alla violenza hanno risposto no. 

Reggio, la rabbia esplode

La gente adesso sa 
Contro chi deve usare la rabbia 
Fascismo non passerà

giovedì 23 aprile 2020

Xenofemminismo, di Helen Hester


Lo Xenofemminismo, o XF, può essere visto in un certo senso come un lavoro di bricolage, dato che sintetizza cyberfemminismo, postumanesimo, accelerazionismo, neorazionalismo, femminismo materialista e altro ancora, nel tentativo di dar forma ad un progetto adeguato alle condizioni politiche dell’epoca contemporanea.

Quando ho cominciato a leggere queste prime righe dell’Introduzione, ho pensato che questo saggio di Hester pubblicato nel 2018 negli Stati Uniti e tradotto in italiano nello stesso anno, fosse uno di quegli esercizi di eclettismo sterile che spesso ho incontrato nel mio non molto lungo percorso di lettrice di testi femministi. 

In buona parte mi sono dovuta ricredere.  La mia maggiore perplessità riguardo al femminismo contemporaneo e agli studi di genere è la loro parzialità, l’astratto formalismo, l’esercizio elementare di catalogazione dei gusti sessuali e dei cambiamenti di genere che dà origine ad una serie di categorie alienate rispetto al contesto storico, economico e sociale, nei confronti del quale spesso si tiene un atteggiamento di spocchiosa indifferenza, quasi a voler dire “Ma ancora dobbiamo occuparci di questioni sociali? Il tempo delle lotte di classe è finito!” L’eclettismo, l’individualismo e l’aperta o inconscia adesione all’ideologia di destra, l’antimarxismo latente o palese che caratterizza spesso questi scritti, mi ha resa diffidente e dubbiosa nei confronti di questo indirizzo di ricerca filosofica, ormai ben collaudato e con la sua strutturata egemonia.

Non è il caso del manifesto di Hester, la quale, aldilà di alcune eccentricità linguistiche e contenutistiche tipiche di certa letteratura statunitense, elabora alcuni concetti che permettono ai movimenti e alla teoria femministi di ampliare la loro prospettiva, inserendo la questione dell’identità del genere nel contesto in cui si dà. Proprio perché l’identità non è una definizione teorica, ma una prassi politica, è all’ambiente sociale, all’organizzazione politica, al tempo storico che bisogna guardare.

I concetti fondamentali che consentono ad Hester di ampliare la sua prospettiva di genere sono il tecnomaterialismo, l’antinaturalismo e l’abolizionismo del genere.

A voler essere pignoli, il termine “tecnomaterialismo” è frutto di una non necessaria fusione tra il materialismo (storico-dialettico) e una certa filosofia borghese che fa della tecnica un problema in sé, penso ad esempio ad Heidegger. Per il materialismo la tecnica è un problema che c’è sempre, in ogni epoca storica, e allo stesso tempo non è mai un problema in quanto tale: il problema delle macchine sta nell’uso che se ne fa, ossia nei rapporti sociali che sono costruiti attorno all’uso e alla produzione delle macchine, intorno ai fini dell’utilizzo delle tecnologie. Ma perdoniamo questo neologismo ad Hester poiché è proprio questo il problema che l’autrice intende porre: come si caratterizza il mondo del lavoro nell’epoca dello sviluppo tecnologico? Come la tecnica influenza la riproduzione biologica e sociale?
Già Marcuse si era posto questi problemi negli anni cinquanta, interrogandosi sulle potenzialità dello sviluppo tecnologico in atto, ma anche sulle forme di alienazione causate dall’uso capitalistico e monopolistico delle macchine. L’impostazione di Hester è molto simile: lo sviluppo tecnologico dà all’uomo l’opportunità di migliorare e progredire, ma questa fiducia nel progresso non è cieca e acritica.

L’antinaturalismo  è invece un termine che si collega alla tradizione marxista e progressista: inchiodare un’identità, un soggetto, una comunità alla natura è tipico del pensiero conservatore, per cui le cose sono quello che sono e sono immutabili, perché così ha voluto la Natura, o Dio, o una qualche altra Autorità. Per un manifesto progressista come Xenofemminismo, la riproduzione biologica e la riproduzione sociale si intersecano nel corso dello sviluppo storico. La tecnica rende ancora più visibile questa interconnessione, ed è proprio qui che si pone il problema politico del governo di questo sviluppo tecnologico, che deve favorire la libera espressione dell’identità di genere dei singoli, l’esercizio del diritto di volere o non volere dei figli, questioni che non sono identiche per tutti ma che si differenziano a seconda delle classi sociali e delle condizioni economiche in cui versano gli individui.

