martedì 26 giugno 2018

"L'anima e il mondo. Francesco De Sanctis tra filosofia, critica letteraria e teoria della letteratura" di Emiliano Alessandroni

De Sanctis incontra l'estetica hegeliana attorno al 1843 e approfondisce la conoscenza di Hegel confrontandosi, negli anni della prigionia, con dei testi nell'edizione originale tedesca. Ne resta segnato e come scisso: negli anni a seguire, con il raffinarsi delle sue posizioni critiche ed estetiche, opera una vera e propria (come scrive Sergio Landucci) «scissione tra il "metodo" e il "sistema" di Hegel». De Sanctis sposa il metodo ma rigetta il sistema; in particolare è costretto ad emendarlo nelle sue concezioni estetiche, che vogliono l'arte mera manifestazione sensibile dell'idea, priva dunque di un proprio statuto autonomo, e che ne pronosticano la «morte» con il tramonto dell'era romantica.
Il rapporto complesso con Hegel non è l'unica venatura polemica che attraversa l'opera di De Sanctis (ed essendo la sua un'opera essenzialmente militante, le è in certa misura "connaturato" un antagonismo teoretico ed ideologico con altre interpretazioni dell'arte in generale e della vita culturale italiana in particolare). Gli anni dell'elaborazione teorica di De Sanctis si inseriscono in un quadro di crisi culturale, quella «crisi di fine secolo» che vede scontrarsi con attriti epocali gli agglomerati titanici del «positivismo soverchiante» (come ne scrisse Croce in Storia d'Italia), del giovane marxismo e di un rinascente e non esaurito idealismo.
L'aspra lotta si conduce sui terreni della letteratura e della critica letteraria, della filosofia della storia, dell'estetica. Immerso in tale temperie, De Sanctis decide di contrastare non solo l'impianto teorico hegeliano, a cui pure, quanto il giovane marxismo, è debitore, ma anche e conseguentemente le posizioni di Benedetto Croce in merito alla metastoricità dei quattro "concetti puri" dell'arte, della logica, dell'economia e dell'etica. Di contro a tale pretesa e alla tesi hegeliana dell'opera letteraria come pura forma, De Sanctis rivendica l'unità storicistica di forma e contenuto, di vita culturale e nazionale, e gli esiti storico-politici di tale unità con i quali si confronterà, pochi decenni più tardi, il Gramsci dei Quaderni.
L'affluente, tra i più importanti e controversi della cultura italiana, che discende da Hegel a De Sanctis e a Gramsci, riverbera nell'intervento di Togliatti alla Commissione culturale nazionale del Pci del 3 aprile 1952 (ricordato nell'introduzione al saggio "L'anima e il mondo"), nel quale l'allora segretario nazionale del partito affermò che la cultura socialista «è tale per il suo contenuto, ma è nazionale per la forma» e che «il pensatore di cui in questo campo dobbiamo saper valutare sia le posizioni progressive che i limiti, è prima di tutto Francesco De Sanctis».
Il saggio di Emiliano Alessandroni "L'anima e il mondo. Francesco De Sanctis tra filosofia, critica letteraria e teoria della letteratura" si inserisce in tale alveo, proponendosi di ripercorrere l'opera di De Sanctis ma soprattutto di affrontare la questione della sua eredità, della comprensione dei suoi limiti storici ma anche della validità della sua lezione. Alessandroni raccoglie la sfida del «diffuso antidesanctisismo di ritorno» partorito, o almeno germogliato sullo stesso terreno ideologico, di quella «condizione postmoderna» negatrice dell'universale ed esaltatrice del particolare. La filosofia del capitalismo maturo rigetta le grandi narrazioni, fa assurgere la negazione dell'ideologia ad ideologia, rifiuta alla storia ogni andamento progressivo e ogni tensione teleologica, rigetta l'istituzione tout court, demolisce l'assunto hegeliano del reale come razionale e lascia solo il pulviscolo del soggettivismo etico ed estetico a colmare l'immenso spazio vuoto, il pressoché infinito margine di manovra dell'immaginazione. Ormai celebrato il «funerale dell'idea», quella grossa macchina ottusa e coercitiva che intrappola e soffoca la soggettività, si può asserire che la «differenza» ha preso ormai il posto della «dialettica» e festeggiare, finalmente, il dispiegarsi di ogni libertà umana (individuale).
La crisi dell'oggettivismo, del realismo, della Ragione hegeliana porta con sé la «crisi della critica». Il Geist, l'universale respiro della storia, viene sostituito dall'«immediatezza dionisiaca» di cui scrive Giorgio Colli in Scritti su Nietzsche. Abbandonata ogni pretesa di rinvenimento di "vero" nell'"intero", sfuma la possibilità di rintracciare la razionalità del sensibile, l'oggettività nell'artistico. L'ontologia perde qualunque significato e l'attività esegetica perde qualunque valore e utilità pubblica. Da tale processo De Sanctis non può che restare travolto.
Alessandroni, che si offre come avvocato dell'«imputato De Sanctis», riporta la critiche mosse all'autore irpino (e, per mezzo di lui, a Gramsci e al marxismo in generale) da Asor Rosa in Il "diagramma De Sanctis" e il nostro:

