venerdì 15 novembre 2013

"Il gioco di Gerald" di Stephen King

«Esistono incubi che non scompaiono mai del tutto.»

Jessie è la Brava Mogliettina Burlingame, è la femminista mezza matta Ruth, è il Frugolino del suo papà. Ma, al momento, è soprattutto una donna ammanettata ad un letto.
Lei e suo marito si sono lasciati alle spalle la trafficata Portland per trascorrere un fine settimana tranquillo ma non troppo, laddove l'intimità coniugale deve fare i conti con le tendenze sadomasochistiche dell'avvocato Burlingame. La coppia si rifugia nella casetta sulle sponde del lago Kashwakamak. La stagione è bassa, l'area deserta, la casa praticamente isolata. Gerald ammanetta Jessie ai montanti del letto (con delle manette vere) e poi, colto da malore improvviso, pensa bene di tirare le cuoia. Sua moglie assiste al decesso piena più che altro di stupore (e solo a pagina 50 mostra un minimo di dispiacere per aver visto schiattare il compagno di una vita) e poi riflette tra sé: «Gerald è morto prima di potermi montare in groppa, eppure questa volta mi ha fottuta meglio del solito». Per lei, infatti, è l'inizio di un incubo che istante dopo istante, con l'accrescersi della sua consapevolezza, si fa più concreto e spaventoso. Immobilizzata, isolata dal mondo, accompagnata solo dalle voci «ufesche» delle sue personalità multiple, dal cadavere di Gerald, da un cane randagio che riesce a introdursi in casa e da una presenza lugubre e mostruosa, Jessie deve inventarsi qualcosa per avere salva la vita. Morire di inedia, mezza nuda, come conseguenza di un gioco erotico finito male sarebbe imbarazzante. La portata reale della minaccia si fa strada nella mente di Jessie, riempiendola di panico e spingendola sull'orlo della follia, e trascina con sé il ricordo di un orrore passato mai del tutto sepolto con cui la protagonista deve tornare a misurarsi nella sua sfida per la sopravvivenza.
Stephen King sforna un'altra delle sue trame geniali: un solo personaggio, una sola stanza, un arco temporale ininterrotto di neppure trenta ore. Le unità aristoteliche di azione, tempo e luogo sono radicalizzate e concentrate in un unico nocciolo pulsante di tragedia che pagina dopo pagina cerca di fluire via, verso un difficile lieto fine che la trasformi solo in un «momentaccio» felicemente superato. L'azione è straordinariamente circoscritta, la trama costruita con un lavoro di microchirurgia, lo zoom sui dettagli elevatissimo, la narrazione affidata quasi del tutto a movimenti introspettivi.
L'intuizione è originale e il tentativo estremamente audace: sviluppare un romanzo intero su una struttura così esile, su un'area quasi inestesa di trama e azione è possibile solo ad un autore di genio brillante e comprovato talento. Tuttavia, non innalzerei "Il gioco di Gerald" nel pantheon dei capolavori del Re per una ragione meramente formalistica: in diversi passaggi, lo stile non è all'altezza dell'intenzione e King non è al meglio delle sue possibilità. Non dirò di averlo trovato irriconoscibile, ma il suo procedere a tratti sembra artificioso e un po' forzato. Mi riferisco alla descrizioni dei malesseri della donna ammanettata, ad esempio, che sembrano presi pari pari da un'enciclopedia medica: una lista di sintomi copia-incollata con tanto di termini tecnici e ben poca elaborazione stilistica, un'asettico elenco di complicanze diligentemente studiate e spiattellate al lettore che prenderebbe più a cuore la condizione della vittima se fosse descritta attraverso i suoi occhi (che si presumono emotivamente coinvolti). Mi riferisco alla ricostruzione degli stati d'animo della protagonista, che non trovo del tutto verosimile, soprattutto nelle prime fasi della tragedia. Mi riferisco soprattutto a uno dei vezzi più tipici di King, che è l'uso frequente di similitudini ardite: nel "gioco di Gerald", credo che il Re finisca con lo sfornare delle immagini non solo forzate e infelici ma del tutto ridicole. Ho smarrito il passo preciso (e non ho la minima intenzione di rileggere tutto il libro per trovarlo) ma, giusto per dare un'idea, ad un certo punto la protagonista si dice smarrita come un-non-ricordo-che preda del vento di una notte di marzo senza luna, o una mostruosità simile.
Troppo artificio e troppa costruzione: la protagonista risulta antipatica, l'immedesimazione difficile, le lettura non faticosa ma neppure entusiasmante. Inoltre, in questo libro King si concede di indugiare un po' troppo su luoghi comuni e generalizzazioni di genere, banalizzando delle analisi di tema erotico che potevano essere oggetto di maggiore attenzione (abbondanza di materiale freudiano buttato quasi a caso) e tentando una trasposizione piuttosto ingenua e a tratti irritante di una psiche femminile. Vediamo uno sterile e semplicistico contrapporsi di banalità, del tipo: «più che dotati del pene, gli uomini ne erano afflitti» e «l'unico scopo di una donna è quello di portare a spasso una fica». Ovviamente c'è molta ironia ma non trovo che l'effetto sia molto ben riuscito.
Volendo essere meno pignoli e chiudere bonariamente un occhio sulle questioni stilistiche, possiamo leggere "Il gioco di Gerald" come una fiaba di emancipazione femminile: la Brava Mogliettina Burlingame violenta la propria psiche, costringendosi a far riaffiorare traumi passati, e il proprio corpo, pronta al sacrificio e allo sforzo in vista della liberazione dalle manette che è la liberazione dalla soggezione ai capricci sessuali del marito perverso. Jessie è il femminino che deve attraversare il dolore per approdare all'emancipazione. La neovedova Burlingame riconquista sé stessa, una Jessie padrona del proprio corpo e delle proprie scelte. Una metafora bella ed efficace, se non fosse poco credibile in un autore così maledettamente statunitense da essere a volte incontrollabilmente e forse inavvertitamente maschilista.

