sabato 12 novembre 2016

"Aelita" di Protazanov: comunisti su Marte!

Mancano tre anni all'apparizione in cartellone di "Metropolis", il kolossal fantascientifico per antonomasia dell'epoca del muto, quando viene proiettato per la prima volta "Aelita". Guardando il film sovietico sulla regina di Marte non può non venire in mente il "capolavoro" di Fritz Lang: per la figura femminile, carismatica e inquietante, per i costumi finto-egizi (o simil "Grande Babilonia"), per la grandiosità della messinscena, per l'angosciosa geometria delle rappresentazioni urbane e degli spigolosi arredi interni.
Sono trascorsi già alcuni anni dalla rivoluzione bolscevica dell'ottobre 1917, eppure "Aelita" non sembra portarne le tracce, salvo per le peculiari (e tecnicamente magistrali) caratteristiche del montaggio. Il film fantascientifico si colloca infatti nel 1924, lo stesso anno de "Il cineocchio" di Vertov e di "Sciopero!" dell'immenso Ėjzenštejn, ma è a entrambi imparagonabile, e difficilmente collocabile nei grandi filoni cinematografici del periodo. Le avanguardie culturali e artistiche sovietiche hanno già intrapreso la rivoluzione cinematografica, formale ma soprattutto teorica, che però non è giunta ancora a completa maturazione. A cavallo tra 1923 e 1924, vengono introdotte in Unione Sovietica le macchina da presa portatili senza treppiede, che spalancano nuovi orizzonti creativi ed esecutivi, mentre è già stato profondamente rinnovato il montaggio, nel suo aspetto tecnico-estetico come nella sua portata filosofico-politica. In "Aelita" vediamo una dimostrazione del "montaggio parallelo a contrasto", lo stesso che in "La fine di San Pietroburgo" di quattro anni più tardi spiega con una serrata alternanza di immagini l'essenza della guerra imperialista: soldati che cadono, azioni che salgono, feriti che strisciano, azionisti che comprano.
La portata innovativa di "Aelita" risiede dunque tutta nella sua struttura tecnica, più che formale, e nella grandiosità dell'apparato visivo "da botteghino" (oltre, banalmente, alla trama: è il primo film fantascientifico prodotto dall'URSS). Ma tolta la qualità materiale del prodotto, e tolto il suo valore storico-documentale, di "Aelita" non resta molto. Siamo lontanissimi dai capolavori del cinema "concettuale" sovietico, dalla teorizzazione del "senso cinematografico del mondo", del "vedo!" innovativo sul piano estetico-formale e sul piano storico-sociale capace di rendere il cinema sovietico una delle quattro più grandi scuole cinematografiche della storia.
Addirittura, a tratti "Aelita" ha un sapore quasi (mi si conceda il termine) "controrivoluzionario": l'immagine risente ancora molto della recitazione teatrale, soprattutto nelle scene al chiuso, che risultano molto cariche sulle espressioni facciali, sull'esasperata gestualità, sul trucco, e restituiscono un sapore espressionista; lo scenario, invece, non si discosta dalle tradizionali caratteristiche prerivoluzionarie. Los, sua moglie e la regina di Marte Aelita (che a tratti si sovrappongono in questa sorta di sogno/incubo "fantasentimentale") sono parte di un cast molto tradizionale, lontano dai "tipi" e dagli eroi-massa tipici del miglior cinema sovietico. D'altronde molto peso è conferito alla trama-narrazione, altro elemento, a rigore, "controrivoluzionario", nella misura in cui corrisponde ad una concezione individualistica del cinema e, soprattutto, alla finalità meramente ricreativa della proiezione. "Aelita" rientra, in una parola, in quel filone di film che oggi domina in maniera pressoché esclusiva (specie nel "mainstream"): quello della "fuga", della distrazione fine a se stessa, dell'assenza di ogni stimolo sociale e ideologico ("assenza" che, come i cinepanettoni ci hanno insegnato, si traduce normalmente nella "presenza" di una veste ideologica conservatrice).


La parentesi prossima al finale (sentimentale) del film, quella in cui un soldato sovietico arrivato sul pianeta rosso cerca di rovesciare la monarchia di Aelita incoraggiando i suoi sudditi a istituire l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche di Marte, non smentisce la lettura "apolitica" del film, poiché risulta non solo forzosa e disomogenea rispetto alla trama, ma prende perfino le sembianze di un semplice spot celebrativo (chissà, forse finalizzato ad evitare le fondate accuse di "vuoto formalismo" che sarebbero potute arrivare).
Con "Aelita", il cinema sovietico si dimostra all'altezza delle più pompose produzioni occidentali, dei canoni tradizionali dei più riusciti "scenari emotivi" e insieme della novità rappresentata dagli elementi fantascientifici (le scenografie e i fondali hanno un sapore perfino futuristico, e richiamano alla memoria certi manifesti della Rosta firmati Majakovskij). Si dimostra, insomma, capace di precorrere i tempi e i modi del cinema, pure nelle sue forme meno "rivoluzionarie" e rappresentative.

venerdì 4 novembre 2016

AAA Cercasi. Il gioco linguistico degli annunci di lavoro

Una delle principali attività di noi giovani disoccupati – purtroppo siamo un gruppo ben nutrito – è quella di cercare un lavoro. Diversi sono i canali, le piattaforme di ricerca. Una delle principali è internet: numerosissimi sono i siti che pubblicano annunci di lavoro, e noi impieghiamo molto del nostro tempo a leggere le diverse offerte, cercando di capire se non sono delle truffe, se fanno al caso nostro, se abbiamo i requisiti per poterci candidare. Diverse sono le analisi e le valutazioni che facciamo nell’impegnativa, faticosa e tediosa lettura delle moltitudini di offerte e proposte che vagano per il web. In questo post vorrei tentare un tipo di analisi diversa: un’analisi del linguaggio degli annunci di lavoro, della terminologia, cercando di dare un senso complessivo a questo inafferrabile, liquido “gioco linguistico”. Navigando su internet ci imbattiamo in un’infinità di annunci diversi, che però a mio avviso presentano delle costanti. Isolerò alcuni dei sostantivi e degli aggettivi che mi sembrano particolarmente emblematici e di cui, con una veloce ricerca, potrete verificarne l’onnipresenza.

OFFERTA 1: Operatore telefonico. Requisiti:
  • -          Buone capacità relazionali e comunicative
  • -          Forte predisposizione a lavorare in team e al guadagno
  • -          Capacità di ascolto e di gestione del colloquio telefonico
  • -          Capacità di convincimento
  • -          Attitudini all’attività di vendita
  • -          Massima serietà
  • -          Solarità, dinamicità e tenacia


OFFERTA 2: Addetto alle vendite
  • -          Spiccate capacità relazionali e di leadership
  • -          Flessibilità
  • -          Predisposizione al lavoro in team
  • -          Attitudine al problem solving
  • -          Determinazione al raggiungimento degli obiettivi
  • -          Creatività
  • -          Orientamento al cliente
  • -          Doti organizzative e di pianificazione


OFFERTA 3: Risorse Umane
  • -          Familiarità con i più moderni supporti informatici
  • -          Propensione al lavoro in team
  • -          Precisione, professionalità, affidabilità
  • -          Riservatezza
  • -          Flessibilità, proattività, assertività
  • -          Ottima capacità relazionale
  • -          Livello inglese buono/autonomo


Provando a fare un’analisi di questi tre annunci , la prima cosa che mi colpisce è la loro sostanziale omogeneità: non soltanto per quanto riguarda il modello di scrittura utilizzato, il che è comprensibile, ma anche riguardo ai contenuti. Sono tre offerte diverse, che riguardano tre differenti lavori, eppure sono richieste più o meno le stesse “competenze”. Scrivo competenze tra virgolette perché non mi sembra che si richieda una determinata preparazione, quanto piuttosto determinati atteggiamenti psicologici: ad un operatore telefonico non si chiede la conoscenza della lingua italiana ( che ingenuamente mi sembra l’unica competenza di cui il candidato dovrebbe essere dotato), ma la “flessibilità”, la “capacità relazionale”, “solarità, dinamicità e tenacia”. Al venditore viene richiesta la capacità di “leadership” e all’addetto alle risorse umane viene richiesta la “proattività” e l’ “assertività”. Questi annunci non ti chiedono di saper fare alcune cose, ma di essere in un certo modo. Ti chiedono di aderire ad un modello comportamentale che è considerato adeguato alla mansione da svolgere. Un modello astratto, che vale per ogni lavoro, più o meno qualificato: prima di capire quali sono le tue competenze è importante capire se puoi essere ciò che noi ti chiediamo di essere.

