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lunedì 18 aprile 2016

Referendum fallito: la complicità dei media

Poco dopo le 23 di ieri sera, sul sito del Ministero dell'Interno compaiono i risultati delle prime sezioni: ovunque, l'affluenza è bassissima. Bene i comuni di Bard, Avigliano, Monopoli, Potenza, Martano e tanti altri che raggiungono abbondantemente il quorum. Eppure, non bastano ad alzare una media incredibilmente bassa. Nella storia d'Italia solo cinque consultazioni referendarie hanno registrato affluenze più basse (e di poco).
Eppure, questa volta, la colpa non è stata tutta del popolo bue.
Fa accapponare la pelle pensare che il Presidente del Consiglio di un Paese democratico abbia invitato i propri cittadini ad astenersi dal regolare esercizio di un proprio diritto, e che un ex Presidente della Repubblica gli abbia fatto eco: responsabili entrambi di un reato, quello di induzione all'astensione. L'invito rivolto ai cittadini italiani, contro la Costituzione e la legge, è stato quello di farsi, per un giorno ufficialmente, sudditi. Le ridicole argomentazioni a sostegno dell'astensionismo erano, tutto sommato, trasparenti: lasciateci fare gli interessi dei nostri amici (e fingete di credere che siamo sinceri nel parlare di occupazione e altre porcate: pia illusione, bugia sociale di quelle che si dicono a denti stretti).
Napolitano e Renzi, trasparenti dopo tutto, sì: la ministra zita del petroliere, sarà una cattiva compagnia per un Premier, ma rende tante cose chiare. Le lobby e gli interessi dei potenti non sono mai state così abbaglianti sotto la luce del sole e sotto quella dei riflettori (al caso Guidi è stata anche data una discreta rilevanza mediatica e pochi possono dire di non averne saputo nulla). Molto più barbina è stata la figura di Mattarella: meschina. Neppure a voler dire un secco "No", mascherato di colori demagogici e paternalistica commiserazione per i poveri idioti che la pensano diversamente. Al Presidente della Repubblica non si fa vilipendio: è stato il voto di Mattarella a fare vilipendio al Paese, alla dignità del popolo. Votare doveva, ma ben di nascosto, otto minuti dopo la fine di quasi tutti i telegiornali della sera: non sia mai che la gente veda, non sia mai che prenda esempio. Votare a sera tardi come un ladro, perché da ieri pare che in Italia esercitare il diritto di voto sia diventato un atto vergognoso.
Quella a cui abbiamo assistito è da definirsi senza mezzi termini una campagna di boicottaggio: contro il diritto che il popolo ha di difendere un bene pubblico, il sottosuolo marino, dai capricci dei petrolieri; contro il dovere che il sovrano ha di regnare.
Un ventennio di Berlusconismo scellerato ci ha insegnato come il potere sappia piegare i media agli interessi di pochi, e tramite quelli indottrinare il sovrano, istupidirlo, farne un bue. Eppure, la disinformazione che ha avuto luogo negli ultimi giorni e in particolare nella giornata di ieri non ha precedenti nell'Italia repubblicana. Sfogliate i giornali di ieri, spulciate le testate online: troverete un oppiaceo disgustoso, col sapore agre e il retrogusto amaro. Da un lato, il tentativo è sabotare il referendum, darlo per perso da mezzogiorno o perfino dal giorno prima, far notare quanto sia normale e giusto non votare, quanto siano inutilmente polemici i "referendari"; dall'altro, la mossa complementare è distrarre, non attirare troppo l'attenzione su questo momento rischioso ma presto passato, in cui il popolo se non narcotizzato a dovere rischia di alzarsi in piedi.

