Marcello Clerici avverte fin da piccolo di nascondere qualcosa di "sbagliato" dentro di sé. È una sensazione inconsapevole ed opaca che si manifesta in piccoli, malsani modi: in stragi di lucertole. Piccole crudeltà inspiegabili che contemporaneamente generano in Marcello senso di colpa, bisogno di punizione e desiderio di rifuggire questa spietata "anormalità". Per convincersi di non essere poi così diverso dagli altri prova a coinvolgere l'amichetto Roberto nelle sue violenze sulle lucertole, ma il bambino si rifiuta disgustato. Marcello adesso è certo di essere un diverso perché non è più una sua impressione, magari erronea, ma la condanna di un'altra persona.
Cerca una punizione che gli permetta di espiare la sua colpa, che non è l'uccisione delle lucertole ma la semplice diversità. Aspira ad una «normalità riscattatrice»: confessa allora i suoi delitti alla madre, giovane e bella borghese troppo presa da benessere e mondanità per curarsi dei disagi del figlioletto. Per essere certo di guadagnarsi l'attenzione della madre, Marcello ingigantisce il suo crimine: confessa di avere ucciso un gatto. Sua madre, distrattamente, gli risponde di aiutarla ad allacciarsi una collana.
L'indomani, Marcello scorge movimenti dietro la siepe che divide il suo giardino da quello attiguo di Roberto. Un raptus di violenza lo spinge a colpire quel punto con la fionda, sapendo che il suo gesto ucciderà il compagno di giochi. Dietro il fogliame, invece, si nasconde un gatto, che resta effettivamente ucciso. Nel corpo stecchito della sua vittima, Marcello riconosce il gatto di cui, in qualche modo misterioso e inconsapevole, aveva annunciato la morte il giorno prima. La tragedia di Marcello, a questo punto, è bell'e scritta, e tutta la sua vita di conformista seguirà da questo episodio infantile con l'ineluttabilità di un teorema di geometria.
«Egli sapeva che questa fatalità voleva che uccidesse; ma ciò che lo spaventava di più non era tanto l'omicidio quanto di esservi predestinato, qualunque cosa facesse.»
La violenza diventa allora inevitabile per Marcello, come il desiderio costante di nasconderla a sé stesso e agli altri. Continua per tutta la vita a sforzarsi di dimostrare la propria normalità, quando questo significa sposare Giulia, una giovinetta borghese mediocre e che non ama affatto, o quando significa diventare un fascista.
Sebbene la tragedia di Marcello, disperato conformista, sia già inscritta in nuce nella sua infanzia, un dispiegarsi più completo del suo significato meno manifesto deve attendere i tredici anni del protagonista: Lino, un autista pedofilo, adocchia il ragazzino all'uscita da scuola. Lo adesca, allettandolo con la promessa di regalargli una pistola (fin da piccolo, Marcello amava le armi, e non quelle giocattolo ma quelle vere, quelle davvero capaci di uccidere). Lo carica in macchina, lo porta in una villa deserta e lì cerca di consumare la sua violenza sessuale sul piccolo sprovveduto. In un'estremo tentativo di salvarsi, il ragazzino riesce a impadronirsi della famosa pistola ed esplode un colpo contro l'aggressore per poi dileguarsi dalla finestra, lasciando nella stanza chiusa a chiave dall'interno la scena perfetta di un suicidio. Nessuno cercherà il colpevole.
L'uccisione di Lino non verrà mai scoperta e lo stesso Marcello non racconterà l'episodio che al suo confessore, alla vigilia delle nozze. Ma il ricordo di quell'atto di violenza, naturale eppure imprevisto seguito della serie iniziata con le lucertole e il gatto, tormenta il Marcello adulto, lo spinge con maggiore disperazione alla ricerca delle «divinità gemelle della rispettabilità e della normalità». Quando la violenza e il delitto diventano la regola e la normalità, con l'instaurarsi del regime fascista, a Marcello non resta che entrare nella polizia segreta e dedicarsi con abnegazione al lavoro assegnatogli. Quando gli viene commissionato l'omicidio di Quadri, suo professore ai tempi dell'università, diventato antifascista e scappato a Parigi, Marcello accetta con tutta la gravità dovuta ad un rito purificatorio. L'omicidio non è più un comportamento deviante ma il prezzo della normalità.
Quando Bernardo Bertolucci mette mano a Il conformista per farne un film, la storia firmata da Moravia non resta materia inerte ma viene manipolata ed arricchita di risvolti psicologici di sapore freudiano. L'uccisione di Quadri e la reclusione del padre di Marcello in manicomio diventano un duplice simbolo edipico, una doppia figura di padre rinnegata e assassinata (Franco Prono identifica nel doppio parricidio l'ostilità "professionale" di Bertolucci verso i suoi due padri d'arte, Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini). Ma il tassello più pregevole con cui Bernardo Bertolucci arricchisce Il conformista di Moravia è l'esplicitazione di un sottotesto che nel romanzo resta del tutto larvato (al punto che ci si può chiedere se facesse davvero parte delle intenzioni di Moravia o se sia frutto originale di interpretazione). Se nel romanzo il piccolo Marcello uccide Lino per difendersi da un'aggressione violenta, nel film il giovinetto sembra assecondare inizialmente le avances del pedofilo e solo qualche minuto
dopo un terrore violento lo spinge al tentato omicidio. La verità è che il giovane Marcello in Lino cerca di assassinare sé stesso, quella parte di sé che non disdegnava l'idea di un rapporto omosessuale. Marcello allora è un criptogay e questa è la radice profonda della "diversità" che ha in qualche modo sempre avvertito e che solo l'incontro con Lino ha portato alla luce in tutta la sua devastante verità. Marcello è omosessuale e non accetta di esserlo, quindi disperatamente conformista, quindi convintamente fascista e dedito alla sua causa con uno zelo che non ha nulla di ideologico né di puramente politico.
Jean-Louis Trintignant nel ruolo di Marcello Clerici ("Il conformista", 1970) |
Terrorizzato dai rapporti interpersonali autentici, dai tête-à-tête, Marcello è a suo agio nella folla, in autobus, nelle adunanze oceaniche. È il regime che inghiotte il singolo e ne manipola la coscienza, facendosi carico dei suoi delitti per dargli l'impressione di non averli compiuti. Come i nazisti processati a Norimberga dissero di non sentirsi colpevoli dei crimine commessi in quanto si erano limitati ad "eseguire gli ordini", Marcello sente il peso e la gravità delle violenze compiute solo fino a quando è solo nel realizzarle. Quando uccidere non è più l'hobby perverso di un bambino ma la regola del regime, l'ordine che viene dall'alto, non è più una colpa da espiare ma un atto meritorio. L'assurdo diventa generalizzato e chi mantiene la lucidità e l'individualità, come l'antifascista Quadri fuggito a Parigi, diventa il "diverso", l'anormale, il capro espiatorio da sacrificare all'ordine costituito.
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