Ma chi dobbiamo essere? Qual è il modello, il “tipo”, che emerge dagli aggettivi e dai sostantivi impiegati in questi annunci? Per tentare una risposta a questa domanda dobbiamo cercare di capire cosa questi vocaboli significano, a quale mondo, a quale contesto si riferiscono. Dobbiamo cercare di riportare queste parole fluttuanti e disincarnate al concreto mondo del lavoro, nella sua complessità e drammaticità. Cosa significa, ad esempio, “flessibilità”? Il termine flessibilità fa parte del lessico del mondo del lavoro da un po’ di tempo: in una società post-capitalistica o post-industriale il lavoro è diventato “flessibile” e dobbiamo accogliere questo cambiamento con realismo. Non è più possibile, si dice, svolgere il medesimo lavoro dalla maggiore età alla pensione, nella stessa azienda, con la stessa mansione. Bisogna essere “flessibili”! Adattarsi all’idea di cambiare lavoro, azienda, mansione, località di residenza. Essere “dinamici”, disposti a spostarci continuamente da un impiego all’altro, senza sosta, per tutta la vita. “Flessibilità” significa per i lavoratori incertezza, precarietà, impossibilità di accumulare esperienze, di crescere. Un continuo e frustrante dover ricominciare sempre daccapo. La flessibilità, per chi la subisce, altro non è che rassegnazione alla precarietà.

Questo lavoratore che non nutre alcuna premura per il tipo di contratto che gli viene proposto dal datore (il tipo flessibile) deve anche essere dotato di una personalità “assertiva”. Non sono una psicologa, quindi non mi addentrerò in una maldestra spiegazione delle caratteristiche di questo modello comportamentale. Voglio concentrarmi sul significato concreto che, a mio avviso, questo termine assume in un contesto lavorativo. Il giudizio assertorio è quello che attesta un dato di fatto: «È così» o «Non è così».  In un contesto lavorativo è dunque richiesto che il lavoratore sia in grado di affermare o negare determinati dati di fatto, che sia capace di convincere gli altri della veridicità delle sue asserzioni e che, partendo da queste, possa approntare determinate strategie (“proattività”, capacità di “problem solving”). Quale spazio riserva una personalità assertiva alle domande? Ai dubbi? Qual è il suo senso della possibilità? La sua capacità di giudizio etico o estetico?  Il datore non richiede queste “competenze”: non è necessario che il lavoratore sia incline a porsi dei dubbi, a formulare giudizi diversi da quelli assertori, a muovere delle critiche o sollevare delle obiezioni. Non sono richieste queste capacità razionali, o forse, è richiesto che non si sia dotati di tali capacità.

Nel 1955 Herbert Marcuse scriveva in Eros e Civiltà che il principio di realtà teorizzato da Freud si è trasformato, nella società di massa tecnologizzata, in principio di prestazione. Aderire al senso di realtà significa ignorare le proprie inclinazioni, reprimere il principio di piacere, per far sì che il comportamento adottato quotidianamente sia conforme a quello che la società ci chiede. Non sono ammesse personalità eccentriche, deboli, dubbiose, insicure, fantasiose perché tendono a disperdere le energie, a non incanalarle nell’obiettivo stabilito, mettendo in discussione l’obiettivo stesso.  Il principio di prestazione si concretizza negli annunci di lavoro, nei colloqui in cui ti chiedono «Quali sono le tue ambizioni?» - come se fosse scontato, se non d’obbligo, avere delle ambizioni – indagando la tua psiche, i tuoi desideri, piuttosto che le tue competenze. Il principio di prestazione ha organizzato il modello cui tutti dobbiamo aderire completamente, pena l’esclusione dal mondo del lavoro, con tutta la frustrazione e il senso di inadeguatezza che tale esclusione comporta.

Vorrei concludere questo post con una mia personale offerta di Non-lavoro, un umile invito a liberarsi dall'opprimente angoscia causata dal sacrificio ( di sé, del proprio tempo, delle proprie energie) che il lavoro richiede, a chi ce l'ha e a chi lo cerca. Un invito a dare sfogo a tutte le capacità e ai desideri che continuamente siamo costretti a soffocare. 

AAA Cercasi perdigiorno. Requisiti:
  • -          Inflessibilità
  • -          Assoluta ignoranza dell’inglese e del pacchetto Office
  • -          Senso di inadeguatezza
  • -          Incapacità di leadership
  • -          Immaginazione
  • -          Radicale tendenza al dubbio, alla domanda e alla critica
  • -          Dispersione delle proprie energie
  • -          Totale mancanza di senso della realtà





martedì 4 ottobre 2016

Produci consuma crepa: la (cosiddetta) vita di un'operaia-consumatrice

18 quadri della vita di una ragazza della fabbrica di conserve: il cortometraggio, diretto dalla regista ungherese Ágnes Kocsis, onestamente non è molto facile da reperire: 22 minuti che devi sudarti, e alla fine ti lasciano svuotato, amaramente divertito e rabbioso. Se riuscite a rimediarlo, guardatelo, ne vale la pena: questo post non ne sarà un riassunto esauriente, né vuole sembrare una vera recensione, ma contiene qualche mia considerazione peregrina.
Il tono emotivo dei 18 quadri non è una disperazione esplicita, ma un senso omogeneo e costante di stordimento, ottusità, carenza di senso. Tale vuoto ideale e vitale (se si prescinde dalla mera sopravvivenza materiale e dagli automatismi corporei quotidiani) si manifesta nell'espressione fenomenologica forse più propria della nostra società: il consumismo. Qui intendiamo il consumismo non come pratica economica o come elemento sociologico e di costume, ma come dimensione esistenziale. Dimensione sulla quale non occorre che io mi soffermi, visto che è giù stata ampiamente espressa in un autentico trattatello filosofico contemporaneo: il brano "Morire" del gruppo punk rock CCCP Fedeli alla linea:

PRODUCI CONSUMA CREPA 
SBATTITI FATTI CREPA 
PRODUCI CONSUMA CREPA CREPA 
RIEMPITI DI BORCHIE SBATTITI FATTI CREPA 
ROMPITI LE PALLE COTONATI I CAPELLI RASATI I CAPELLI 
CREPA CREPA CREPA CREPA

In questo circuito senza senso la protagonista è avviluppata non solo sotto l'aspetto delle risorse economiche e del tempo vitale (a Bologna, se non erro tra la Stazione ferroviaria e il quartiere Bolognina, un graffito fa notare che "Lavori per comprarti la macchina per andare a lavoro") ma, tristemente fino a toccare i toni del tragico, anche sotto l'aspetto soggettivo-emozionale. L'esperienza quotidiana del consumismo è quella che induce il soggetto consumatore a percepirsi sì ancora come progettualità, ma come progettualità a brevissimo termine, se non a vuoto. Lo svuotamento del senso è totale nella ripetizione, virtualmente all'infinito, di questo ciclo formale. La protagonista, una giovane operaia, acquista e mangia yogurt su yogurt, e non perché le piacciano particolarmente o abbia carenze di calcio, ma per una raccolta punti, ossia per vincere un premio che non le serve (e che, una volta ricevuto, saluterà con un «Che figata! Cos'è?»).


