venerdì 13 febbraio 2015

Sul carattere affermativo della cultura, Herbert Marcuse

«C’è voluta un’educazione secolare per rendere tollerabile quel grande shock che si riproduce ogni giorno: da una parte la predica continua sulla inalienabilità, libertà, grandezza e dignità della persona, sulla magnificenza e sull'autonomia della ragione, sulla bontà dell’humanitas e di quell'amore per gli uomini e di quella giustizia che non fanno distinzione; dall’altra l’umiliazione della più grande parte dell’umanità, l’irrazionalità della vita sociale, a vittoria del mercato di lavoro sull’humanitas, del profitto sull'amore per gli uomini.»

In questo saggio del 1937, il filosofo Herbert Marcuse elabora una critica della cultura borghese, la quale ha come nucleo e luogo fondamentale l’anima e la sfera spirituale dell’individuo. Ripercorrendo brevemente la storia della cultura occidentale, da Aristotele fino alla cultura dello Stato autoritario, Marcuse cerca di dimostrare come tale storia sia caratterizzata dalla progressiva esclusione della felicità dalla sfera del pensiero razionale, come quest’ideale sia stato relegato e conservato unicamente nella dimensione artistica, dando all'arte borghese un carattere ambiguo e antinomico: da un lato, l’arte è l’unico luogo in cui le passioni e i bisogni vitali dell’uomo, repressi dal sistema capitalistico in cui tutto viene ridotto a merce di scambio, continuano ad esistere sotto forma di nostalgia per una società diversa, per un mondo migliore; ma d’altro canto, essendo l’ambito dell’arte limitato, alienato rispetto alle esigenze materiali dell’individuo, l’arte isola l’idea della felicità dal sistema in cui tale felicità dovrebbe effettivamente realizzarsi, proiettandola in un mondo spirituale ed individuale. Tale alienazione dell’arte dall'organizzazione capitalistica della società, porta l’arte, potenzialmente rivoluzionaria, a divenire mera consolazione, promessa di un attimo di felicità che può darsi anche in un mondo terribilmente ingiusto ed infelice.
Seguendo le tappe delineate da Marcuse, cercheremo di tracciare i punti salienti della sua utopia: per Marcuse la cultura deve guardare ai bisogni dell’uomo, alle sue passioni, ai suoi sogni, e non relegare questi ideali in un mondo altro rispetto a quello materiale, economico e sociale in cui l’arte sorge. La cultura, l’arte, per Marcuse sono indissolubilmente legate alla critica e alla prassi politica: proprio perché l’arte ci prospetta un mondo diverso, in cui il bello, il vero e il bene trionfano sotto la luce della felicità, questa deve irrompere nella società per denunciarne gli aspetti ingiusti e irrazionali, per coglierne l’orrore.
«Con la filosofia aristotelica la teoria antica arriva proprio al punto in cui l’idealismo ammaina la bandiera di fronte alle contraddizioni sociali e fa di queste contraddizioni stati di cose ontologici».