venerdì 1 novembre 2013

"Puerto Escondido" di Pino Cacucci

«Non l'ho mai sentita come una casa vera; le cianfrusaglie che ho accumulato alla rinfusa sono rimaste sempre in posizioni precarie, in attesa di qualcosa. Non c'è niente di indispensabile, qui dentro. Speravo di cambiare città per un motivo di lavoro, di innamoramento, di schifo per tutto, per un'occasione che forse non ho mai cercato sul serio. E magari sarei rimasto qui per sempre, a sopravvivere come ho fatto finora


L'anonimo protagonista trascina trascina la sua esistenza vuota e priva di stimoli in una Bologna asettica e inospitale, o almeno percepita come tale da quello che si autodefinisce «un disadattato» invidioso dei giovani che riescono ad essere (o apparire) felici. Ha una house ma non una home: si limita ad una sopravvivenza fisiologica. Inserito in modo maldestro e superficiale nella società, privo di legami affettivi e
scopi esistenziali, il protagonista che Cacucci mantiene (con un tocco di classe e una perfetta coerenza) nell'anonimato vive in uno stato di scontentezza cronica e solitudine. Le sue pulsioni più umane, ambizioni e sentimenti, sono come anestetizzate.
A scuotere la sua vita scialba e insignificante è il commissario Schiassi, un personaggio controverso, sanguinario ma estremamente bisognoso di affetto, praticamente folle, in ultima analisi assolutamente amabile. Prima cerca di assassinare il protagonista, poi si convince di aver trovato in lui il proprio unico amico e si salda alle sue costole. Proprio per sfuggire all'affetto del bizzarro commissario dal grilletto facile, il protagonista fugge alla volta dell'isola d'Elba.
Sulla sua strada incrocia Aivly, una donna misteriosa e intrigante che prima affascina il giovane fuggitivo e poi si richiude nella propria stranezza e nei suoi loschi affari. Il fulmineo e intenso innamoramento del protagonista è raccontato in un modo molto femminile: interiore, delicato, sofferto, come il relativo (brusco) allontanamento di lei.