Infine l’abolizionismo di genere sostiene che obiettivo delle lotte dei movimenti femministi e di genere è l’abolizione dei generi stessi, ossia il conseguimento di una uguaglianza tra gli uomini tale che permetta loro di poter scegliere il proprio genere di appartenenza (con tutte le infinite sfumature tra un genere e l’altro) senza dover subire alcuna discriminazione. Un’anarchia sessuale fondata su poche regole condivise ed inclusive.

Per quanto abbozzato, questo manifesto costituisce il tentativo di elaborare, a partire dalle condizioni attuali, dalle tradizioni e dalle pratiche di cui disponiamo, una teoria progressista e razionale, critica nei confronti dello stato di cose e che prospetta nuove possibilità.


domenica 5 aprile 2020

Ri-bilanciare i poteri tra Governo e Parlamento quando il virus sparirà - Marina Calamo Specchia


In tempi di pandemia da Covid-19, in quale organo vanno collocati i poteri normativi?
Le pandemie rientrano negli stati d’eccezione che prevedono deroghe alla normativa vigente. Le democrazie costituzionali contemporanee regolano gli stati d’emergenza, prevenendo gli sconfinamenti dell'un potere a discapito dell'altro. La nostra forma di governo parlamentare, nomen omen, si poggia sul Parlamento e sulla relazione triadica che s’instaura con Governo da un lato e Presidente della Repubblica dall'altro. La Costituzione prevede tre disposizioni da attivare in momenti di eccezione: l'art. 77 della Costituzione disciplina i decreti-legge del Governo in casi straordinari di necessità e urgenza da convertire in legge; l'art. 78 prevede la dichiarazione dello stato di guerra con legge; l'art. 120 autorizza il Governo ad avocare le competenze amministrative regionali per disporre misure uniformi su tutto il territorio nazionale, sulla base di una legge. Tutti gli atti emergenziali prevedono l'intervento della legge del Parlamento a monte o a valle: oggi, il decreto legge è lo strumento corretto per disciplinare la crisi, ma esso non può istituire una delega in bianco alla normazione secondaria (il DPCM sottratto al controllo del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale) che limiti diritti e libertà fondamentali. Cosa è accaduto di fatto? Il Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020 ha disposto per sei mesi lo stato di emergenza costituzionale, bypassando il Parlamento, e il decreto-legge n. 6/2020 ha delegato il DPCM ad adottare le più corpose limitazioni dei diritti e delle libertà fondamentali dei cittadini. Solo il Parlamento, quindi, potrebbe ripristinare la legittimità costituzionale violata. Invece in questo clima da “guerra virologica”, il Parlamento delibera “a ranghi e tempi ridotti” su decisione dei Presidenti delle Camere, quasi a sanzionare la “morte annunciata” dell'organo rappresentativo: la decisione di limitare l'ingresso ai parlamentari contagiati dal virus e di concentrare le sedute, senza predisporre forme telematiche di partecipazione ai lavori parlamentari contraddice la scelta del Governo di stabilire per tutti gli organi collegiali la deliberazione attraverso videoconferenze tra le misure COVID-19 (art. 73 d.l. 18/2020), utilizzando l'innovazione tecnologica a servizio della democrazia. Si potrebbe utilizzare lo strumento telematico per i parlamentari impediti? A mio avviso sì: l'articolo 64 della Costituzione richiede a fini deliberativi la presenza dei parlamentari, concetto ampio che ben può essere reinterpretato come “presenza virtuale”, alla luce dell'evoluzione giuridica e tecnologica. Si tratterebbe, però, di procedimenti eccezionali, che suggeriscono in futuro una prudente normazione attraverso la modifica dei Regolamenti parlamentari. L'emergenza finirà e forse parlare in questo momento di poteri, funzioni e garanzie può (apparire) un privilegio da intellettuali. Tuttavia, se non si pone un freno agli sconfinamenti del Governo sul Parlamento, la pandemia ci lascerà in eredità una democrazia moribonda: adesso, quando il destino impone “tempo per riflettere”, ecco, pensiamo alla Repubblica che vogliamo!


* Marina Calamo Specchia
Docente di Diritto costituzionale comparato Università di Bari
Presidente Rete solidale in difesa della Costituzione
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