«La letteratura italiana non può essere subordinata alla storia etica e civile della nazione italiana».

Questa tesi, così lapidariamente esposta, è l'indice di una temperie culturale che crocifigge l'intellettuale engagé e denuncia ogni contaminazione socio-politica (e, negli echi crociani, perfino storica) nella sfera letteraria ed artistica in generale. L'intangibilità di un'arte metastorica tutela questa dal rischio della disonestà intellettuale, della frode ideologica, del tentativo di subordinare, appunto, l'estetico all'etico.
Alessandroni denuncia la «liquidazione sommaria» di De Sanctis operata in nome di una guerra allo «storicismo - desanctisiano, crociano, gramsciano», a quella connessione tra filosofia, storia e politica screditata dal pensiero postmoderno e postideologico. "Liquidazione" che è necessario denunciare proprio e massimamente in quanto "sommaria": la frenesia anti-ideologica che condanna De Sanctis per presunto abuso di categorie etico-politiche nella critica letteraria e per eccessiva politicizzazione delle stanze sacre e apolitiche dell'arte, gli attribuisce grossolanamente la posizione di un'arte per statuto subordinata ad altro, che sia l'etica o la politica. La storicità dell'arte e la sua intrinseca unità di formale e materiale, rivendicate da De Sanctis, insieme all'analisi socio-politica dell'oggetto artistico, non sono sufficienti a privare l'arte di uno statuto autonomo o di una piena dignità ontologica, né ne hanno l'intenzione. Scrive De Sanctis:

«La moralità è una buona cosa. Ma l'essere stati l'Ariosto o il Machiavelli immorali, ha così poco a fare con la storia letteraria delle loro opere, come l'immoralità di Bacone ha poco a fare col suo Organo. Se ne può parlare per incidente, ma non a criterio del merito delle loro scritture».

Si legge qui la rivendicazione dell'autonomia dell'arte, insieme, ancora una volta, alla traccia di Hegel: sono le stesse leggi estetiche, che esclusivamente dalla natura dell'oggetto estetico discendono, a rivelare il «torpore spirituale» delle opere che abbiano una finalità estrinseca, estranea all'ambito dell'arte. È in tali opere che si verifica quella subordinazione dell'arte ad altro, che viene malamente imputata a De Sanctis, e che le rivela come oggetti non artistici in senso proprio, al pari di opuscoli di propaganda o romanzi a tesi scritti su commissione.
L'autentico diagramma De Sanctis dimostra di essere, di contro alle semplificazioni che lo rendono facile bersaglio della critica postmoderna e dei detrattori della tradizione marxista e del realismo (socialista), tutto interno all'orizzonte estetico di ascendenza hegeliana, e il suo autore valorizza la pienezza ontologica dell'opera d'arte sia in qualità di critico letterario che in qualità di teorico.
Il saggio di Emiliano Alessandroni ripercorre la genealogia del pensiero debole, mostra filiazioni e contraddizioni da Nietzsche a noi, riprende le critiche più o meno fondate all'approccio desanctisiano alla cultura e vi risponde puntualmente, sorretto da una bibliografia estesa e da uno stile espositivo allo stesso tempo minuzioso e chiaro. È un saggio militante, che non si limita a fare storia della letteratura, ma guarda al presente con acutezza e rigore teorico. "L'anima e il mondo" è una lettura che illustra ed interroga: sul senso della letteratura e sulla politicità dell'arte, su alcune categorie culturali e politiche in uso oggi, sulla possibilità e sulla necessità di recuperare un orizzonte comune e un senso collettivo dell'esistere e del fare arte. È facile ammirare questo saggio per la sua solidità, specie nei giorni culturalmente travagliati dell'individualismo neoliberista come somma libertà, della pretesa "trasversalità" del politico, dell'impoliticità assurta a patente di onestà intellettuale, della demonizzazione dell'ideologia e perfino della negazione per essa di ogni residuo significato storico.