Da qualche parte, nella sezione de Il Capitale dedicata alla forma del valore, il bonario sociologo barbuto spiega i meccanismi basilari dello scambio e i concetti di valore d'uso e valore di scambio. Il valore d'uso del pane è il mio potermene nutrire, il valore d'uso di un maglione è il mio poterlo indossare per ripararmi dal freddo. Semplificando, si può in questo modo descrivere uno scambio tra valori d'uso, mediato dal denaro: ho molto pane, ma niente con cui scaldarmi; vendo parte del pane, ne ottengo del denaro (ossia quell'unica merce il cui valore d'uso è l'essere scambiabile con qualsiasi altra merce) e con questo compro un maglione. Ho ceduto un valore d'uso per averne un altro: lo scambio è stato finalizzato a soddisfare dei miei bisogni, e il denaro non è stato per me che il mezzo atto a tale scopo. Nel ribaltamento di questo schema, ossia nella sostituzione dei mezzi con i fini, si colloca la trasformazione dell'uomo in capitalista: possiedo del denaro, e voglio che figli altro denaro. Allora, acquisterò una merce il cui valore d'uso non mi serve, né mi importa, e la rivenderò a chi ne ha bisogno per averne in cambio altro denaro, che diventa capitale in questo processo di accumulazione estraneo ai bisogni reali e umani.
Possiamo sperimentare un simile capovolgimento paradigmatico, sostituendo i fini con i mezzi nell'osservazione delle attività, non solo umane ma anche macchinali, di produzione e consumo. Mi vengono in mente un tosaerba o un motozappa, o più genericamente un'automobile o una macchina. Considerandoli come "aiutanti" in alcune pratiche umane, emerge innanzitutto la loro natura di strumenti. Loro proprio è il consumo preventivo (o, dal punto di vista del loro utilizzatore umano, l'investimento) di carburante a fronte di un'attività da svolgere, di una "produzione", di un lucro (che sperabilmente coprirà tale spesa anticipata e la renderà conveniente). Questa coniugazione di Consumo-Produzione è l'unica possibile per gli strumenti inanimati del nostro lavoro, in quanto privi di appetiti, di pulsioni desideranti, perfino di "bisogni" materiali (carburante e manutenzione, come l'ammortamento del materiale stesso, non sono certo "richiesti" dal macchinario, ma sono spesa implicita nel processo produttivo).
Ora, ribaltando l'endiadi, dovremmo trovarci di fronte ad un'agenda più propriamente umana: Produzione-Consumo. L'idea è che il lavoro, liberamente intrapreso ed eseguito secondo le proprie esigenze e nella quantità necessaria e sufficiente a soddisfarle, sia solo un mezzo (indiretto, cioè socialmente mediato) finalizzato al consumo. Un "consumo" composito, poiché, a differenza del tosaerba e dei proletari descritti da Engels nel 1845, il contemporaneo operaio-consumatore non vive solo del carburante per sopravvivere e lavorare, ma anche di una quantità di cose superflue, soddisfacenti bisogni secondari o perfino pseudo-bisogni, bisogni indotti o immaginari, i quali non rimandano ad alcuna esigenza umana salvo quella, socialmente determinata, dell'"apparenza".
Alcune considerazioni inducono a osservare come tale paradigma del lavoro libero e scelto, come mezzo di soddisfazione dei bisogni (appunto, Produzione-Consumo), sia più accidentale che essenziale (o perfino più ideale che reale). La prima considerazione è immediatamente conseguente la definizione dei "bisogni indotti": indotti da chi, e a che fine?
L'introduzione di bisogni inesistenti, ma che pure bisogna soddisfare se non si vuol vivere a margine della società, allunga a dismisura il tempo del lavoro necessario: si è costretti a lavorare più del necessario se ci si vuole permettere il superfluo. "Superfluo" che tale solo di rado può essere considerato, a meno che non si sia pronti a essere tacciati di eccentricità (o di comportamenti antisociali).
L'immissione sul mercato di bisogni ulteriori richiede l'istituzione di nuovi processi di produzione che li sorreggano e rendano soddisfabili. Molti bisogni secondari non servono che a innescare nuove produzioni, a concimare nuovi rami del mercato. Qui si vede come il ribaltamento (umano) di Consumo-Produzione in Produzione-Consumo sia fittizio: il consumo è finalizzato ad altra produzione, la quale sottende nuovi consumi e nuove produzioni, e stringe sempre più le spire di un mostro mangiatempo, che alla fine rivela come la condizione dell'operaio-consumatore non sia, se non illusoriamente, diversa da quella del tosaerba. Resta vera per l'essere umano la sequenza Consumo-Produzione, e lo sventolare del consumo al termine della sequenza è dovuto semplicemente al fatto che l'essere umano, a differenza degli strumenti inanimati, ha bisogno di un fine, seppure fittizio, a cui tendere. In questo senso, propriamente, il paradigma consumistico è disumanizzante: degradante dal punto di vista ideale, nel suo porre come fine degno di essere conseguito nella vita sempre un qualcosa che possa essere acquistato (e sostituito con un modello più nuovo secondo i tempi dell'obsolescenza programmata), sia dal punto di vista "materiale", nel suo ridurre di fatto l'essere umano a ingranaggio, in niente diverso dall'ingranaggio, se non nel necessitare, all'avviamento, un piccolo surplus di persuasione (a cui l'ideologia dominante, mediata da montagne di trash televisivo e da propaganda cinematografica, contribuisce ampiamente).
In tutto questo, si verifica un altro ribaltamento, il più distruttivo e angosciante: quello del lavoro in schiavitù. Il lavoro inteso in senso hegeliano, come chiave del riconoscimento e dell'affermazione di sé, diventa una trappola, la maledizione veterotestamentaria lanciata sull'umanità dal Dio-Denaro. Il lavoro è esperito come prigionia, come una macchina produttrice di sudditanza e insoddisfazione, che fagocita più tempo di quello che basterebbe per sopravvivere e snatura quel poco che resta libero, riempiendolo di svaghi socialmente suggeriti, a cui fin da piccoli si è addestrati, e che servono più a distrarre dalla vita che a riempire la vita. La protagonista dei 18 quadri e la sua coinquilina, dopo il lavoro, si dedicano al divertimento (e alla ginnastica davanti alla televisione): a qualcosa che non fa sentire meglio, che non indica alcuna alternativa alla mostruosità della vita dell'operaio-consumatore. Ma non è detto che l'alternativa non esista. Forse alludono a questo le preoccupazioni della protagonista quando Paloma, la sua gatta, cerca di sgattaiolare dal piccolo e squallido appartamento: «Non possiamo farla uscire, o vedrà quanto è bello fuori e non vorrà tornare.»

