Su di noi

mercoledì 26 giugno 2013

"Il sentiero dei nidi di ragno" di Italo Calvino

Scritto all’indomani della guerra, Il sentiero dei nidi di ragno è la testimonianza che Italo Calvino rende della sua esperienza partigiana e induce inevitabili riflessioni sulle emozioni e sul senso di quanto accadde in «un Paese diviso, più nero nel viso, più rosso d’amore» (per usare le belle parole di Rino Gaetano). Certamente, la lotta fratricida che ha insanguinato il nostro Paese e ne ha dilaniato la coscienza in quegli anni doveva essere raccontata, e la cosa fu da subito evidente per i suoi protagonisti. Nella presentazione al libro, Calvino scrive:

«Questo romanzo è il primo che ho scritto […]. Al tempo in cui l’ho scritto, creare una “letteratura della Resistenza” era ancora un problema aperto, scrivere “il romanzo della Resistenza” si poneva come un imperativo; […] ogni volta che si è stati testimoni o attori d’un’epoca storica ci si sente presi da una responsabilità speciale […]. A me, questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema come troppo impegnativo e solenne per le mie forze. E allora, proprio per non lasciarmi mettere in soggezione dal tema, decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto dagli occhi d’un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi. Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo…»

Nasce dunque da questa esigenza la struttura narrativa del libro, che attraverso le vicende di Pin lancia uno sguardo come in tralice alla Resistenza. Il ragazzino è un protagonista tutt’altro che prevedibile, tutt’altro che eroico, tutt’altro che classico: è un ruffianello, fratello della puttana più famosa del circondario. Orfano di madre e abbandonato dal padre, cresciuto tra gli uomini dell’osteria, bevitori, bontemponi e talvolta spietati, disprezzato dagli altri bambini e profondamente solo, il piccolo Pin si ritrova per caso nel mezzo della guerra partigiana. Finisce invischiato in “gap” e marce notturne tra i boschi della Liguria in seguito al furto di una pistola ad un marinaio tedesco, commissionatogli dagli amici dell’osteria, che in un modo confuso e discontinuo sono attirati dalla causa della Resistenza e tentano di muovere i primi passi in quella direzione. Pin sottrae l’arma al tedesco, un cliente della sorella, e poi nasconde la preziosa refurtiva sul sentiero dei nidi di ragno, il suo posto segreto, quello che solo lui riconosce tra le scarpate, i canali e i campi, e che un giorno mostrerà al suo primo e unico vero amico.
Il furto viene scoperto, Pin viene catturato e interrogato dai fascisti, viene fatto prigioniero. In galera conosce Lupo Rosso, un partigiano giovane e accattivante, che riesce ad evadere con l’aiuto del piccolo e lo porta con sé. Dalla loro fuga rocambolesca si snocciolano gli episodi, gli eventi e soprattutto i ritratti di un’epoca fotografata da Calvino nella sua dimensione più umana, meno eroica, più vera e suggestiva. Quello che l’autore voleva assolutamente evitare, infatti, era contribuire a quella che sarebbe stata una letteratura in qualche modo falsata della Resistenza, quella che avrebbe indicato i partigiani come degli eroi senza macchia e senza paura, trascurandone difetti e debolezze, allontanando la letteratura dal suo valore di testimonianza per farne uno strumento di retorica e indottrinamento acritico e astorico. Scrive Calvino, sempre nella presentazione, che Il sentiero dei nidi di ragno nacque come un vero e proprio atto di protesta.

«Contro chi? Direi che volevo combattere contemporaneamente su due fronti, lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata.[…] Il pericolo che alla nuova letteratura fosse assegnata una funzione celebrativa e didascalica, era nell’aria: quando scrissi questo libro l’avevo appena avvertito, e già stavo a pelo ritto, a unghie sfoderate contro l’incombere d’una nuova retorica. […] La mia reazione d’allora potrebbe essere enunciata così: “Ah, sì, volete ‘l’eroe socialista’? Volete il ‘romanticismo rivoluzionario’? E io vi scrivo una storia di partigiani in cui nessuno è eroe, nessuno ha coscienza di classe. […] E sarà l’opera più positiva, più rivoluzionaria di tutte! Che ce ne importa di chi è già un eroe, di chi la coscienza ce l’ha già? È il processo per arrivarci che si deve rappresentare! Finché resterà un solo individuo al di qua della coscienza, il nostro dovere sarà di occuparci di lui e solo di lui!”»