Aristotele è, secondo Marcuse, il primo filosofo che opera la separazione di teoria e prassi, che porterà allo sviluppo della cultura affermativa borghese. In Platone le idee costituivano un mondo lontano dalla realtà empirica, ma allo stesso tempo, proprio per questa lontananza costituivano un primo punto di partenza critico nei confronti della realtà, e proprio in base alle idee, era possibile elaborare una prassi e un’utopia che riformasse il sistema politico vigente. In Aristotele, più “realista” rispetto a Platone, la teoria che contempla il Bello e il Bene si separa da tutte le attività che hanno come obiettivo il conseguimento dell’utile. Questo perché l’utile si consegue nel mondo materiale, e in questo mondo non tutto dipende dalle capacità dell'uomo, ma il caso gioca un ruolo fondamentale. Perseguendo l’utile, l’uomo si rende schiavo di forze esteriori, contraddittorie e prevedibili. Tale distinzione duplica sul piano teorico una distinzione sociale: la contemplazione, la teoria sono occupazioni peculiari del ceto dominante, di coloro che per vivere non hanno bisogno di provvedere ai propri bisogni materiali, perché c'è un ceto inferiore che provvede per loro.
Questa è la prima frattura tra il pensiero e le esigenze materiali dell’uomo, che sarà portata ai massimi livelli di astrazione dalla cultura borghese, che Marcuse chiama, appunto, cultura affermativa. Possiamo dare due definizioni di cultura: per cultura si può intendere l’insieme della vita sociale, che comprende ogni forma di riproduzione spirituale e materiale, considerate storicamente; oppure si può intendere esclusivamente l’insieme delle riproduzioni spirituali. In questo senso, cultura si contrappone a civiltà, come lo spirito si contrappone alla materia. La cultura affermativa borghese fa propria questa seconda definizione, contrapponendo radicalmente la produzione spirituale dell’individuo al sistema economico e sociale in cui l’individuo è inserito.
L’economia caratteristica della società borghese è quella di mercato: nel mercato abbiamo la massima astrazione delle merci e della forza lavoro, il soffocamento di tutte le differenze qualitative in virtù dell’uguaglianza data dal valore di scambio. Una volta abolite le differenze cetuali proprie del sistema feudale, la borghesia instaura un nuovo regime di “uguaglianza”: tale uguaglianza è esclusivamente formale. Si serve di nozioni universali, quale quella di “diritti dell’uomo” per chiamare a sé anche i ceti inferiori, dei quali la borghesia aveva bisogno per poter portare avanti la sua rivoluzione. Una volta instaurato il nuovo potere, la borghesia utilizza gli ideali universali ideologicamente, come schema che si sovrappone alle disuguaglianze reali, alla miseria e allo sfruttamento.
Questa l’origine dei valori universali borghesi, rispecchiamento ideologico dell’economia di mercato. Tuttavia, sembra esserci una zona franca che ha resistito alla reificazione: l’anima. L'anima è quella sostanza intermedia tra lo spirito e la materia, in cui risiedono le passioni dell'uomo: è il luogo inviolabile, inalienabile, in cui bellezza e felicità trionfano. Ma proprio per questo suo carattere di oasi nel deserto della reificazione, il concetto di anima è pericolosamente vicino all’ideologia dominante. Rinchiudendo l’esigenza di libertà, di verità, di bellezza, di felicità, in una parte recondita e ineffabile dell’essere umano, diventa luogo di rassegnazione rispetto allo stato di cose: la fatica, il lavoro, le disuguaglianze sono aspetti che riguardano la materialità, dunque necessari. L’uomo è rassegnato nel mondo materiale e sociale, ma è fiero nel mondo spirituale: ciò significa affermare che l’uomo può essere libero in un mondo di schiavi, che gode di una dignità universale e inalienabile anche nel momento in cui questa viene schiacciata e umiliata, può ambire alla felicità, ma solo se dispone se stesso ad essere felice nei termini imposti dal sistema sociale. La promessa di felicità, che un tempo apparteneva alla cultura nel suo insieme, viene relegata nell’ambito artistico, come premio di consolazione, come illusione per gli schiavi del sistema borghese. La filosofia si disinteressa degli aspetti materiali, della ricerca della felicità e di un’esistenza piena; la religione rimanda all’al di là una felicità che dovrebbe essere realizzata qui ed ora. Per la cultura borghese, i cui pilastri fondamentali sono economia di scambio e ragione strumentale, la ricerca della bellezza e della felicità al di fuori della dimensione artistica, è un atto sovversivo. L’uomo viene spinto dall’ideologia a sacrificarsi. Egli è libero, non è mai un mezzo ma sempre un fine: perciò deve decidere volontariamente di vendere la propria forza lavoro, perché il suo corpo non può essere venduto come merce. Se l’uomo vende la propria forza lavoro è probo ed integro, se vende il proprio corpo è una prostituta: questo ironico paragone fatto da Marcuse mette in evidenza le contraddizioni cui portano le astrazioni dell’ideologia borghese.
La cultura affermativa riconosce le esigenze dell’uomo ridotto a merce, sa che i suoi bisogni non vengono soddisfatti dal sistema ingiusto e repressivo, e proprio per questo, crea dei paradisi artificiali di soddisfazione, nei quali l’uomo può rifugiarsi dalle sue frustrazioni.