lunedì 25 giugno 2018

La Storia, di Elsa Morante



A scuola ci hanno insegnato la Storia con S maiuscola. Quel processo immenso, onnicomprensivo, fatto di grandi battaglie, di uomini eccellenti, della concatenazione di meccanismi economici e sommovimenti politici. La storia dei grandi imperi, delle guerre tra nazioni, dello scontro tra il mondo occidentale e i paesi colonizzati. Al di sotto di questa grande macchina complessa e di cui è difficile comprendere il funzionamento, si muove un piccolo mondo anonimo. Un mondo fatto di micro-storie sempre uguali a se stesse, di drammi mai scritti, di piccole e quotidiane lotte per l’esistenza. Il mondo anonimo della vita, per usare le parole di Husserl.

Una piccola umanità disorganizzata e mai narrata è il protagonista di questo capolavoro di Elsa Morante. Quell’umanità che mai avrà la dignità del racconto storiografico, viene accolta dal linguaggio dolce, materno, poetico della scrittrice. Un linguaggio semplice e commovente, come le storie, le piccolissime storie di cui l’autrice racconta.

Il periodo della Storia in cui il romanzo è ambientato va dal 1940 al 1947. Al di sotto della Seconda Guerra mondiale, della caduta del fascismo e della prima età repubblicana, si muove una maestra elementare, Ida, bruttina e avanti con gli anni stuprata da un giovane soldato tedesco, il figlio nato dallo stupro, Useppe, e il suo figlio maggiore, Nino. Attorno a questo piccolo nucleo famigliare si muovono una serie di uomini e donne del popolo, tutti ammassati nei rifugi per sfollati, che urlano la loro antica miseria e le loro speranze.

Il quadro creato dalla Morante è pieno di colori, di dialetti, di storie di povertà, di malattia e di morte. Di  amori struggenti, come quello tra Nino e Useppe, o tra Useppe e Bella, una pastora maremmana capitata nella famiglia per caso. Storie di grandi amicizie, come quella tra Nino e Davide, partigiani che non verranno mai citati nei libri di storia, condannati nel dopoguerra all’emarginazione sociale, alla delinquenza e alla tossicodipendenza.

Il popolo minuto, ritratto con eleganza, intelligenza e delicatezza, è la vittima prediletta della Storia. I grandi eventi lo travolgono, deturpandone l’innocenza, corrompendone l’equilibrio conquistato con lo sforzo quotidiano che l’esistenza gli impone. Come un piede che calpesta un gruppo di laboriose formiche, le quali si allontanano per riunirsi altrove, sempre alla ricerca di un luogo sicuro in cui vivere.

La figura più enigmatica, complessa e immediata al tempo stesso, il personaggio che di sicuro non si riesce a non amare  è Useppe, un bambino fragile, malato, nato per sbaglio. Un bambino che si reca scortato dalla sua cagna in un luogo fantastico sulle sponde del Tevere, che crea tante poesie meravigliose che non saranno mai scritte. Che di fronte agli orrori della guerra non riesce che a tacere.  Useppe incarna l’amore incondizionato per la vita, un amore che ha la sua origine nell’esistenza stessa, nell’essere stesso delle cose. Incarna il dolore antico dell’uomo, quello che necessariamente accompagna la vita. Useppe è la solitudine, la fragilità assoluta esposta al meccanismo impietoso della Storia. Useppe è la grande speranza dell’umanità, che la Storia fino ad oggi ha sempre tradito e ucciso.