domenica 4 settembre 2016

La famiglia Karnowski, di Israel Joshua Singer

«Sii un ebreo in casa tua e un uomo di mondo fuori»

Pubblicato nel 1943 in lingua yiddish, La famiglia Karnowski narra la storia di tre generazioni, del conflitto tra padri e figli, delle diverse aspirazioni, sogni, visioni del mondo che caratterizzano le generazioni che si succedono, che necessariamente confliggono, che con il tempo si riconciliano. La lotta che i figli conducono nei confronti dei padri, dei valori tramandati, è un processo di sviluppo e costruzione della propria identità. La questione della lotta generazionale si intreccia con quella dell’identità: la storia della famiglia Karnowski, scandita dalla discendenza David – Georg – Joachim narra del rapporto tra queste tre generazioni. Una storia familiare che, come tutte le storie familiari, si intreccia con le vicende storiche e politiche di più ampio respiro, ma in questo caso il nesso è ancora più evidente. La famiglia Karnowski è una famiglia ebrea di origine polacca, e le loro vicende coprono un arco di tempo che va dalla fine dell’Ottocento alla Seconda Guerra Mondiale. La lotta tra padri e figli, la conquista della propria identità diviene una vicenda non più personale, ma universale. La ribellione di David, quella di Georg e infine quella di Joachim è caratterizzata dal rifiuto della identità ebraica tramandata dai propri padri: la ricerca di un modo nuovo di essere ebrei, la problematicità dell’essere ebrei, il tormento, l’umiliazione che questa identità comporta nel periodo della persecuzione nazista. Il tema “psicoanalitico” del rapporto col Padre si intreccia con il tema teologico del rapporto con Dio, con il tema storico-politico dell’identità di un popolo in un mirabile equilibrio, con la sensibilità, la profondità che rifugge ogni retorica, ogni forma di autocommiserazione, mettendoci di fronte ad una storia che non ammette semplificazioni. La narrazione di Israel Joshua Singer è senza ombra di dubbio rispettosa nei confronti di questa complessità, ironica e drammatica, di spiccata intelligenza e profonda umanità.

 David Karnowski è un ragazzo testardo e arrogante, ma di grande intelligenza e acuto studioso dei testi sacri, come tutti i membri della sua famiglia. Vive in un piccolo villaggio della Polonia, Melnitz, ed entra ben presto in conflitto con la sua comunità religiosa. David considera il chassidismo una religione popolana, oscurantista e superstiziosa. Un Shabbat, durante la lettura della Torah, David entra in aperto conflitto con il rabbino della sua sinagoga, sostenendo addirittura che il profeta Isaia era un anti chassidico. Di fronte a questa eresia tutta la comunità si indigna. David è uno studioso del grande filosofo Moses Mendelssohn, padre dell’Illuminismo ebraico, che i poveri ignoranti di Melnitz non possono comprendere. Decide di trasferirsi a Berlino, la città del suo grande maestro. David da allora comincerà a parlare solo tedesco, avrà una totale repulsione per la lingua yiddish, rifiuterà completamente la sua cultura di provenienza, integrandosi perfettamente nella comunità ebraica berlinese, costituita da brillanti studiosi, aristocratici che guardano con disprezzo gli immigrati ebrei provenienti dalla Polonia o dalla Russia, con le loro lunghe barbe, il loro spirito di patata grossolano, il modo spregiudicato di fare affari. Il Dio di David è un dio tedesco, la sua lingua madre è il tedesco. Diversa è la condizione di sua moglie, Leah, legata alle sue origini, che non riuscirà mai ad adattarsi alla società berlinese: il suo Dio è un buon padre di famiglia polacco, la sua lingua è l’yiddish, la sua identità è quella tramandatale dalla sua famiglia. Berlino è una città estranea, il tedesco una lingua dura e inaccessibile. Ma suo marito non è disposto a comprendere questi sentimentalismi, e si ostina a parlare con lei il tedesco persino durante l’amore!

Georg, figlio di David, della Torah non vuole saperne proprio nulla. Sbadiglia durante le lezioni tenute da un noioso precettore che il padre gli ha imposto. Georg vuole soltanto bighellonare, si iscrive svogliatamente alla facoltà di filosofia, passa le sue serate a tracannare birra nella taverne e a sedurre le cameriere, sperperando il denaro del padre. È forte e affascinante, di lui si innamora Rebecca, figlia di Solomon Burak, un ebreo di Melnitz emigrato in Germania per fare fortuna, uno di quei volgari commercianti che David disprezza. Georg non vuole saperne di questa dolce e materna ragazza: Solomon Burak andrà ad umiliarsi da David per convincerlo a combinare un matrimonio, ma  questi lo rifiuta con disprezzo. David e Solomon rappresentano due ebraismi diversi: l’ebraismo naturalizzato dell’alta borghesia berlinese e l’ebraismo orientale del ceto mercantile, in cui tradizioni arcaiche ed esotiche si uniscono ad uno spiccato senso degli affari. È l’ebraismo volgare e popolare che David ha sin da giovane rifiutato, concentratosi a Berlino nella Dragonerstrasse. Due mondi che non si comprendono e che saranno uniti soltanto dall’esterno, dalla semplificazione violenta operata dal nazionalsocialismo.
Nel frattempo Georg si innamora di una donna straordinaria, Elsa Landau. Figlia di un medico ebreo che si prende cura di tutto il proletariato berlinese, ricevendo come unico compenso quello che i proletari donano volontariamente. Anche Elsa segue le orme del padre e studia come medico. Georg la segue ciecamente e si iscrive a medicina per amore. Ma Elsa è una donna che rifiuta il matrimonio perché vuole lottare per la realizzazione dei suoi ideali, progetto incompatibile con la vita di una madre di famiglia: Elsa è una delle migliori studentesse della facoltà di medicina, che impartisce lezioni agli uomini, ma soprattutto, è una militante del partito comunista. Sarà questo suo impegno ad allontanarla da Georg, ma anche dal suo amato padre. Diventerà parlamentare del Reichstag, sarà incarcerata e perseguitata dai nazisti, sarà costretta a condurre la sua lotta dagli Stati Uniti. Georg è furioso per l’abbandono, detesta e ammira quella donna che non ha voluto essere sua, l’unica fra tante altre donne. Sposerà Teresa, una donna bionda e mansueta, una madre di famiglia che per suo marito sacrificherà tutto, più di quanto riesca ad immaginare.

Joachim Georg Holbeck Karnowski è il personaggio più tragico dell’intera vicenda. La sua ribellione tipicamente Karnowski si traduce in una vera e propria scissione della personalità: Jegor è ebreo e ariano insieme, nel periodo in cui il regime nazista costruisce la sua unità annientatrice nell’individuazione di un nemico esterno, che va eliminato, l’ebreo. Jegor è il frutto della propaganda nazista: è vittima dell’antisemitismo e allo stesso tempo ne è un convinto sostenitore. Il rifiuto della tradizione paterna non è un modo per costruire la propria identità, ma un disperato tentativo di cancellarla, di annientare un’identità che lo esclude, di abbracciare una nuova identità, quella ariana, per lui così vicina ma irraggiungibile. Nazista, razzista ed ebreo: questa scissione che non ammette sintesi si esprime nelle sue caratteristiche fisiche. Jegor ha gli occhi azzurri di sua madre ma la pelle scura e il naso di suo padre: quel naso adunco, orribile, mostruoso. Georg è l’ebreo di Jegor, il capro espiatorio su cui riversare tutte le sue frustrazioni e il suo disprezzo. Lo odia profondamente: Georg è mostruoso ma amato da tutte le donne – persino dalla sua angelica e ariana madre! – forte, intelligente, tutto il contrario di quello che viene descritto dalla propaganda del regime. E proprio per questo Jegor lo odia… Come osa un inferiore avere un atteggiamento così arrogante? L’adolescenza di Jegor è un percorso folle e tortuoso, tragico, di ricerca di una figura paterna che sia degna: prima l’ariano zio Holbeck, quando emigrerà in America con la sua famiglia sarà il funzionario del regime Zerbe. Antisemiti, nazisti, gente di razza superiore che dapprima sembrano prendersi cura di lui, ma che poi finiscono con il rifiutarlo in quanto ebreo. La vita di Jegor è una continua umiliazione, che il ragazzo subisce e cerca: è l’ariano che umilia e distrugge l’ebreo.