«L’uomo non vive di solo pane: di questa verità non ci si può affatto sbarazzare falsandone il significato, come se il nutrimento dell’anima fosse un surrogato sufficiente per il troppo poco pane.»

Con la fine dell’economia di scambio tipica del periodo liberale del capitalismo, la quale si reggeva sostanzialmente sulla libera iniziativa degli individui, si sviluppa una nuova forma di capitalismo, quella monopolistica, che presenta nuove esigenze alle quali la cultura affermativa deve rispondere. Lo sviluppo dell’economia monopolistica esige la repressione degli interessi individuali, esige una “mobilitazione totale”: la sottomissione della libertà d’impresa ai grandi cartelli industriali implica una sottomissione dell’opinione pubblica borghese ad un’unica ideologia dominante ed una cultura che esalti la collettività, l’interesse di un “popolo” piuttosto che quello dell’individuo. Da qui la nascita degli stati totalitari e l’elaborazione di una nuova cultura affermativa, che non si fonda più sulla libertà dell’individuo, ma sul sacrificio di quest'ultimo in nome del “popolo”, della “razza”, del “sangue”. La cultura degli stati totalitari, il cosiddetto “realismo eroico” è completamente diverso dall'idealismo borghese, ma si inserisce nel comune intento di creare un’ideologia che spinga gli individui all'accettazione rassegnata del sacrificio, dell’obbedienza, che spinga gli uomini alla rassegnazione. Anche in questo caso le esigenze materiali degli individui vengono completamente oppresse e sacrificate.
È possibile un superamento della dimensione affermativa della cultura?
«Dal punto di vista dell’interesse dell’ordine esistente, un superamento reale della cultura affermativa non può che apparire come utopico, perché questo superamento è al di là dell'insieme sociale con cui la cultura è stata finora unita.»

L’unica forma di inclusione degli interessi materiali nella cultura si è concretamente data nella società di massa, come mercificazione della cultura stessa e come sottomissione dei suoi ideali all’unico principio egemone, quello dell’utile. Per tali ragioni, l’idealismo borghese costituisce una fase più felice della cultura, rispetto a quella della società di massa.
Il superamento della cultura affermativa è perciò intimamente legato ad una trasformazione reale della società: soltanto quando si sarà instaurato un sistema giusto ed equo si potrà pensare alla fine della cultura affermativa, e forse, alla fine della cultura in quanto tale, almeno nella forma in cui l’abbiamo fino ad ora conosciuta.
Come ben riconosce Marcuse, tale utopia può essere identificata con il cliché del “paese della cuccagna”: il mondo come immenso paese dei balocchi in cui gli uomini non vengono puniti per aver seguito i propri istinti, per essersi dedicati al piacere. Ma meglio questo cliché che non l’ideale della felicità interiore, della fierezza individuale che si inchina al volere dei più forti; meglio il paese della cuccagna che non il terribile sogno del dominio di un popolo su tutti gli altri. Una cultura diversa, che voglia uscire dalla logica della cultura affermativa, in questo stato di cose, può solo essere utopica, infierire nel dolore degli uomini piuttosto che lenirlo. Come sosteneva Nietzsche, l’intellettuale autenticamente critico deve essere animato dalla malvagità: mostrare la crudeltà del mondo esistente è l’unica via che la cultura ha per prospettare un mondo migliore, per dare avvio ad un cambiamento della società. Non dev'essere un farmaco che ci dà assuefazione per farci tollerare un’esistenza intollerabile, ma deve, al contrario, colpirci con l’immagine della crudeltà e dell’orrore che caratterizzano un mondo fatto di ingiustizie e soprusi. Una cultura che cerca di essere critica deve toccare e far emergere il dolore che vive dentro di noi, e farci comprendere le cause storiche, sociali, materiali della sofferenza, piuttosto che prospettare la felicità in un al di là irraggiungibile, che sia il paradiso o il singolo individuo, condannandoci ad una profonda rassegnazione.
«Finché esisterà la caducità, ci sarà abbastanza lotta, cordoglio e dolore da distruggere l'immagine idillica; finché esisterà un regno della necessità, ci sarà abbastanza miseria. Anche una cultura non affermativa sarà gravata dal peso della caducità e della necessità: una danza sul vulcano, un riso triste, un gioco con la morte».
  • Il presente saggio è inserito nella raccolta: Marcuse, Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, Torino, Einaudi, 1969

"Century of birthing": le visioni interminabili di Lav Diaz

«Ricorderemo il mondo per il cinema.»