"Giusto votare ma per il momento prendo il sole", "Quante volte è stato usato il jolly dell'astensione", "Un caso giudiziario mai chiarito viene strumentalizzato in questi giorni per spingere il sì. Ma la realtà è ben diversa". Non sono slogan improvvisati da accaniti sostenitori del No sulle loro bacheche personali, ma titoli dell'Unità, con buona pace di Gramsci. E tra un invito all'astensione e uno al no, molto poco camuffati e molto poco costituzionali, la testata trova tempo e modo di titolare anche "Giornata mondiale della libertà di stampa". L'Unità, salvata dalla bancarotta dal governo Renzi e diventata voce ufficiale del padrone, ha continuato imperterrita a fare propaganda, prima e durante il referendum, per la linea del PD, che è la linea dei petrolieri e dei banchieri, che è la linea della passività popolare. E ricorda (forse per ridere!) la libertà di stampa, l'unico attributo che dia dignità a una testata giornalistica, l'indipendenza e l'integrità che sole possono conferirle lucidità di pensiero, imparzialità, utilità sociale, mentre stende per Renzi un tappeto di bava. La stampa in Italia non è mai stata muta come ieri. Muta, e se ha aperto bocca è stato per balbettare parolette da mentecatto. Sì, perché mentre le punte di diamante dell'informazione facevano disinformazione, il resto dei media massicciamente e senza interruzioni si dedicava alle armi di distrazione di massa. La programmazione televisiva di ieri è da tempo dei telefoni bianchi: da "Homefront" con James Franco e Winona Ryder su Rete 4 a "Non è stato mio figlio" con Gabriel Garko su Canale 5 (la rete ammiraglia della Mediaset e quella con gli ascolti più alti della televisione tutta!), da Barbara d'Urso con il suo programma lobotomizzatore a "Le iene" che avevano da pensare a truffe e ad altri cazzi loro. L'unico approfondimento politico su una rete che godeva di una certa autonomia fino a poco tempo fa, La 7, in prima serata parlava del carcere, se vada abolito o meno. Mentre l'affluenza alle urne languiva. Sempre su La 7, lo "Speciale referendum" parte alle 22.50, dieci minuti prima che il referendum si dica ufficialmente chiuso, quando nella maggior parte dei seggi si è già iniziato a chiudere tutto perché ormai chi vuoi che venga più.

Ricordo il meteo del Tg1, il venerdì prima del Referendum dei 4 Sì, nel 2011. Annunciarono bel tempo per il fine settimana e suggerirono agli italiani di godersi una giornata di mare. Sembrava che la manipolazione mediatica non potesse essere perfezionata ulteriormente. Invece, oggi il clima che si respira è da delitto Matteotti. Berlusconi usava tutto il proprio potere e ogni strumento disponibile (lecito e illecito) per il proprio esclusivo interesse, mentre Renzi è un fantoccio ambizioso, manipolato da interessi altrui in cambio di qualche briciola di potere.
Nel film "Novecento" di Bertolucci, Olmo dice guardando fisso in camera, guardando lo spettatore dritto in volto:


«I fascisti non sono mica come i funghi, che nascono così, in una notte. No. I fascisti sono stati i padroni a seminarli, li hanno voluti, li hanno pagati. E coi fascisti i padroni hanno guadagnato sempre di più, al punto che non sapevano più dove metterli i soldi.»

Ieri i padroni erano i piccoli industriali, oggi sono padroni più grossi. I mezzi sono rimasti in parte gli stessi, in parte più raffinati. Ma forse anche il popolo, sotto la crosta di intontimento, imborghesimento, qualunquismo e indifferenza è rimasto lo stesso. Spero che sappiamo occupare tutti gli spazi liberi, spero che sappiamo dare luogo a una nuova Resistenza. Aspettiamo insieme ottobre e speriamo che sia caldo.