Quando la famiglia Karnowski emigrerà negli Stati Uniti, la drammatica e intensa vicenda di queste tre generazioni giungerà in qualche modo ad una sintesi. David, che si era già riconciliato con suo figlio Georg durante i primi anni delle persecuzioni, in America si riconcilia con suo Padre: con la lingua yiddish, che diventerà la sua lingua abituale, con l’umile lavoro di guardiano della sinagoga, con Solomon Burak,  al quale chiederà perdono, con la dolce e popolana religiosità dei suoi avi. Anche Jegor, dopo tormenti e umiliazioni, ritorna da suo padre: deluso dai falsi miti della razza, debole e moribondo si accascia sulle scale della casa paterna. Georg lo accoglierà con tutto l’amore di cui è capace, e si prenderà cura di quel povero figlio che aveva addossato su di sé tutto il peso della persecuzione del suo popolo, tutto l’odio che aveva pervaso l’Europa, quello violento dei carnefici, e quello che le vittime avevano dovuto subire.
Concludo questo post riportando un breve passo del romanzo, in cui l’autore mette in evidenza la molteplicità di ebraismi che popolava la Germania sin dal XIX secolo e come queste molteplicità vivessero nell’incomunicabilità, nella mancanza di solidarietà e persino nell’aperta conflittualità. L’idea che a mio avviso Singer cerca di comunicare ai suoi lettori è che l’Ebreo non esiste: non esiste un unico popolo compatto, portatore di un identità granitica. Questa identità è stata costruita dall’esterno, è frutto della propaganda, del mito della razza.
Al grido nazista “Quando il sangue ebraico zampilla dal coltello, allora tutto va di nuovo bene, così bene”, gli ebrei delle diverse comunità si chiedono quale sia il sangue ebraico che deve essere versato:

Da parte sua neppure David Karnowski credeva di poter essere davvero perseguitato in una nazione in cui aveva vissuto e prosperato per così tanti anni. Non aveva forse mandato il suo unico figlio al fronte? Negli affari non era così onesto e corretto che tutti i tedeschi cristiani con cui trattava tessevano le sue lodi? Inoltre, si era sforzato di apprendere la lingua e i costumi della nazione in cui viveva e di liberarsi di ogni traccia delle sue origini orientali. Se vi era davvero un pericolo, riguardava coloro che erano emigrati nel dopoguerra e si erano stabiliti sulla Dragonerstrasse. Nonostante provasse compassione per loro in quel frangente, David Karnowski nutriva anche un rancore segreto verso gli ebrei dello Scheunenviertel. Erano troppo disonesti, avevano approfittato dell’inflazione per acquistare immobili a cifre irrisorie e in genere avevano un modo di fare losco e subdolo. Segretamente provava anche una certa repulsione per i numerosi ebrei con le palandrane e i lunghi riccioli alle orecchie che si erano infiltrati in città – sedicenti ecclesiastici di ogni tipo che urtavano la sua sensibilità quando gli capitava di incrociarli in tram e in metropolitana. Alcuni di loro si erano spinti a fare la questua anche nella parte occidentale della città. Con il loro aspetto esotico e le maniere esecrabili non rendevano certo onore alla comunità ebraica di Berlino. Lui stesso non poteva sopportare i loro modi. C’era da meravigliarsi che suscitassero risentimento tra i gentili?



venerdì 2 settembre 2016

Tracce di poesia - Paul Éluard

Il Primo Manifesto del Surrealismo, del 1924, proclama l'allontanamento da qualsivoglia forma di realismo e razionalità: l'arte è il luogo in cui il vero e l'immaginario si incontrano, in una dimensione distorta che riesce ad illuminare la parte più recondita della nostra mente. L'inconscio è il filo rosso attraverso cui si snoda l'investigare della coscienza, la possibilità di andare finalmente oltre le "realtà sommarie" e di approfondire l'abisso interminabile dell'immaginazione, onnipotente trasmettitore di informazioni. Nel Manifesto André Breton scrive: 

«Il sogno si trova così ridotto a una parentesi, come la notte. E come questa, in generale, non porta consiglio. [...] E poiché non è affatto provato che "la realtà" che mi occupa sussista allo stato di sogno, che non precipiti nell'immemorabile, perché non concedere al sogno ciò che a volte rifiuto alla realtà, ossia quel valore di certezza in sé che, per il tempo che dura, non è esposta alla mia sconfessione? Perché non mi aspetterei dall'inizio del sogno più di quanto non aspetti da un grado di coscienza sempre più elevato? Il sogno non può essere anch'esso applicato alla soluzione dei problemi fondamentali della vita?»

Ecco che viene a crearsi un linguaggio assolutamente lontano da quello stereotipato della tradizione e, con esso, un mondo nuovo, sintesi perfetta tra il reale e l'irreale: il surreale, la verità che nasce non dalle inconciliabili opposizioni, ma dalle antitetiche compenetrazioni. 
La prima scena di Un chien andalou, film manifesto girato da Luis Bunuel (anche sceneggiatore assieme a Salvador Dalì) nel 1929, si presenta proprio come la rappresentazione visiva di un intento: il regista invita lo spettatore a sbarazzarsi delle proprie abitudini epistemologiche, lasciandosi abbandonare al flusso di quel impossibile-possibile che non è più licenziato come indegna rappresentazione, ma è valorizzato e innalzato a terza realtà altra e amalgamante. 


Un chien andalou, regia di Luis Bunuel (1929)


La scrittura è intesa come "automatismo psichico": parole e immagini si impongono spontaneamente con la veemenza dell'inconscio. La poesia parla per immagini non del tutto afferrabili perché associate, come in sogno, a parole talvolta slegate, quasi inopportune. È la forza dell'inconscio, la genesi di un pensiero decifrabile soltanto attraverso l'empirica sensazione che esso provoca.

Oggi la luce unica
Oggi l'infanzia intera
Mutando vita in luce
Non passato non domani
Oggi sogno di notte
Al gran sole ogni cosa si libera
Oggi io sono per sempre

È in questo contesto che si colloca il poeta Paul Éluard, pseudonimo di Eugène-Emile-Paul Grindel. 