La Storia è un grande ed un piccolo romanzo. Piccolo perché con sguardo “micrologico”, così lo chiama Adorno, descrive un mondo sempre ai margini degli eventi e del racconto. Grande perché grande è l’umanità che racconta, grande e profonda la vita che la attraversa, grande il silenzio a cui essa è destinata.


giovedì 7 giugno 2018

"Vàsame" - Il gesto teatrale contro la violenza di genere

«Io vuless addiventà nu poc e vient
Pe trasì p’a forza rint ‘a bocca toia»

Si solleva il sipario e dal buio affiorano figure immobili e allineate, come davanti al plotone d'esecuzione. Sono vestite dei colori del sacrificio rituale: la veste bianca di un agnello immolato, le scarpe rosse come il sangue versato. Dodici vittime in abito da sposa.
I vestiti vaporosi, il pizzo e il raso bianco, emergendo in un chiaroscuro violento tra il nero inchiostro delle quinte e la luce brutale dei faretti, diventano immediatamente lugubri. Le spose rompono i ranghi, si mettono comode, in piedi o sedute, per formare un salotto ultraterreno: si scambiano racconti ed esperienze, sorridendosi incoraggianti, scherzando tra loro. Si tolgono la parola a vicenda, continuano l'una la storia dell'altra. Raccontano di vite diverse, lontane nel tempo e nello spazio, riunite in quel luogo dal più brutale dei comuni denominatori: una morte violenta per mano dell'uomo che diceva di amarle. Le tante storie si fondono in un'unica storia che viene raccontata a più voci.
L'abito da sposa perseguita le donne assassinate nell'aldilà, a ricordare loro che sono morte perché mogli, ingabbiate nelle stecche e nei pizzi del loro rigido ruolo di genere, spinto fino all'estrema, deforme conseguenza. L'abito è la maschera del ruolo, della funzione sociale di quelle donne ammazzate, del luogo nel mondo che era loro predestinato («Tu sei mia, sei nata per me» grida sul palco il marito violento) e dal quale non si sarebbe mai potute evadere se non lasciando, insieme, la vita stessa. Il bouquet che le spose stringono tra le mani per tutta la rappresentazione, invece, rimanda ad un momento preciso nel tempo: il giorno delle nozze. Il giorno della festa, carico di aspettative e tenerezza. Tra le mani delle morte ammazzate, il bouquet diventa un dettaglio amaro, quasi uno sfottò alla loro innocenza, un monito tardivo all'ingenuità felice con cui si sono affidate al loro destino di morte.

Le spose recitano scalze. Le scarpe rosso sangue vengono esposte sul bordo del palco, come le teste dei giustiziati medievali venivano esposte sulle picche. Le ragazze si riuniscono al centro del palco, inginocchiate e abbracciate a formare una campana, come a chiudere dentro il loro pudore. Le circondano, camminando piano con cadenza inesorabile, in cerchio, come squali, i loro mariti. Anche loro non sono che un unico marito: il prevaricatore, il violento umiliatore, l'omicida. Di bocca in bocca, quell'unica voce destinata alla Caina espone le sue ragioni: dei passi del Quinto Canto dell'Inferno. E mentre si racconta di Gianciotto che trafigge a morte la moglie adultera e il suo amante, i mariti camminano sul palco attorno alle spose rannicchiate, e le massacrano simbolicamente, le lapidano sotto una fitta sassaiola di caramelle, che sbattono sui corpi indifesi e sull'assito del palco.