Siglo ng pagluluwal, meglio noto fuori dalle Filippine come Century of birthing: la nascita è il macrotema che si dipana lungo sei ore, eteree e luminosissime, di bianco e nero. Due filoni narrativi, che poi sono la stessa storia, abbozzano con una china sottilissima tre disegni, tre forme diverse ed identiche della nascita. È un inno alla poiesi in ogni sua declinazione, al miracolo uno e trino, pienamente umano, della creazione.
Incontriamo il racconto del "twist" originario, il tornado primordiale che ha innescato il Big Bang: la creazione dall'informe, la fondazione dell'Essere del mondo. Lo racconta un predicatore paffuto ed esagitato, evidentemente un millantatore, che appartiene alla Casa di Padre Tiburcio (nome che, per una felice coincidenza, può rimandare ad un racconto nostrano sulla superstizione, il nome della strega Tiburzia di Brancaleone alle crociate), una chiesa isolata e folle che impone alle sue ragazze la verginità e uno stile di vita monacale. Se il messaggio è ridicolizzato dal suo portatore (il fotografo che deve subire il predicozzo sdrammatizza, alla ripetuta parola "twist", accennando qualche passo di danza che fa incazzare alquanto il sant'uomo), dall'ossessivo ed inutile ritornello che i fedeli non fanno che salmodiare, il riferimento all'Essere concreto, materiale del mondo è serio.
Incontriamo poi la vergine (l'ex-vergine) espulsa dalla Casa in seguito a uno stupro, che diventa portatrice della "birthing" del titolo: senza volontà, solo per essere stata parte del "tornado più antico del mondo", l'abbraccio tra la donna e l'uomo che genera la vita. Un'altra piccola creazione.
Infine, incontriamo Homer, il regista protagonista, l'alter-ego di Lav Diaz: e non credo che porti per caso il nome del narratore per antonomasia, il più grande creatore di storie della nostra cultura (che la violenza occidentale ha imposto a tutto il mondo).
I tre disegni coincidono se messi in controluce. Il regista/artista è un narratore, è l'Omero che racconta le Odissee delle esperienze umane e le Iliadi dei percorsi storici, dal galeotto che cerca redenzione alla suora che cerca un'esperienza sessuale che la faccia sentire pienamente umana, alla storia delle Filippine martoriate costantemente sullo sfondo. Ma è anche il demiurgo, il Dio che crea i suoi universi da narrare: non si limita a riprodurre storie, ma le immagina, le anima, le produce (e questo è vero soprattutto per Lav Diaz, che dei propri film è sceneggiatore, regista, montatore e produttore). E infine è madre, perché trae la novità e la vita dal suo corpo, dalla sua carne, senza la possibilità di seminare e abbandonare: segue la gestazione del proprio creato/film/feto dall'istante del concepimento/intuizione/ispirazione al parto doloroso, nutrendo il processo con la propria energia anche fisica, fino a perdere il senno. Così la vergine stuprata diventa folle e si aggira per i campi agitando un ramoscello, urlando disperata "Arrivano i Giapponesi!", terrorizzata da quell'occupazione che ebbe luogo durante la Seconda Guerra Mondiale e che è troppo giovane per aver vissuto. Il regista la incontra, la prende per mano senza conoscerla, e insieme i due intonano il ritornello ossessivo: folli. E il parto, la creazione, la scintilla geniale dell'umano ingegno, scaturisce proprio dal turbinio fecondo della follia.
La scena del regista e del suo amico seduti a un tavolino, davanti ad una telecamera accesa, è semplice teoria del logos cinematografico. La pellicola e il file sono la casa dell'essere. Century of birthing è un manifesto: «Sto ancora cercando il cinema», Lav Diaz fa dire a Homer, ma la ricerca non è una immobile contemplazione, è una prassi. Dice ancora, dopo aver negato di poter circoscrivere verbalmente il cinema, di poterlo relegare nel regno delle parole: «Il cinema è la prassi. Il cinema è la mia ideologia.» E la sua natura è così distante dalla glorie passeggere e dai successi di botteghino da non avere davvero nulla a che spartirci: «Io non faccio film per i festival. Io faccio film per il cinema» dice Homer al telefono con un amico francese che cerca di imporgli una scadenza per partecipare alla manifestazione. E non ci stupisce riconoscere in Homer le tracce di Lav Diaz, unico possessore dei propri film e deciso propugnatore della loro libera circolazione in rete.
Homer/Diaz non può spiegare cosa sia il cinema, può solo farlo: il logos può essere vanamente sviscerato nel tentativo di spiegarlo (di togliergli le pieghe) oppure può incarnarsi nell'azione registica o artistica in generale. Il cinema non è parola vuota, maschera narrativa, sterile salmo pronunciato e ripetuto: è Essere. 
Homer/Diaz cita Heidegger, la sua domanda-pilastro: cosa sia l'essere.
«Being?», chiede. Il suo interlocutore gli risponde: «Art is being.»
Il cinema non riproduce l'essere, ma lo produce (lo è). Ha dignità autonoma, è più Creazione che Rivelazione, e meno ancora riproduzione del reale, umile racconto di ciò che è. E si disegna intorno il circolo di un culto, l'unico che possa essere praticato da un essere che ragiona. Mentre la setta di Padre Tiburcio è follia sterile (ripetitiva, non crea ma riproduce): la donna può farsi madre solo quando rinuncia a essere vergine (o è costretta a farlo). Quello del cinefilo, del regista, dal fruitore di cinema è un culto trasparente, che si avvita attorno all'Essere, che inneggia alla produzione (nel senso non economico del termine, ovviamente), alla nascita dell'arte/essere. Invece il culto fanatico che informa la Casa di Padre Tiburcio è tutt'altro che fecondo. «Padre Tiburcio è la verità. La Casa è la verità!» afferma con ottusa sicurezza una delle ragazze, e le sue parole sono gravate da tutta la pericolosità autoritaria di un dogma, che ha la sua forza nel tono affermativo e nel bando del punto di domanda, della feconda e produttiva incertezza (che invece anima Homer). Infatti è puntuale la risposta del fotografo: «Usa la tua testa! [...] Tutte le atrocità a cui assistiamo oggi sono la conseguenza dell'estremismo e del fondamentalismo. Il fondamentalismo e l'estremismo distruggeranno il mondo».
Mentre al regista/artista, alla terza persona della trinità creatrice, spetta il compito di costruirlo, di dargli forma. E l'interlocutore di Homer nella scena del tavolino esorta un po' lui, un po' Diaz, un po' tutti gli artisti ad andare avanti nonostante le difficoltà e le incomprensioni, di avere l'audacia di spremersi nella fatica del parto universale.
  