«C'è stato un momento in cui forse ha smesso di fingere. Non so quanto sia durato, ricordo solo quella sensazione di naturalezza più forte dei nostri nervi contorti. La guardo di spalle, ripercorro la sua pelle, e mi cresce dentro una desolazione infinita, un bisogno di afferrarti e scuoterti e urlarti perché adesso sei così diversa.»


Prima catturato e ammanettato nella cabina di una barca, poi liberato (in maniera molto piratesca) in vista di una costa, il protagonista finisce innamorato e abbandonato, squattrinato e disorientato a Barcellona. Lì incontra altri giovani, figli come lui di una generazione smarrita e triste, che si stordisce nell'alcol e nella droga per rifuggire il senso di vuotezza, inadeguatezza, solitudine. Bazzica i locali più alternativi, resta coinvolto in zuffe, si fa di tutte le droghe che gli passino a tiro, si avvicina a Pill, punk nerovestita che si occupa di lettering e non ha mai fame. Arriva a pensare di fermarsi, almeno per un po'. L'illusione di aver trovato un senso e una casa vengono frantumate dall'arrivo sorprendente di Schiassi che spinge il protagonista ad una nuova fuga. Così, tra scambi di persona, viaggi esasperanti avventure contorte, il protagonista arriva in Messico.
Lì trova un «sole che carbonizza i capelli e fa colare il cervello dal naso», il compaesano Elio che prima lo deruba e poi lo coinvolge nel narcotraffico, ma soprattutto trova «un senso di vastità che in Europa si è estinto nella memoria genetica da almeno dieci generazioni».
A Puerto Escondido, meta di surfisti e di criminali, tra viaggi su una «corriera tenuta assieme coi miracoli», sparatorie, roghi di marijuana, tejónes e altri animali sconosciuti all'Europa, poliziotti-criminali, furti (subiti e compiuti), il protagonista trova nuovi amici e ritrova vecchie conoscenze. Forse è la sua destinazione finale, forse non può esserlo perché la ricerca di un senso è destinata a rimanere insoddisfatta. Di sicuro è la tappa di un'avventura dentro sé stesso e la vita messicana, coi suoi ritmi distanti dalla frenesia europea, è il nuovo paio di lenti con cui guardare a una vita rinnovata. 
"Puerto Escondido" non è uno spuntino, né un pasto ordinario, ma una colossale abbuffata che lascia un po' intontiti ma estremamente soddisfatti. È un libro estremamente accurato, brillante, caleidoscopico, ricco, divertente, trascinante. Ha uno spirito meravigliosamente interculturale, un sapore gustosamente picaresco. Cacucci è così dettagliato e documentato da far apparire verosimile una storia del tutto extra-ordinaria (sebbene ispirata ad un personaggio realmente vissuto, il veronese Claudio Conti). "Puerto Escondido" regala un'intensa voglia di viaggiare, di fuggire, di cercare, di innamorarsi, di farsi di peyote, di sfidare l'autorità. Il protagonista è così umano, così imperfetto, così disperatamente alla ricerca del suo posto nel mondo da farsi amare, da diventare un autentico amico dal quale non si vorrebbe più essere lasciati.
Un libro incredibile, variopinto e soddisfacente come pochi.

Nel 1992 Gabriele Salvatores ne ha tratto un bel film,
alquanto infedele alla lettera del libro ma altrettanto
fedele al suo spirito e alle sua suggestione.
Il protagonista (con il nome di Mario Tozzi) è interpretato
da Diego Abatantuono. Valerio Golino è Anita (Aivly)
e Claudio Bisio interpreta il bandito Alex (il
malinconico Elio del libro). Renato Carpentieri
interpreta il commissario Viola (lo squilibrato e adorabile Schiassi).

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