Anche gli omicidi sono incastrati nel loro abito nuziale, nel loro ruolo millenario e patriarcale che quasi li costringe al delitto d'onore. Gli sposi, i maschi, stanno in piedi per tutta la rappresentazione: sono l'elemento verticale della composizione, incarnano il principio attivo e prevaricatore, la forza che modella la materia. Le spose si inginocchiano, si siedono, si sdraiano a terra, si rannicchiano. Indossando guanti di gomma strisciano sul palco, che è il lucido pavimento di un grattacielo di Dubai, per pulirlo come schiave di altri tempi. «Siamo le schiave della globalizzazione» spiega una delle spose col viso rivolto al pubblico mentre insieme alle compagne pulisce il pavimento inginocchiata, con il busto parallelo al palco, solo la testa sollevata per produrre la Parola. Sono spose sottomesse perfino nella postura, ridotte alla posizione orizzontale della massima passività, del sonno inerte, della morte. Sono la materia che si lascia manipolare e distruggere. Le schiave con i guanti di gomma incarnano la duplice sottomissione della donna povera, la subalterna tra i subalterni di cui parla la filosofa Gayatri Spivak. E se Spivak poneva la celebre domanda, "I subalterni possono parlare?", le spose sul palco danno la più amara delle risposte. Esse riescono a produrre la parola solo dopo morte, solo unendo i loro sacrifici umani in un racconto che ormai è corpo (massacrato), è storia, è vita consumata.

L'impotenza della parola precede e fonda il delitto. «Lo aveva detto a tutti che mi avrebbe uccisa» dice una delle spose. «Lo sapevano proprio tutti. Ma allora perché glielo hanno lasciato fare? Perché io gliel'ho lasciato fare?».
Per essere potente, la parola deve essere performativa. L'annuncio («Ho avuto l'annunciazione... come la Madonna!») di un delitto non serve ad impedirlo, la parola che informa può essere trascurata, ma non la parola che obbliga, non la parola che violenta e umilia. Il fidanzato che tutte le altre invidiavano, quello che sommergeva la donna di attenzioni e tenerezze, messaggi e chiamate a tutte le ore, diventa un oppressore, furioso se respinto, se la donna chiede qualche minuto per sé («per respirare, per pensare, per leggere, per andare al cesso, per annoiarmi»).
Le numerose personificazioni del compagno/oppressore scendono dal palco e si aggirano tra gli spettatori parlando al cellulare, in un climax ansioso e ansiogeno, aggredendo verbalmente la donna, la fidanzata, la troia, che deve rispondergli, che deve rendergli conto di come si veste, di chi frequenta, del tempo che decide di non immolare a lui, di tenere per sé.
Lei frappone debole resistenza alla gelosia monomaniacale di lui, alla sua passione distruttrice («Vorrei mangiarti [...] Vorrei berti») che vuole inglobare dentro di sé l'oggetto amato (oggetto proprio perché totalmente abbandonato alla passività, e amato solo perché e fintantoché tale passività sussiste), annullandolo nella propria individualità, isolandolo da qualunque possibile esposizione al contagio libertario. L'eliminazione fisica della sposa non è che un'ultima fase di un processo violento fin nel suo primo dispiegarsi, non è che una forma di violenza distruttrice tra le tante che la sposa è costretta, nella passività oggettuale che le è propria, a subire.

Tra le donne/vittime e i mariti/carnefici c'è un personaggio che si pone al di là della rigida schematizzazione, che scavalca e scardina l'eteronormatività. Il personaggio cerniera, Thomas/Mary, non giunge tanto per conciliare i due poli della dialettica (che poi non è una vera dialettica, perché uno dei due poli è artificialmente annichilito a favore dell'altro, che riempie di sé l'intera relazione) quanto per fare saltare il tavolo. È lui/lei che spoglia le spose, le libera della loro gabbia di genere, spacca simbolicamente la rigidità dei ruoli assegnati, li rende eludibili, oggetto di scelta, spazio di libertà.

Dopo lo spettacolo "Lea - Nella pelle delle donne", "Vàsame - Il polline dei baci" (liberamente tratto da "Ferite a morte" di Serena Dandini) torna a mettere sotto i riflettori la questione della violenza di genere. Lo fa con sensibilità, creatività e grande potenza evocativa e suggestiva, grazie alla regia concettuale e pulita di Rocco Capri Chiumarulo e Anna Garofalo, il contributo della professoressa/tutor Monica Iusco, e la straordinaria interpretazione dei ragazzi e delle ragazze del Liceo Scientifico "G. Salvemini" di Bari.
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...