Scritto all’indomani della guerra, Il sentiero dei nidi di ragno è la
testimonianza che Italo Calvino rende della sua esperienza partigiana e induce
inevitabili riflessioni sulle emozioni e sul senso di quanto accadde in «un Paese diviso, più nero nel viso, più
rosso d’amore» (per usare le belle parole di Rino Gaetano). Certamente, la
lotta fratricida che ha insanguinato il nostro Paese e ne ha dilaniato la
coscienza in quegli anni doveva
essere raccontata, e la cosa fu da subito evidente per i suoi protagonisti.
Nella presentazione al libro, Calvino scrive:
«Questo
romanzo è il primo che ho scritto […].
Al tempo in cui l’ho scritto, creare una “letteratura della Resistenza” era
ancora un problema aperto, scrivere “il romanzo della Resistenza” si poneva come
un imperativo; […] ogni volta che si
è stati testimoni o attori d’un’epoca storica ci si sente presi da una
responsabilità speciale […]. A me,
questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema come troppo impegnativo
e solenne per le mie forze. E allora, proprio per non lasciarmi mettere in
soggezione dal tema, decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio.
Tutto doveva essere visto dagli occhi d’un bambino, in un ambiente di monelli e
vagabondi. Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana,
ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore,
l’aspro sapore, il ritmo…»
Nasce dunque da questa esigenza la
struttura narrativa del libro, che attraverso le vicende di Pin lancia uno
sguardo come in tralice alla Resistenza. Il ragazzino è un protagonista
tutt’altro che prevedibile, tutt’altro che eroico, tutt’altro che classico: è
un ruffianello, fratello della puttana più famosa del circondario. Orfano di
madre e abbandonato dal padre, cresciuto tra gli uomini dell’osteria, bevitori,
bontemponi e talvolta spietati, disprezzato dagli altri bambini e profondamente
solo, il piccolo Pin si ritrova per caso nel mezzo della guerra partigiana.
Finisce invischiato in “gap” e marce notturne tra i boschi della Liguria in
seguito al furto di una pistola ad un marinaio tedesco, commissionatogli dagli
amici dell’osteria, che in un modo confuso e discontinuo sono attirati dalla
causa della Resistenza e tentano di muovere i primi passi in quella direzione.
Pin sottrae l’arma al tedesco, un cliente della sorella, e poi nasconde la
preziosa refurtiva sul sentiero dei nidi di ragno, il suo posto segreto, quello
che solo lui riconosce tra le scarpate, i canali e i campi, e che un giorno
mostrerà al suo primo e unico vero amico.
Il furto viene scoperto, Pin viene
catturato e interrogato dai fascisti, viene fatto prigioniero. In galera
conosce Lupo Rosso, un partigiano giovane e accattivante, che riesce ad evadere
con l’aiuto del piccolo e lo porta con sé. Dalla loro fuga rocambolesca si
snocciolano gli episodi, gli eventi e soprattutto i ritratti di un’epoca
fotografata da Calvino nella sua dimensione più umana, meno eroica, più vera e
suggestiva. Quello che l’autore voleva assolutamente evitare, infatti, era
contribuire a quella che sarebbe stata una letteratura in qualche modo falsata
della Resistenza, quella che avrebbe indicato i partigiani come degli eroi
senza macchia e senza paura, trascurandone difetti e debolezze, allontanando la
letteratura dal suo valore di testimonianza per farne uno strumento di retorica
e indottrinamento acritico e astorico. Scrive Calvino, sempre nella
presentazione, che Il sentiero dei nidi
di ragno nacque come un vero e proprio atto di protesta.
«Contro
chi? Direi che volevo combattere contemporaneamente su due fronti, lanciare una
sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una
Resistenza agiografica ed edulcorata.[…]
Il pericolo che alla nuova letteratura fosse assegnata una funzione celebrativa
e didascalica, era nell’aria: quando scrissi questo libro l’avevo appena
avvertito, e già stavo a pelo ritto, a unghie sfoderate contro l’incombere
d’una nuova retorica. […] La mia
reazione d’allora potrebbe essere enunciata così: “Ah, sì, volete ‘l’eroe
socialista’? Volete il ‘romanticismo rivoluzionario’? E io vi scrivo una storia
di partigiani in cui nessuno è eroe, nessuno ha coscienza di classe. […] E sarà l’opera più positiva, più
rivoluzionaria di tutte! Che ce ne importa di chi è già un eroe, di chi la
coscienza ce l’ha già? È il processo per arrivarci che si deve rappresentare!