 «Questa è la parola più abusata nell'arte. Sei presuntuoso se sei provocatorio. Sei presuntuoso se sei un radicale. Sei presuntuoso se sei un rivoluzionario. Sei presuntuoso se sei orgoglioso. Sei presuntuoso se sei modesto. Sei presuntuoso se sei fico. Sei presuntuoso se sei fuori moda. Sei presuntuoso se sei di sinistra. Sei presuntuoso se sei di destra. Sei presuntuoso se sei zen. Sei presuntuoso se sei un cristiano rinato. Sei presuntuoso se sei un artista. Amico, quella parola non ha più posto nell'arte!»

martedì 3 febbraio 2015

"Sbatti il mostro in prima pagina": il lato oscuro del Quarto Potere

Sbattere il mostro in prima pagina, nei primi servizi di un telegiornale, perfino nelle slide alle spalle della Panicucci o della D'Urso nei loro stucchevoli salotti televisivi: un'esigenza più che mai diffusa, solo apparentemente morbosa (almeno all'origine) ma invece lucidissima e funzionale, un meccanismo chiave del processo di manipolazione dell'opinione pubblica, ingranaggio fondamentale della grande macchina del consenso.
Già nel 1972 Marco Bellocchio ci mostrava il comodo funzionamento del perverso meccanismo, tuttora funzionante come un orologio e ancora, sempre pericoloso, in un film amarissimo e direi fotografico. Una giovinetta di buona famiglia, di cui viene esaltata la virginale innocenza, viene condotta in una zona isolata e lì strangolata. Rita Zigai (interpretata da Laura Betti, l'indimenticata Regina di Novecento) è una professoressa di scuola: non più giovanissima, sola, esaltata, invano innamorata di un militante della sinistra extraparlamentare, insinua che sia stato proprio lui ad assassinare la ragazza, con la quale aveva una relazione. La soluzione del caso, del tutto da verificarsi eppure comodissima e