È per questo, per combattere «la battaglia sul secondo fronte, quello interno alla “cultura di sinistra”», che Calvino sceglie come protagonisti i peggiori partigiani immaginabili e anche le figure secondarie (gli uomini dell’osteria, i paesani, lo stesso Pin) sono pressappoco disonorevoli e ben lontane dalla paventata “agiografia” di cui parla Calvino: ci sono voltagabbana, che alla prima occasione passano alla Brigata Nera; c’è chi combatte contro i fascisti solo per amore delle armi o per il gusto di battaglie e rastrellamenti; qualcuno combatte per le mucche che gli sono state portate vie, ignorando qualunque ideale patriottico o politico; c’è il cuoco estremista che non risulta più rispettabile o credibile dei contadinotti che di politica non sanno niente e quasi non vogliono sentir parlare; c’è Lupo Rosso, che si dà un sacco di arie; il Dritto, il comandante, è un ragazzo alla deriva, svogliato e disperatamente alla ricerca di una morte violenta. Lo stesso Pin si unisce ai partigiani senza avere la minima coscienza del significato storico del suo gesto, e vive la sua esperienza della Resistenza come una strana avventura da cui ricavare la stima dei grandi, del divertimento e forse qualche buon amico (che troverà nel Cugino, un uomo semplice e misogino, assassino e solitario).
Oltre all’impianto narrativo, che si sviluppa in modo obliquo e parziale dal punto di vista di un bambino che non ha coscienza di quanto accade, non sa né comprende tutto, anche la scelta dei personaggi è dunque funzionale al particolare scopo di Calvino: raccontare la Resistenza senza la pretesa di evangelizzare o indottrinare tramite suggestioni lacrimevoli o elogi al limite del falso storico. Il risultato è di straordinario valore, oltre che di grande delicatezza: anche la battaglia è raccontata non dal luogo dello scontro ma dal campo, e alle orecchie di Pin arrivano i suoni lontani dei colpi e poi i canti vittoriosi. Eppure, per quanto schermata dalla distanza e dall’incoscienza, la battaglia c’è stata e arriva al lettore chiara e forte la testimonianza di essa. Straordinario, un’interruzione nel flusso narrativo del libro ma certamente il suo perno e snodo fondamentale, è il capitolo IX, costituito quasi esclusivamente dal monologo del commissario di brigata, Kim (che tra l’altro possiede, significativamente, il nome del protagonista dell’omonimo libro di Rudyard Kipling, il romanzo che da bambino conquistò Calvino ai piaceri della letteratura): attraverso le sue parole, emerge il valore storico e soprattutto umano della Resistenza reale, quella vissuta dagli uomini concreti animati dai loro particolari bisogni e interessi, diversi dagli “eroi socialisti” che sarebbero stati falsi e meno significativi e che avrebbero ricondotto ad un’inconsistente e fasulla «patria fatta di parole». Kim si interroga su cosa spinga uomini diversi per estrazione sociale, cultura e obiettivi a rischiare la vita sui monti, tra gli stenti e i pidocchi, e soprattutto si chiede perché e in cosa un partigiano sia diverso da un fascista. La riflessione di Kim riempie della pagine bellissime che meritano di essere lette per intero, e che parlano di coraggio, sacrificio e del vero valore della Resistenza: il suo significato autentico di riscatto umano,

«elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.»



Vi lasciamo con la bella canzone dei Modena City Ramblers, Il sentiero, ispirata a questo imperdibile romanzo e contenuta nell'album Appunti partigiani.


martedì 18 giugno 2013

"Venuto al mondo" di Margaret Mazzantini

Venuto al mondo è la storia di una nascita, di una vita figlia della violenza, della morte, della guerra, che porta dentro di sé, nella sua purezza, una sorta di redenzione. Una salvezza che si dà attraverso il semplice affermarsi della vita sulla morte.