Egli nasce nel 1895 e nel 1923, dopo una parentesi Dada, aderisce attivamente al Surrealismo dell'amico Breton, con cui nel '33 firma diversi appelli in Francia contro gli imminenti pericoli che la presa al potere di Hitler in Germania avrebbe presumibilmente comportato. L'amicizia con Breton, però, è destinata a durare poco: mentre Breton si avvicina a Trockij, Eluard si avvicina ai comunisti. Durante la seconda guerra mondiale, Éluard si mobilita come sottotenente e, dopo la firma dell'armistizio nel '40, rientra a Parigi, dove poi si iscrive al partito comunista, che lavora in maniera clandestina. In questi anni scrive con lo pseudonimo di Jean du Haut, fonda il Comitato nazionale degli scrittori e pubblica Domaine français, antologia che raccoglie scritti di artisti non collaborazionisti. Se nella prima parte della propria produzione, egli scrive principalmente del tema dell'amore e parla del legame amoroso come l'unica chance per esistere nel mondo come uomo libero dal groviglio della solitudine, nella seconda parte di essa, che coincide con l'aumentare dell'interesse politico, i temi diventano la libertà, la giustizia, la pace. Ma, in fondo, l'amore di cui parla Éluard è da intendere, più in generale, come il rapporto con l'altro (e non solo l'altro-da-amare): come scriveva il buon vecchio Sartre, l'altro è ciò che mi fa esistere puntando il suo sguardo verso di me e facendomi altro-guardato. L'altro è condicio sine qua non per la mia esistenza nel mondo: mi sento parte del mondo solo quando un altro mi guarda. È in quel momento che esisto e mi rendo conto della pregnanza della mia esistenza in quanto uomo. 
Éluard scrive:

Non verremo alla meta ad uno ad uno,
ma a due a due. Se ci conosceremo
a due a due, noi ci conosceremo
tutti, noi ci ameremo tutti e i figli
un giorno rideranno
della leggenda nera dove un uomo
lacrima in solitudine.

La poesia diventa lo specchio del poeta, che deve immortalare le incongruenti libere associazioni dell'inconscio come in una fotografia. L'arte, in generale, è ciò grazie a cui si può indagare il dionisiaco: la vita non è fatta di minuzie logiche, ma di caos pungente, un non-detto sotteso eppur così vivido e presente. Ne Il lavoro del poeta, Éluard scrive:

Che siete venuto a prendere
Nella stanza familiare?

Un libro che mai nessuno apre

Che siete venuto a dire
Alla donna indiscreta?

Quel che non può ripetersi

Che siete venuto a vedere 
In quel luogo in vista?

Quello che i ciechi vedono

Dopo la liberazione di Parigi (25 agosto 1944), riprende a pubblicare con il primo pseudonimo. Gli anni successivi sono ricchi di viaggi di impegno letterario e politico, vari i suoi interventi sul valore della democrazia. Nel 1951 si reca a Praga in occasione di una mostra dedicata a Majakovskij. La morte sopraggiunge nel 1952 a seguito di un violento attacco cardiaco. 



Su quaderni di scolaro
Su i miei banchi e gli alberi
Su la sabbia su la neve
Scrivo il tuo nome

Su ogni pagina che ho letto
Su ogni pagina che è bianca
Sasso sangue carta o cenere
Scrivo il tuo nome

Su le immagini dorate
Su le armi dei guerrieri
Su la corona dei re
Scrivo il tuo nome

Su la giungla ed il deserto
Su i nidi su le ginestre
Su la eco dell'infanzia
Scrivo il tuo nome
Su i miracoli notturni
Sul pan bianco dei miei giorni
Le stagioni fidanzate
Scrivo il tuo nome

Su tutti i miei lembi d'azzurro
Su lo stagno sole sfatto
E sul lago luna viva
Scrivo il tuo nome

Su le piane e l'orizzonte
Su le ali degli uccelli
E il mulino delle ombre
Scrivo il tuo nome

Su ogni alito di aurora
Su le onde su le barche
Su la montagna demente
Scrivo il tuo nome

Su la schiuma delle nuvole
Su i sudori d'uragano
Su la pioggia spessa e smorta
Scrivo il tuo nome

Su le forme scintillanti
Le campane dei colori
Su la verità fisica
Scrivo il tuo nome

Su i sentieri risvegliati
Su le strade dispiegate
Su le piazze che dilagano
Scrivo il tuo nome

Sopra il lume che s'accende
Sopra il lume che si spegne
Su le mie case raccolte
Scrivo il tuo nome

Sopra il frutto schiuso in due
Dello specchio e della stanza
Sul mio letto guscio vuoto
Scrivo il tuo nome

Sul mio cane ghiotto e tenero
Su le sue orecchie dritte
Su la sua zampa maldestra
Scrivo il tuo nome

Sul decollo della soglia
Su gli oggetti familiari
Su la santa onda del fuoco
Scrivo il tuo nome

Su ogni carne consentita
Su la fronte dei miei amici
Su ogni mano che si tende
Scrivo il tuo nome

Sopra i vetri di stupore
Su le labbra attente
Tanto più su del silenzio
Scrivo il tuo nome

Sopra i miei rifugi infranti
Sopra i miei fari crollati
Su le mura del mio tedio
Scrivo il tuo nome

Su l'assenza che non chiede
Su la nuda solitudine

Su i gradini della morte
Scrivo il tuo nome

Sul vigore ritornato
Sul pericolo svanito
Su l'immemore speranza
Scrivo il tuo nome
E in virtù d'una Parola
Ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per chiamarti

Libertà.

(traduzione di Franco Fortini)

Se volete leggere le poesie di Paul Éluard, vi consigliamo Poesie e Poesia ininterrotta, entrambi editi da Giulio Einaudi Editore. 



Curiosità: 
  • Ne La vita è altrove Milan Kundera scrive: 

    «Strane coincidenze! Jaromil, che nello stesso periodo spiava per intere giornate l'occhio piangente di Magda, conosceva molto bene il fascino della tristezza e vi si immergeva completamente. Sfogliava ancora il libro che gli aveva prestato il pittore, leggeva e rileggeva senza fine le poesie di Éluard e si lasciava rapire da alcuni versi: Aveva nella pace del suo corpo una pallina di neve del color dell'occhio; oppure: in lontananza il mare che il tuo occhio bagna; e: Buongiorno tristezza sei iscritta negli occhi che amo. Éluard divenne il poeta del placido corpo di Magda e dei suoi occhi bagnati dal mare delle lacrime; tutta la propria vita gli pareva racchiusa nella magia di un solo verso: Tristezza bel volto. Sì, era Magda: tristezza bel volto.»
  • Nel film francese Guernica (regia di Alain Resnais e Robert Hessens, 1950), l'attrice María Casares recita un poema di Paul Éluard.
  • Nel film Agente Lemmy Caution: missione Alphaville (regia di Jean-Luc Godard, 1965), il protagonista legge alcune poesie tratte da Capitale de la douleur di Paul Éluard.



da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/poesia-4575?f=a:715>


domenica 3 luglio 2016

Reinventare la vita. "Pierrot le fou" di Jean-Luc Godard

«Ci fu la civiltà ateniese, il Rinascimento... e ora stiamo entrando nella civiltà del culo

"Il bandito delle ore undici", titolo originale "Pierrot le fou", mi ha fatto venire in mente l'episodio diretto da Godard due anni prima nel lavoro collettivo "Ro.Go.Pa.G". Tale episodio, il secondo (la sillaba "Go" nel titolo, dopo Rossellini e prima di Pasolini e Gregoretti), si intitola "Il nuovo mondo", e mostra la caduta dell'umanità in un delirio post-atomico. La follia (come illogicità, ma anche come a-logicità, come perdita del senso, come fissazione in una realtà priva di un senso autentico) mi pare la materia prima di entrambi, il corto in "Ro.Go.Pa.G" e "Pierrot le fou". E in entrambi, la follia non è, per così dire, esportata dal singolo nella società, ma da lui importata: non è il malessere psichico individuale a trasformare la società in un manicomio, ma è la società alienante (nel senso economico e anche psichiatrico del termine) a frammentare l'io dei singoli, a distorcerlo, a spingere i singoli al rifiuto di se stessi, al non-riconoscimento di se stessi, perfino all'autodistruzione. E, in entrambi i casi, la società ci viene mostrata per ciò che è: non qualcosa di "impacchettato", bell'e pronto, quasi il risultato di un disegno divino, ma qualcosa di storicamente ben determinato e continuamente auto-determinantesi. Non a caso, lo sfondo "narrativo" delle due storie è rappresentato da una crisi di tipo politico (che significa anche storico): la fobia della bomba atomica in "Il mondo nuovo" (fobia che incise in maniera davvero molto pronunciata nella produzione culturale degli anni Cinquanta e Sessanta, se ne portano le tracce l'opera di Italo Calvino, di Lucio Dalla, dello stesso Godard e di molti altri artisti di tutt'Europa) e la Guerra fredda in "Pierrot le fou". Proprio da tale clima politico, quello della contrapposizione tra i "due blocchi", è indispensabile partire per poter collocare la storia di Pierrot/Ferdinand nel suo tempo.