perciò preziosa, viene sfruttata al volo da Giancarlo Bizanti (Gian Maria Volontè), direttore della testata Il Giornale (quella omonima, reale, sarà fondata da Indro Montanelli solo due anni più tardi). Il sovversivo, l'estremista rosso, diventa il mostro da sbattere sulla prima pagina, in faccia ad un'opinione pubblica che in piena campagna elettorale non potrà che rifugiarsi tra le rassicuranti braccia della Democrazia Cristiana. E poco importa che, alla fine, si scopra l'innocenza del giovane militante. L'ingegner Montelli (ricco industriale, finanziatore dei gruppi di estrema destra) indirizza il direttore del giornale su ciò che sia opportuno pubblicare e cosa vada limato e ritoccato prima di essere gettato nella mangiatoia degli impressionabili lettori: l'innocenza del presunto "mostro" sarà, eventualmente, resa pubblica dopo le elezioni, quando la sua costruita colpevolezza avrà esaurito il suo ruolo politico.
Voglio rubare qualche battuta da una scena magistrale, che può assurgere a manifesto del film. Parla il direttore Bizanti.

- Chi è il nostro lettore? Un uomo tranquillo, onesto, amante dell'ordine, che lavora, produce, crea reddito. Ma è anche un uomo stanco, Roveda, scoglionato. I suoi figli invece di andare a scuola fanno la guerriglia per le strade di Milano, i suoi operai sono sempre più prepotenti, il governo non c'è, il Paese è nel caos. Apre il giornale per trovare una parola serena, equilibrata, e cosa ci trova? Il tuo pezzo, Roveda.
Ho copiato parola per parola il tuo occhiello e il tuo titolo:
Disperato gesto di un disoccupato. Si brucia vivo padre di cinque figli. Ora, io non sono Umberto Eco e non voglio farti una lezione di semantica applicata all'informazione, ma mi pare evidente che la parola disperato è gonfia di valori polemici. Se poi me la unisci alla parola disoccupato... Disperato, disoccupato... Beh, allora ci troviamo di fronte a una vera e propria provocazione, compiuta la quale tu prendi questo pover'uomo di lettore e gli sbatti in faccia cinque orfani e un cadavere carbonizzato. No, dico, cosa vogliamo farne di questo pover'uomo di lettore, un nevrotico? Gli ha forse dato fuoco lui?
Vogliamo vedere di rifare insieme questo titolo? Può capitare a tutti di sbagliare, no? Scrivi:
drammatico suicidio. Drammatico suicidio, due parole. Di... cos'è, un Calabrese? Ecco, di un immigrato, immigrato, una parola sola che contiene implicitamente il disoccupato e il padre di cinque figli ma dà anche un'informazione in più.
- Certo.
- Il succo della notizia, la sintesi. Il lettore apre il giornale, guarda, se gli va legge, se non gli va tira via, ma senza avere la sensazione che gli vogliamo rompere i coglioni, senza sentirsi lui responsabile di tutti i morti che ci sono ogni giorno nel mondo.
Comunque il pezzo è eccellente. Sì, magari c'è qualche parolina in più, qualche aggettivo da limare, per esempio quel
licenziato...
- Rimasto senza lavoro?
-
Rimasto senza lavoro, bravo. Dacci dentro Roveda, che la stoffa c'è.

