«Cos’è che fa camminare la strada? È il sogno.»
detto di Tuhair
Ricordarsi all’improvviso di Mejerchol’d, Grotowsky, Artaud, di cosa è stato il teatro nel Novecento, di come ci ha insegnato a scompensare i centri di equilibrio su cui avanzano le nostre giornate. E ricordarsene nel posto giusto: nel buio di un piccolo teatro comunale della “periferia dell’impero”.
Spartacus strit viu’
“L’attore è un atleta del cuore” scriveva Artaud ne Il teatro e il suo doppio, ed è proprio l’impegno fisico, lo sforzo muscolare, che localizza storie e passioni sul palcoscenico, a giustificare uno spettacolo teatrale su un uomo come Franco Nisticò, un “gladiatore” che nella sua vita ha cercato giustizia e libertà dando tutto ciò che poteva dare; come Spartaco, appunto (non a caso Karl Marx ha scritto: “Spartaco è l'uomo più folgorante della storia antica. Un grande generale, un personaggio nobile, veramente rappresentativo del proletariato dell’antichità”).
Ciò che permette di restituire tutto questo senza retorica è il corpo di un attore.
Il volto è nascosto da un casco: come quello che i gladiatori indossavano quando scendevano nell’arena ma anche come le maschere che hanno popolato il teatro in tanti luoghi e tempi diversi. Il copricapo “marziano” e “marziale” di Francesco Gallelli è l’oggetto che tiene insieme la dimensione spettacolare della lotta - i gladiatori non erano anche loro i protagonisti di uno spettacolo? - e il pericolo del campo di battaglia, che richiede di rischiare e di mettere in gioco se stessi.
Ma il casco è anche solo un casco, di quelli che mettiamo quando andiamo in moto; un casco/elmetto/maschera che ricorda così anche la bruta realtà della strada/arena/teatro di cui si parla: la 106, su cui corrono e trascorrono le nostre vite.
Dunque attore e gladiatore: oscillando tra questi due momenti si articola tutto lo sviluppo dello spettacolo e si spiega perché un’opera su un uomo che ha lottato con tutto se stesso per la sua terra è allo stesso tempo un discorso su cosa significa fare teatro in questa terra, ovvero su cosa significa fare teatro tout court.
Biografia, ma anche autobiografia, anzi nessuno delle due: la passione di Franco, il corpo di Francesco e viceversa. Non ci sono furti, non ci sono indebiti paragoni o mescolanze, solo la condivisione dell’arena, anzi la condivisione della strada.
Teatro come lotta, attore come lottatore. In questa congiunzione il gladiatore di Spartacu stit viu’ sviluppa la sua muscolatura affettiva attraverso lo sforzo, il respiro e il sudore. Massimo dispendio di energia per la creazione del bios scenico minimo, la posizione fondamentale che consiste nel rifiutare l’enfasi o la disperazione per concentrarsi sull’unica cosa che conta: l’intensità.
Intensità che aumenta a ogni giro della corda che Francesco salta ininterrottamente per tutta la prima parte della performance: salto, nome, età, luogo, salto, nome, età, luogo, salto, nome, età, luogo. Un elenco interminabile e straziante di vite perse affolla il discorso mentre l’attore continua a saltare e parlare e respirare. Chi non respira dopo un po’ è lo spettatore, ipnotizzato dall’alone luminoso della corda che gira ritmicamente e in ansia perché non si capisce quando finirà (“Sbaglierà? La smetterà prima o poi? Rallenterà? Perché lo sta facendo?”).
Ripetizione, Rabbia, Resistenza. Ripetizione per dire la monotonia di una vita non libera, rabbia per dire la perdita, resistenza per imparare a lottare.
Nel saltare la corda si tengono insieme la frustrazione e la rivalsa e sulla scena vediamo lentamente un corpo che cambia, che si trasforma e innerva le parole che pronuncia. Il salto della corda è infatti l’esercizio fondamentale del lottatore, e in particolare del boxeur, per sviluppare rapidità, gioco di gambe, resistenza e fiducia. Nello sferrare un pugno è più importante la posizione dei piedi che la forza del braccio poiché è lo spostamento del centro di equilibrio a determinare la potenza. La corda, dunque, può essere una frusta o una catena ma è proprio grazie a questo che impariamo a condurre la nostra lotta, a prepararci, ad affermare una forza.
Altrimenti resteremo sempre e soltanto all’estasi vuota dell’attore che “imita” un passo dell’Alcesti, che riproduce con le sole espressioni del volto o con un gesto vuoto la psicologia di un dolore; si tratta invece di essere Alcesti, di vivere e comprendere la perdita di Admeto, quando perde la donna che ama. Si tratta, più precisamente, di ri-vivere, essere capaci di trasformare il dolore, far vivere ancora quelli che ci sono stati portati via, ri-creare il senso di una vita in tutta la sua complessità; anche se questo significa mischiare il triviale e il terribile, l’epopea di biutiful con l’evento spaventoso del comizio di Berlinguer a Padova.
Tutto ciò per imparare a condurre una battaglia autenticamente politica, dove, per prima cosa, bisogna lasciar andare la retorica del vittimismo; l’etica dello schiavo su cui da sempre fanno leva speculatori, ignoranti arricchiti e politicanti da quattro soldi; la logica della necessità che ci spinge a sopportare tutto e ad abbandonare le nostre priorità. Sembra che per imparare, di nuovo, tutto ciò che conta veramente nella vita occorra la finzione, l’arte, il teatro. Serve “l’immagine atletica di un corpo impegnato nella lotta”.
[Qui il link dello spettacolo: http://www.residenzateatrobadolato.it/venerdi-15-dicembre-ore-21-30-spartacu-strit-viu/]
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