martedì 15 aprile 2014

"Tutti uniti! Tutti insieme! Ma scusa, quello non è il padrone?" di Dario Fo

La commedia in due atti, sottotitolata "lotte operaie 1911-1922", racconta di Antonia, una «ocona» svampita e frivola che l'amore per il socialista Norberto «detto Saxofono» (per via della sua voce bassa e suadente) trasforma in una militante temeraria. Al principio della fabula, Antonia capita per caso in uno scantinato pieno di ferventi socialisti intenti a complottare sabotaggi e occupazioni. Tra loro ci sono un fanatico «trombone», un certo Mussolini, e un operaio in giacca e cravatta che subito colpisce Antonia con la bella presenza e la voce appunto da saxofono. Lui ci tiene a stare in giacca e cravatta perché i padroni vogliono gli operai morti di fame, mentre lui lotta per la loro dignità e libertà dallo sfruttamento. Il colpo di fulmine fa appena in tempo ad abbattersi sulla ragazza che una retata delle forze dell'ordine fa sgomberare lo scantinato. Trascinata in commissariato, l'ingenua Antonia spiffera tutto quello che ha sentito, causando l'arresto dei due socialisti che spiccavano nel gruppo di sovversivi: al giovane Mussolini vengono fatti bere due litri di acqua e sale mentre il bel Norberto detto Saxofono, superata l'arrabbiatura iniziale per l'involontaria soffiata di Antonia, la prega di portare un messaggio ai compagni rimasti in libertà. Lei si offre di assumere un'identità fittizia, quella di «morosa» del Saxofono, e quando lui le dà il via libera, lei chiede candidamente: «Posso dirlo in giro?». E, ricevuto un nuovo, stupito assenso, prende a saltellare festosa per il commissariato: «Ho il moroso rivoluzionario più bello del mondo!».
Conosciuti in un covo clandestino di sovversivi, fidanzati in commissariato, i due si sposano dopo un periodo di reclusione che Norberto deve scontare per la sua attività rivoluzionaria e Antonia, già incinta, trascorre tra l'umile lavoro e il nuovo interesse per la politica.
Antonia non si vota alla causa rivoluzionaria per mera osmosi né per ottusa emulazione, né tanto meno a causa di un entusiasmo passeggero legato alle lotte operaie che scuotono Torino (dove la storia è ambientata): lei vuole imparare il linguaggio della politica non per adeguarsi alle passioni del marito, non per compiacerlo, ma per capire le sue arringhe e le sue affermazioni, per seguire i dibattiti che lui tiene con gli amici, per poter fare domande e mettere bocca. L'innamoramento per il suo Saxofono è solo la scintilla che fa scattare in lei il desiderio di comprendere la sua realtà e di viverla autenticamente, in prima persona. Alla consapevolezza segue immediatamente l'azione: dal farsi interrogare dalle colleghe sarte per memorizzare meglio cosa vogliano dire termini come "massimalisti" e "turatiani", passa all'andare in giro carica di volantini di propaganda.
Quando l'attività clandestina di Norberto lo porta per l'ennesima volta dietro le sbarre, Antonia ha una vera e propria crisi di coscienza e la sua fede, che in pochi anni era nata e si era consolidata, vacilla. Si chiede se valga la pena lottare, se non sarebbe meglio avere un marito che non capisce un'acca di politica e si lava le mani dello sfruttamento degli operai, se il suo stesso impegno politico non sia superfluo o addirittura dannoso. Due anni dopo è di nuovo nel commissariato, tra una ricca industriale, il capitano di allora (intanto diventato colonnello) e un fascista, e di fronte a loro difende la causa rivoluzionaria con forza e ironia, senza risparmiare insulti e minacce, senza tentennare di fronte al potere, alla solidità dell'ordine costituito, alla violenza di chi lo rappresenta, ai sacrifici e alle difficoltà in agguato per chi insegue nonostante tutto l'utopia socialista.
Fittamente intrecciata con la vicenda personale dei protagonisti è la storia che corre dal 1911 al 1922: l'occupazione delle fabbriche a Torino, l'attività (controproducente) di sindacati e partito socialista, la frattura al suo interno che porta alla nascita del partito comunista (al quale immediatamente si votano i protagonisti), la nascita dei fascisti a tutela dell'ordine dei padroni, la repressione. In "Novecento", Bernardo Bertolucci fa pronunciare a Olmo Dalcò queste parole:



«I fascisti non sono mica come i funghi, che nascono così, in una notte. No. I fascisti sono stati i padroni a seminarli, li hanno voluti, li hanno pagati. E coi fascisti i padroni hanno guadagnato sempre di più, al punto che non sapevano più dove metterli i soldi.»