Ricorda l'antica storiella persiana sul modo di dire le cose: il califfo vuole l'interpretazione di un sogno in cui perde tutti i denti, fa decapitare il saggio che gli annuncia la morte di tutti i suoi parenti ma fa coprire d'oro quello che gli annuncia che avrà una vita lunga, così lunga da morire per ultimo nella sua famiglia. Solo che nella storiella l'ingannato è il potente, il più forte: una delle infinite variazioni del piccolo e povero astuto che mette nel sacco il suo oppressore. Mentre nell'amaro film di Bellocchio, come nella realtà, è il potente a manipolare le parole e l'informazione per mettere nel sacco il piccolo e povero che forse tanto astuto non è.
Sì, perché il contenuto e il tenore delle notizie è manipolato dal direttore del giornale, ma lui stesso fa poco più che obbedire al ricco industriale che al telefono gli detta quasi parola per parola la notizia da mettere in risalto. Solo superficialmente, quasi incidentalmente, Il Giornale borghese e conservatore di Bizanti si preoccupa di incontrare le aspettative del suo lettore medio: la sua funzione primaria ed esplicita è politica. Ad ammazzare la studentessa non è stato un giovane, un amante, un esaltato, un violento, ma un estremista di sinistra. Un po' come oggi i criminali non sono mai pirati della strada, rapinatori, picconatori, stupratori, ma sempre rumeni, musulmani o il sempre comodo extracomunitari (termine che però i media non hanno mai applicato ad Amanda Knox, statunitense e perciò, appunto, extracomunitaria).
Il film di Bellocchio mostra chiaramente la magagna dell'apparato mass-mediatico: la sua combutta col potere politico, con l'ingegner Montelli che finanzia i fascistelli e fatica a far passare sotto silenzio le accuse, domando contemporaneamente i suoi operai, con l'industriale che da una vittoria elettorale dei comunisti riceverebbe solo noie (e belle grosse). La stampa come la televisione, quegli strumenti del Quarto Potere che non si riesce a tenere montesquianamente separato dagli altri tre, non può farsi altro che portavoce dei potenti, della minoranza chiassosa e prepotente che mutila la possibilità di una informazione autentica.
Non è una critica nuova (e allo stesso tempo non è ancora vecchia): già gli autori della Scuola di Francoforte guardavano con scetticismo a quei mass media che hanno l'ambiguo potere di comunicare con ciascun cittadino ma in modo univoco e perentorio, perché la fonte della comunicazione non è la massa stessa ma un vertice ristretto e potente, perfettamente integrato con i meccanismi repressivi e manipolatori della società industrializzata e consumistica, anzi, di essi conservatore e unico beneficiario.
Non occorre essere dei complottisti per mantenere un atteggiamento guardingo di fronte ai mass media. Una bussola striminzita ma efficace rimane la vecchia formula: Cui bono? A chi giova la versione che i media propongono di un evento, l'enfatizzazione di una notizia piuttosto che di un'altra, la scelta di drammatico suicidio di un immigrato piuttosto che di gesto disperato di un disoccupato?
Una chicca d'epoca, emblema dell'informazione libera: chi potrà dimenticare gli smaglianti sorrisi di Berlusconi alle spalle di Emilio Fede, alternati con le orribili smorfie di Prodi, fotografato sempre durante sbadigli, starnuti o con le immancabili labbra serrate "a culo di gallina"?
Poi, certo, c'è chi è più subdolo e chi più grottesco. C'è la nostra scelta libera sulla Mediaset, che non trasmette che commedie instupidenti, serie televisive americane e programmi spazzatura, in cui si passa con nonchalance dalle nudità di Cecilia Rodriguez all'omicidio del piccolo Loris (attenzione alla madre perché può rifarlo). E c'è anche molto altro. Se una cosa di buono ha scritto Maurizio Ferraris, è l'osservazione su quel perverso meccanismo per cui spesso si sente dire "è vero, l'ha detto la televisione": quella totale fiducia infantile in ciò che ci viene detto, quel paternalistico demandare ad altri la nostra opinione, quell'incosciente professione di acriticità che ci trasforma in pupazzi astensionisti o votanti quel che altri decidono. Ed è mostruoso e significativo che Bizanti, nel film di Bellocchio, citi Goebbels: in fondo, le masse sono molto primitive. Basta poco per inculcare loro ciò che si vuole. E lo stesso Goebbels ha mostrato quanto fosse vero.
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...