Ho usato due nomi per designare lo stesso personaggio, perché esso stesso, pur interpretato da un monolitico e uguale a se stesso (al punto da "continuare" con questa interpretazione il personaggio interpretato cinque anni prima in "Fino all'ultimo respiro") Jean Paul Belmondo, ha un'identità frammentata. La sua storia inizia all'interno del suo ambiente borghese, tra una mogliettina antipatica che veste biancheria sfacciata (di marca "Scandale") e conoscenti altolocati. Il party a cui assistiamo mostra una borghesia, intesa solo come "punta di diamante", rappresentante perfetta della società tutta, totalmente intrisa di capitalismo. Il consumismo, la mentalità di stampo liberista, l'intossicazione pubblicitaria sostituiscono totalmente qualunque relazione umana. Sotto filtri stranianti (rosso, blu, verde, giallo, che coprono ogni altro colore in una piattezza innaturale), uomini e donne dialogano soltanto a colpi di slogan pubblicitari. «La mia pettinatura si mantiene grazie ad una nuvola di Elnett», pronuncia una donna, e gli uomini rispondono delle prestazioni di un'automobile. Pur presenziando in tanti nella stessa stanza, tutti i soggetti coinvolti sono assolutamente isolati gli uni dagli altri, in una specie di autismo che fa quasi "impazzire" il protagonista Ferdinand (che lascia la festa a metà, torna a casa e fugge con la baby sitter, Marianne, con cui aveva avuto una relazione anni prima). Prima di arrendersi all'inautenticità sistematica che lo spinge alla fuga, però, Ferdinand lancia un grido di aiuto: mi sento diviso, dice, come se occhi e orecchie fossero macchine distinte, funzionante ognuna per suo conto.
Quella che il protagonista denuncia è l'assoluta instabilità dell'io, la carenza di una individualità formata, di una vita integrale, reale, pienamente esistente. Lui e tutti gli altri non possono che attraversare la vita «come spiriti»«attraverso uno specchio». Fugge allora con Marianne, si traduce in un bandito, trasforma la propria quotidianità in un noir, soltanto nel disperato tentativo di reinventare la vita, reinventare l'amore. E anche l'amore costruito su questo io fragile, etereo, inesistente, è destinato ad essere effimero. Il discorso già sartriano e merleau-pontiano sull'amore, sulla sua costituzionale precarietà, si innesta qui sulla denuncia di una società spersonalizzante.
Questa personalità ectoplasmatica, questa vita fragile e scissa, questo stesso amore non rassicurante non soddisfano i protagonisti, che come ultimo tentativo propongono di andare a vivere su un'isola deserta, dove il marcio della società non possa ferirli, salvo poi la presenza di un ambiente isolano assurdamente antropizzato (il trattore, la casa, gli animali addomesticati).

- Cosa faremo?
- Niente, esisteremo.

La tentazione è quella di affidarsi alla bontà della natura, ad una sorta di stadio primordiale dell'umanità, nella ricerca della pienezza dell'esistenza fine a se stessa. È l'illusione dell'"ecovillaggio", che crede di sanare i mali della civiltà ritirandosi dalla civiltà stessa, in un tentativo di vita astorica e per questo destinata a non esistere davvero, se non nelle buone intenzioni dei suoi attori.
Ferdinand, che viene chiamato dalla ragazza Pierrot e Paul, e che a sua volta la chiama ora Marianne ora Virginia, tenta di essere un nuovo Adamo e di riguadagnare così la propria identità, di risanare quel senso propriocettivo di cui la società lo ha mutilato, ma non ci riuscirà. L'epilogo sarà l'implosione dell'essere, la rinuncia totale all'esistenza, che si è scontrato prima con la ricerca del senso, poi con la fuga dal mondo, poi con la delusione amorosa come prova dell'incostanza dell'umanità. Ferdinand/Pierrot, si toglie la vita (nonostante un ultimo, ma tardivo, ripensamento) ma lo fa in un modo significativo: dopo essersi dipinto il viso di blu, si avvolge il capo nell'esplosivo. Prima si applica una maschera, si dà un colore, una definizione, e poi fa saltare tutto, distrugge completamente quel volto che non gli appartiene, che si riferisce ad un'identità mai esistita davvero.
Scrivevo prima della Guerra fredda, del clima di brutale "dualismo" che trasmette ai protagonisti quella frattura interiore che si rivela insanabile, sia nei termini di una riconciliazione sia in quelli di una "fuga", di un disinteressamento. Pierrot/Ferdinand, guardando la luna con Marianne, le indica un omino, l'unico abitante della luna. Racconta dell'assalto allo spazio e dell'incontro dell'omino lunare con gli uomini. Leonov, un cosmonauta sovietico, cerca di inculcare l'opera di Lenin nell'alieno, che si dà alla fuga. Mentre White, l'americano, agguanta l'abitante lunare, gli ficca in gola una bottiglia di Coca-Cola e pretende anche di essere ringraziato. L'epilogo vede semplicemente "litigare" americani e russi, così come "litigano" le due e più anime dei protagonisti, divisi tra la vita che sono costretti a vivere (che li vuole meri consumatori e divoratori di pubblicità della "civiltà del culo" capitalista) e quella che desiderano vivere (una vita pienamente umana), senza sapere bene come. La crisi della società società del benessere, con i suoi stordimenti e le sue manie, trascina nella crisi anche i soggetti, che si trovano disarmati e perduti in questa loro folle e disperata ricerca della libertà, dell'amore, della vita vera.

mercoledì 8 giugno 2016

"L'amore è il cuore di tutte le cose": Vladimir Majakovskij e Lili Brik

"L'amore è il cuore di tutte le cose", Neri Pozza Editore, è la raccolta più completa apparsa finora in lingua italiana di lettere, biglietti e telegrammi privati, inviati e ricevuti da Vladimir Majakovskij tra il 1915 e l'anno della morte. Faccio per aggiungerlo al mio scaffale di Anobii e leggo la recensione poco entusiasta (due sole stelline) di un utente:

Ma è necessario - mi chiedo - pubblicare in un libro delle comunissime lettere quotidiane solo perché le ha scritte uno scrittore?