Questa stessa fenomenologia è la filigrana che si intravede nelle ultime sequenze della commedia scritta da Dario Fo, quando Antonia (interpretata da Franca Rame nel debutto del 27 marzo 1971 a Varese Belforte) ribatte con sarcasmo e sfacciataggine al borioso fascista che non incarna ancora una forza propriamente politica ma solo il braccio armato vigliacco e interessato dei ricchi industriali e degli agrari.
A proposito di un'altra sua commedia, "Morte accidentale di un anarchico", Dario Fo diceva che è sempre meglio trattare del materiale drammatico in modo comico: così facendo si evita la catarsi, la purificazione attraverso il dolore dell'immedesimazione e il pianto liberatorio. Dopo un bel pianto, l'evento triste o rabbioso che lo ha scatenato è come accantonato. Trasformare un evento doloroso in una farsa (come nel caso dell'assassinio di Giuseppe Pinelli nella commedia citata) invece contribuisce a che il dolore e la rabbia non si sfoghino ma restino nello spettatore a covare, a covare, ad alimentare rabbia e indignazioni più durature di uno sbotto o di un pianto, capaci di stimolare profondamente la coscienza. "Tutti uniti! Tutti insieme! Ma scusa, quello non è il padrone?" cerca di conseguire questo stesso scopo: tra gag clownesche e battute a profusione, delinea la genesi del fascismo all'indomani di una rivoluzione mancata e la lascia a covare nello spettatore (o nel lettore), a decantare, a farsi oggetto di riflessione storica e politica.

sabato 22 marzo 2014

"Il conformista" di Alberto Moravia

Marcello Clerici avverte fin da piccolo di nascondere qualcosa di "sbagliato" dentro di sé. È una sensazione inconsapevole ed opaca che si manifesta in piccoli, malsani modi: in stragi di lucertole. Piccole crudeltà inspiegabili che contemporaneamente generano in Marcello senso di colpa, bisogno di punizione e desiderio di rifuggire questa spietata "anormalità". Per convincersi di non essere poi così diverso dagli altri prova a coinvolgere l'amichetto Roberto nelle sue violenze sulle lucertole, ma il bambino si rifiuta disgustato. Marcello adesso è certo di essere un diverso perché non è più una sua impressione, magari erronea, ma la condanna di un'altra persona.
Cerca una punizione che gli permetta di espiare la sua colpa, che non è l'uccisione delle lucertole ma la semplice diversità. Aspira ad una «normalità riscattatrice»: confessa allora i suoi delitti alla madre, giovane e bella borghese troppo presa da benessere e mondanità per curarsi dei disagi del figlioletto. Per essere certo di guadagnarsi l'attenzione della madre,
Marcello ingigantisce il suo crimine: confessa di avere ucciso un gatto. Sua madre, distrattamente, gli risponde di aiutarla ad allacciarsi una collana.
L'indomani, Marcello scorge movimenti dietro la siepe che divide il suo giardino da quello attiguo di Roberto. Un raptus di violenza lo spinge a colpire quel punto con la fionda, sapendo che il suo gesto ucciderà il compagno di giochi. Dietro il fogliame, invece, si nasconde un gatto, che resta effettivamente ucciso. Nel corpo stecchito della sua vittima, Marcello riconosce il gatto di cui, in qualche modo misterioso e inconsapevole, aveva annunciato la morte il giorno prima. La tragedia di Marcello, a questo punto, è bell'e scritta, e tutta la sua vita di conformista seguirà da questo episodio infantile con l'ineluttabilità di un teorema di geometria.

«Egli sapeva che questa fatalità voleva che uccidesse; ma ciò che lo spaventava di più non era tanto l'omicidio quanto di esservi predestinato, qualunque cosa facesse.»