Finché resterà un solo individuo al di qua della coscienza, il nostro dovere
sarà di occuparci di lui e solo di lui!”»
È per questo, per combattere «la battaglia sul secondo fronte, quello interno
alla “cultura di sinistra”», che Calvino sceglie come protagonisti i
peggiori partigiani immaginabili e anche le figure secondarie (gli uomini
dell’osteria, i paesani, lo stesso Pin) sono pressappoco disonorevoli e ben
lontane dalla paventata “agiografia” di cui parla Calvino: ci sono
voltagabbana, che alla prima occasione passano alla Brigata Nera; c’è chi
combatte contro i fascisti solo per amore delle armi o per il gusto di
battaglie e rastrellamenti; qualcuno combatte per le mucche che gli sono state
portate vie, ignorando qualunque ideale patriottico o politico; c’è il cuoco
estremista che non risulta più rispettabile o credibile dei contadinotti che di
politica non sanno niente e quasi non vogliono sentir parlare; c’è Lupo Rosso,
che si dà un sacco di arie; il Dritto, il comandante, è un ragazzo alla deriva,
svogliato e disperatamente alla ricerca di una morte violenta. Lo stesso Pin si
unisce ai partigiani senza avere la minima coscienza del significato storico
del suo gesto, e vive la sua esperienza della Resistenza come una strana
avventura da cui ricavare la stima dei grandi, del divertimento e forse qualche
buon amico (che troverà nel Cugino, un uomo semplice e misogino, assassino e
solitario).
Oltre all’impianto narrativo, che si
sviluppa in modo obliquo e parziale dal punto di vista di un bambino che non ha
coscienza di quanto accade, non sa né comprende tutto, anche la scelta dei
personaggi è dunque funzionale al particolare scopo di Calvino: raccontare la
Resistenza senza la pretesa di evangelizzare o indottrinare tramite suggestioni
lacrimevoli o elogi al limite del falso storico. Il risultato è di
straordinario valore, oltre che di grande delicatezza: anche la battaglia è
raccontata non dal luogo dello scontro ma dal campo, e alle orecchie di Pin
arrivano i suoni lontani dei colpi e poi i canti vittoriosi. Eppure, per quanto
schermata dalla distanza e dall’incoscienza, la battaglia c’è stata e arriva al
lettore chiara e forte la testimonianza di essa. Straordinario, un’interruzione
nel flusso narrativo del libro ma certamente il suo perno e snodo fondamentale,
è il capitolo IX, costituito quasi esclusivamente dal monologo del commissario
di brigata, Kim (che tra l’altro possiede, significativamente, il nome del
protagonista dell’omonimo libro di Rudyard Kipling, il romanzo che da bambino
conquistò Calvino ai piaceri della letteratura): attraverso le sue parole,
emerge il valore storico e soprattutto umano della Resistenza reale, quella
vissuta dagli uomini concreti animati dai loro particolari bisogni e interessi,
diversi dagli “eroi socialisti” che
sarebbero stati falsi e meno significativi e che avrebbero ricondotto ad
un’inconsistente e fasulla «patria fatta
di parole». Kim si interroga su cosa spinga uomini diversi per estrazione
sociale, cultura e obiettivi a rischiare la vita sui monti, tra gli stenti e i
pidocchi, e soprattutto si chiede perché e in cosa un partigiano sia diverso da
un fascista. La riflessione di Kim riempie della pagine bellissime che meritano
di essere lette per intero, e che parlano di coraggio, sacrificio e del vero
valore della Resistenza: il suo significato autentico di riscatto umano,
«elementare,
anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento,
per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue
inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro
politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla
contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la
miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.»
Vi lasciamo con la bella canzone dei Modena City Ramblers, Il sentiero, ispirata a questo imperdibile romanzo e contenuta nell'album Appunti partigiani.