Salto su stizzita e così rispondo, testualmente, alla bell'e meglio:


Necessario no, ma è interessante, utile e bello per diversi motivi. Il primo, e più banale di tutti, prescinde dal fatto che l'autore sia un artista della statura di Majakovskij, e risiede nel mero valore storico e documentario di un epistolario originale e personale. Come si viveva in URSS in quegli anni? Com’erano vissute davvero la questione degli alloggi e altre che riempiono, piene di argomentazioni, i libri di storia come quelli di narrativa di diverso indirizzo e carattere (ne sia un esempio “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov)? Come si muoveva, e con quali tempistiche, la corrispondenza? Com'erano i rapporti tra gli intellettuali, i critici, il governo, l'editoria? Come si lavorava nell’ambito culturale? Un insieme di lettere e biglietti di contenuto quotidiano, scritti per uso esclusivamente privato e quindi scevri da qualsivoglia interesse e da ostentazioni di sorta, non sarà in questo senso di gran lunga più sincero, autentico e dotato di valore storico rispetto a testi stilati appositamente al fine di “denigrare” o “difendere”?
Secondo motivo per cui saluto con gioia la pubblicazione di questa raccolta, analogo al precedente ma fondato sull'importanza della figura storica e artistica di Majakovskij: da questa corrispondenza apprendiamo dei rapporti personali e professionali tra lui e Gor'kij (e li scopriamo tutt’altro che idilliaci), tra lui e Lunačarskij, e ancora degli amici della sua cerchia (oltre agli ovvi Lilja e Osip Brik, Kamenskij, Pasternak, Šklovskij, Jokobson e altri) con questi e tra di loro. Davvero tutto questo non aggiunge nulla alla notizia meramente storica di questa declamazione pubblica tenuta da due o tre di loro al “Cane Randagio” di Pietroburgo o di quell’articolo sul “Novaja žizn’” in cui uno prende le distanze dall’altro? I pettegolezzi (infondati) di Gor’kij sulla presunta sifilide (mai) contratta da Majakovskij davvero non hanno inciso in alcun modo sulla freddezza dei loro rapporti professionali? La condivisione di spazi, idee, progetti e bevute, non ha mai influito su questo o quel progetto all’interno di una redazione, su un incontro del Lef o sull’organizzazione di una mostra o di un evento pubblico?
Infine, terza motivazione, relegata all’ambito squisitamente letterario: questo epistolario così vero contribuisce in modo insostituibile ad edificare quel che Schleiermacher chiama “circolo ermeneutico”. Senza conoscere i particolari della prima notte di nozze di Lilja e Osip Brik, quel «Nel morbido letto/ lui,/ la frutta/ il vino nei palmi del tavolino da notte» del poema “A tutto”, che significato potrebbe avere per noi? I continui riferimenti alla vita quotidiana di cui Majakovskij infarciva le poesie (Lilja allettata con la febbre, il Cucciolo che viveva in casa Brik-Majakovskij, i due mesi di separazione tra Volodja e Lilja a cavallo tra il 1922 e il 1923, le visite che Lilja riceveva in determinati giorni, gli uccellini in gabbia che lui le regalò, gli acquisti di lei durante il soggiorno a Riga) non sarebbero per noi insipidi dettagli privi di un significato poetico, se non conoscessimo i dettagli dei luoghi e dei tempi in cui determinate poesie videro la luce (sui fogli manoscritti, non in tipografia)? Sapere che un determinato poema è stato scritto durante un periodo di amore idilliaco tra Majakovskij e Lilja Brik, o alla fine di un litigio straziante, o nell’apice dell’innamoramento tra il poeta e la Yakovleva?
Una biografia “ufficiale” , un saggio di critica letteraria, una pagina di Wikipedia (!) non potranno mai essere esaurienti circa il vissuto e la personalità di Majakovskij quanto questa finestra spalancata brutalmente sulla sua vita reale, che solo i più intimi ebbero modo di conoscere davvero.

Certo, avrei potuto formulare meglio, ma alla ridicola domanda mi è davvero scattata l'ignoranza (citazione più alta, per nobilitarmi). Il punto è: dopo Cicerone, Abelardo ed Eloisa, John Keats e Funny Brawne, Antonio Gramsci, ci si può davvero chiedere ancora a cosa valga leggere delle lettere?
È noto a tutti come quello epistolare sia un vero e proprio genere letterario, che si tratti di corrispondenze reali o di finzione. Il romanticismo, con la sua esaltazione dell'interiorità e dei conflitti che la agitano, con il suo interesse per la nascita e l'evoluzione delle idee a partire dal vissuto degli autori, ha fatto assurgere la materia epistolare all'olimpo degli scritti "ufficiali", poetici, quasi come ogni lettera potesse farsi manifesto. Non a caso, leggiamo di quegli autori romantici che scrivevano le proprie missive private bellamente al fine di rendere, un giorno, pubblico l'epistolario intero: e perché si potesse seguire di lettera in lettera il percorso poetico, la maturazione stilistica, l'elaborazione del pensiero, e (ultimo ma non per importanza) perché si potesse anche negli scritti privati apprezzare della prosa la bellezza, lo spessore, la profondità della scrittura.
Niente di tutto questo ha luogo nell'epistolario di Majakovskij: le lettere e i telegrammi, come lamenta il deluso utente di Anobii, sono comunissimi messaggi quotidiani, che non lasciano spazio alla condivisione e all'elaborazione teorica, né palesano l'intenzione di farsi, un giorno, materiale di pubblico dominio. Proprio questa carenza rappresenta la forza della raccolta: la sua autenticità, la sua spontaneità, il suo mettere a nudo le tre persone coinvolte, Majakovskij e i due Brik, senza tener conto della loro statura, del loro ruolo, dell'"immagine" che di loro si potrebbe voler costruire. Nella ricca e utilissima (sebbene per certi versi molto discutibile) nota preliminare, Bengt Jangfeldt scrive puntualmente che:

«La corrispondenza tra Majakovskij e Lili [...] non è un esempio di grande arte epistolare. A differenza dei simbolisti, Majakovskij (e gli altri futuristi) non consideravano lo scrivere lettere come un genere letterario particolare, il che non era, tuttavia, il frutto di una "polemica" cosciente con la generazione precedente: le lettere non avevano alcuna funzione nella poetica di Majakovskij (nel senso più ampio della parola) [...]. Egli non ebbe una posizione ben delineata nei confronti delle lettere come genere artistico: semplicemente, per lui questa questione non si poneva [...]. Questo fatto diventa inconscia espressione della tensione dei futuristi verso l'"abbassamento" e la "deestetizzazione" nell'arte.»


Osip e Lilja Brik, Vladimir Majakovskij

Queste, alcune considerazioni sull'utilità del ficcare il naso nelle corrispondenze altrui. Mai come leggendo un epistolario autentico si prende atto della semplice e solidissima verità di María Zambrano: non esiste parola disincarnata. Ogni scrittura, ogni pensiero, ogni ideale è sempre storicamente determinato, radicato in un contesto sociale e storico, in un vissuto fatto di desideri, passioni, sofferenze, paure. Ogni filosofia e letteratura è fatta di carne, di carattere, di esperienza, di vissuto quotidiano, e non potrebbe in nessun modo essere altrimenti. Affiancare la lettura della parola di Majakovskij a quella della sua vita ci restituisce la cifra di questa identificazione immancabile tra arte e vita, tra ideale e materiale, tra struttura e sovrastruttura. Quanto al contenuto di questo ricco epistolario, all'immagine antiretorica di Majakovskij che se ne trae, della sua straordinaria esperienza di "famiglia" insieme ai Brik, alle sue tendenze suicide che fin da giovanissimo fanno spesso capolino, nel privato come nell'arte, al suo amore senza regole e alla sua immensa passione politica... Su tutto questo, che nel suo epistolario si delinea e arricchisce di aneddoti e dettagli, mi dilungherò un'altra volta.
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