La violenza diventa allora inevitabile per Marcello, come il desiderio costante di nasconderla a sé stesso e agli altri. Continua per tutta la vita a sforzarsi di dimostrare la propria normalità, quando questo significa sposare Giulia, una giovinetta borghese mediocre e che non ama affatto, o quando significa diventare un fascista.
Sebbene la tragedia di Marcello, disperato conformista, sia già inscritta in nuce nella sua infanzia, un dispiegarsi più completo del suo significato meno manifesto deve attendere i tredici anni del protagonista: Lino, un autista pedofilo, adocchia il ragazzino all'uscita da scuola. Lo adesca, allettandolo con la promessa di regalargli una pistola (fin da piccolo, Marcello amava le armi, e non quelle giocattolo ma quelle vere, quelle davvero capaci di uccidere). Lo carica in macchina, lo porta in una villa deserta e lì cerca di consumare la sua violenza sessuale sul piccolo sprovveduto. In un'estremo tentativo di salvarsi, il ragazzino riesce a impadronirsi della famosa pistola ed esplode un colpo contro l'aggressore per poi dileguarsi dalla finestra, lasciando nella stanza chiusa a chiave dall'interno la scena perfetta di un suicidio. Nessuno cercherà il colpevole.
L'uccisione di Lino non verrà mai scoperta e lo stesso Marcello non racconterà l'episodio che al suo confessore, alla vigilia delle nozze. Ma il ricordo di quell'atto di violenza, naturale eppure imprevisto seguito della serie iniziata con le lucertole e il gatto, tormenta il Marcello adulto, lo spinge con maggiore disperazione alla ricerca delle «divinità gemelle della rispettabilità e della normalità». Quando la violenza e il delitto diventano la regola e la normalità, con l'instaurarsi del regime fascista, a Marcello non resta che entrare nella polizia segreta e dedicarsi con abnegazione al lavoro assegnatogli. Quando gli viene commissionato l'omicidio di Quadri, suo professore ai tempi dell'università, diventato antifascista e scappato a Parigi, Marcello accetta con tutta la gravità dovuta ad un rito purificatorio. L'omicidio non è più un comportamento deviante ma il prezzo della normalità.

Quando Bernardo Bertolucci mette mano a Il conformista per farne un film, la storia firmata da Moravia non resta materia inerte ma viene manipolata ed arricchita di risvolti psicologici di sapore freudiano. L'uccisione di Quadri e la reclusione del padre di Marcello in manicomio diventano un duplice simbolo edipico, una doppia figura di padre rinnegata e assassinata (Franco Prono identifica nel doppio parricidio l'ostilità "professionale" di Bertolucci verso i suoi due padri d'arte, Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini). Ma il tassello più pregevole con cui Bernardo Bertolucci arricchisce Il conformista di Moravia è l'esplicitazione di un sottotesto che nel romanzo resta del tutto larvato (al punto che ci si può chiedere se facesse davvero parte delle intenzioni di Moravia o se sia frutto originale di interpretazione). Se nel romanzo il piccolo Marcello uccide Lino per difendersi da un'aggressione violenta, nel film il giovinetto sembra assecondare inizialmente le avances del pedofilo e solo qualche minuto
Jean-Louis Trintignant nel ruolo di Marcello
Clerici ("Il conformista", 1970)
dopo un terrore violento lo spinge al tentato omicidio. La verità è che il giovane Marcello in Lino cerca di assassinare sé stesso, quella parte di sé che non disdegnava l'idea di un rapporto omosessuale. Marcello allora è un criptogay e questa è la radice profonda della "diversità" che ha in qualche modo sempre avvertito e che solo l'incontro con Lino ha portato alla luce in tutta la sua devastante verità. Marcello è omosessuale e non accetta di esserlo, quindi disperatamente conformista, quindi convintamente fascista e dedito alla sua causa con uno zelo che non ha nulla di ideologico né di puramente politico.
Terrorizzato dai rapporti interpersonali autentici, dai tête-à-tête, Marcello è a suo agio nella folla, in autobus, nelle adunanze oceaniche. È il regime che inghiotte il singolo e ne manipola la coscienza, facendosi carico dei suoi delitti per dargli l'impressione di non averli compiuti. Come i nazisti processati a Norimberga dissero di non sentirsi colpevoli dei crimine commessi in quanto si erano limitati ad "eseguire gli ordini", Marcello sente il peso e la gravità delle violenze compiute solo fino a quando è solo nel realizzarle. Quando uccidere non è più l'hobby perverso di un bambino ma la regola del regime, l'ordine che viene dall'alto, non è più una colpa da espiare ma un atto meritorio. L'assurdo diventa generalizzato e chi mantiene la lucidità e l'individualità, come l'antifascista Quadri fuggito a Parigi, diventa il "diverso", l'anormale, il capro espiatorio da sacrificare all'ordine costituito.
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