A scuola ci hanno insegnato la Storia con S maiuscola. Quel
processo immenso, onnicomprensivo, fatto di grandi battaglie, di uomini
eccellenti, della concatenazione di meccanismi economici e sommovimenti politici.
La storia dei grandi imperi, delle guerre tra nazioni, dello scontro tra il
mondo occidentale e i paesi colonizzati. Al di sotto di questa grande macchina
complessa e di cui è difficile comprendere il funzionamento, si muove un
piccolo mondo anonimo. Un mondo fatto di micro-storie sempre uguali a se
stesse, di drammi mai scritti, di piccole e quotidiane lotte per l’esistenza.
Il mondo anonimo della vita, per usare le parole di Husserl.
Una piccola umanità disorganizzata e mai narrata è il
protagonista di questo capolavoro di Elsa Morante. Quell’umanità che mai avrà
la dignità del racconto storiografico, viene accolta dal linguaggio dolce,
materno, poetico della scrittrice. Un linguaggio semplice e commovente, come le
storie, le piccolissime storie di cui l’autrice racconta.
Il periodo della Storia in cui il romanzo è ambientato va
dal 1940 al 1947. Al di sotto della Seconda Guerra mondiale, della caduta del fascismo
e della prima età repubblicana, si muove una maestra elementare, Ida, bruttina
e avanti con gli anni stuprata da un giovane soldato tedesco, il figlio nato
dallo stupro, Useppe, e il suo figlio maggiore, Nino. Attorno a questo piccolo nucleo
famigliare si muovono una serie di uomini e donne del popolo, tutti ammassati
nei rifugi per sfollati, che urlano la loro antica miseria e le loro speranze.
Il quadro creato dalla Morante è pieno di colori, di
dialetti, di storie di povertà, di malattia e di morte. Di amori struggenti, come quello tra Nino e
Useppe, o tra Useppe e Bella, una pastora maremmana capitata nella famiglia per
caso. Storie di grandi amicizie, come quella tra Nino e Davide, partigiani che
non verranno mai citati nei libri di storia, condannati nel dopoguerra all’emarginazione
sociale, alla delinquenza e alla tossicodipendenza.
Il popolo minuto, ritratto con eleganza, intelligenza e
delicatezza, è la vittima prediletta della Storia. I grandi eventi lo
travolgono, deturpandone l’innocenza, corrompendone l’equilibrio conquistato
con lo sforzo quotidiano che l’esistenza gli impone. Come un piede che calpesta
un gruppo di laboriose formiche, le quali si allontanano per riunirsi altrove,
sempre alla ricerca di un luogo sicuro in cui vivere.
La figura più enigmatica, complessa e immediata al tempo
stesso, il personaggio che di sicuro non si riesce a non amare è Useppe, un bambino fragile, malato, nato per
sbaglio. Un bambino che si reca scortato dalla sua cagna in un luogo fantastico
sulle sponde del Tevere, che crea tante poesie meravigliose che non saranno mai
scritte. Che di fronte agli orrori della guerra non riesce che a tacere. Useppe incarna l’amore incondizionato per la
vita, un amore che ha la sua origine nell’esistenza stessa, nell’essere stesso
delle cose. Incarna il dolore antico dell’uomo, quello che necessariamente
accompagna la vita. Useppe è la solitudine, la fragilità assoluta esposta al
meccanismo impietoso della Storia. Useppe è la grande speranza dell’umanità,
che la Storia fino ad oggi ha sempre tradito e ucciso.
La Storia è un
grande ed un piccolo romanzo. Piccolo perché con sguardo “micrologico”, così lo
chiama Adorno, descrive un mondo sempre ai margini degli eventi e del racconto.
Grande perché grande è l’umanità che racconta, grande e profonda la vita che la
attraversa, grande il silenzio a cui essa è destinata.
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