Film del 2012, diretto da Sergio Castellitto
É una storia molto intensa, commovente: la protagonista, Gemma, decide di tornare a Sarajevo dopo 16 anni, e decide di portare suo figlio Pietro, nella città in cui è nato. Sulla carta d'identità di Pietro c'è scritto che è nato a Sarajevo, ma lui non ha mai capito perché. I ricordi si intrecciano con la narrazione del presente: Gemma fa conoscere a Pietro un suo vecchio amico sarajevita, Gojko, conosciuto nel 1984, anno del primo viaggio di Gemma a Sarajevo. In quel viaggio conosce anche Diego, futuro marito di Gemma e padre di Pietro. L'amore tra Diego e Gemma, all'inizio idilliaco, è travagliato da una serie di difficoltà: la prima fra tutte è la difficoltà di Gemma ad avere bambini. La prima parte del romanzo si concentra sulla narrazione del desiderio spasmodico, e dei tentativi disperati fatti dalla coppia per cercare di avere un bambino: dopo diversi tentativi falliti, giungono a Sarajevo, mentre la guerra del 1992 sta per scoppiare. Qui incontrano, tramite il loro amico Gojko, una giovane ragazza, Aska, che decide di "prestare" il suo utero, accettando di concepire un figlio con Diego. Le cose non andranno come previsto, nascerà un amore tra Diego e Aska, scoppierà la guerra, Gemma tornerà con Pietro appena nato...  Alla fine del romanzo, non solo Pietro tornerà in Italia con una nuova consapevolezza riguardo alla sua nascita, ma soprattutto Gemma andrà via da Sarajevo sconvolta: scoprirà l'orrore, la violenza, l'umiliazione da cui suo figlio è venuto al mondo.
Man mano che il racconto prosegue, la storia diventa sempre più coinvolgente e drammatica: l'incontro tra Gemma e Diego, i tentativi sempre più disperati di avere un bambino, la guerra, l'amore tra Diego e Aska, la tossicodipendenza di Diego, la sua morte, la scoperta della verità sulla nascita di Pietro.
Tutto questo unito ad uno stile elegante, raffinato, a volte poetico. Bellissima, ad esempio, è la descrizione del corpo di Gemma, il corpo di una donna che non può avere figli: 
«Il corpo come un pianeta che vaga nel cosmo, che sprofonda da un vuoto all'altro. Il corpo come un secchio abbandonato che raccoglie acqua piovana, scolo di tetti, sporco di ruggine. Il corpo come un vuoto attraversato da un razzo, uno di quegli shuttle, di quegli sputnik, che entra dalla vagina ed esce dalla testa. Lasciando una coda di fuoco, come la Fiamma Eterna. Il corpo come un insieme di punti che tirano, cellule che combattono l'una contro l'altra
 Nonostante la drammaticità della storia, e la bellezza dello stile della scrittrice, questo romanzo ha suscitato in me non poche perplessità: innanzitutto, il desiderio di Gemma di avere un figlio, sempre più intenso, tormentato, che sfocia nell'isteria. Gemma definisce Aska, la ragazza pagata per concepire un figlio con Diego, la "pecora": Aska rappresenta per Gemma un mezzo per ottenere ciò che desidera, un corpo vuoto, pronto ad essere colmato di tutti i sogni e di tutte le ambizioni della protagonista. Diego e Gemma finiscono col diventare due piccoli borghesi, benestanti e annoiati, colmi di cose senza importanza, che credono di poter sfuggire alla noia e all'insensatezza della propria vita concependo un figlio, o andando alla ricerca di realtà terribili, come la guerra, ma più autentiche: finiscono a Sarajevo, il luogo esotico in cui si erano conosciuti, portando con sè il loro insulso dramma, che resta intatto persino nell'orrore della guerra. Nemmeno la morte, la violenza, distolgono l'attenzione di Gemma dal suo sogno, che se nella "Roma bene" è una tragedia, nella Sarajevo della fame e della guerra, assume un aspetto banale. E anche il tormento interiore di Diego, il suo sentirsi fuori luogo e disadattato nel mondo borghese, ipocrita e superficiale, diventa insulso sullo sfondo della guerra. Anche a Sarajevo Diego sarà un disadattato, perché quella guerra non lo riguarda, non è la sua tragedia: sembra che la guerra sia l'ultimo tentativo di toccare l'abisso per sentire qualcosa di autentico, ma anche in questo caso la sua anima sarà impermeabile, e la tossicodipendenza sarà la sua tragedia.
A mio parere, il problema di questo romanzo, come del resto di molti romanzi italiani degli ultimi anni, è la prospettiva: per quanto si cerchi di ampliare la visione d'insieme, il tutto è sempre ricondotto alle nostre quattro mura di casa, ai problemi familiari, ai problemi di coppia, ai problemi con i proprio figli, astratti, sospesi dalla situazione materiale in cui si radicano. La famiglia è una monade che non comunica con la società, un ambiente claustrofobico, asfissiante: persino la guerra finisce per diventare un semplice sfondo, ed
è sempre il piccolo mondo borghese ad essere il protagonista. Una scrittura che, pur tentando di aprire all'altro, alla tragedia dell'altro, proietta nell'altro se stessa, senza capirlo, senza una vera comunicazione: e anche alla fine del romanzo, quando Gemma scoprirà l'orrore da cui è nato suo figlio, lei ricondurrà la grande tragedia al suo piccolo dramma, universalizzato, reso assoluto.

lunedì 17 giugno 2013

Tracce di poesia - Mino Pausa

Lo scippatore di emozioni (Antonio Stornaiolo)
e Piero Scamarcio (Emilio Solfrizzi)
Apparso per la prima volta su Telenorba, il poeta Mino Pausa non è un vero poeta. O forse sì. Espressione di un tipo di comicità che oggigiorno risulta essere utopica, egli è l'autentico "anti". Anti-poeta, innanzitutto: quando il paradosso diventa comico proprio perché cela il fondo di realtà che rende quel paradosso un paradosso. Nulla di più semplice, direste! Eppure non è così. Affondiamo le mani in qualcosa di veramente provocatorio quando un "anti" diventa specchio del "proprio". E allora le brevi liriche recitate in "Teledurazzo" o ne "Il polpo" non sono altro che un tentativo ben riuscito di fare ironia su quello che ci circonda. Il duo Toti e Tata in questo è maestro: assieme ad un altro grande della scena barese (Gianni Ciardo), ha portato nelle case di centinaia di pugliesi la comicità del vivere quotidiano: l'eterna zitella che sposa "Ciclopolmone" per avere la casa "a Bari alta" (Filomena Coza Depurada), gli Oesais, il cantante Piero Scamarcio supportato dallo "scippatore di emozioni" sono solo alcuni dei personaggi forgiati dalle menti di Emilio Solfrizzi (Toti) e Antonio Stornaiolo (Tata).
Ma ritorniamo a Mino Pausa. Un uomo alto, bruno, la carnagione scura, le occhiaie evidenti, il cappotto lungo e nero. Un becchino, praticamente. Non è un caso: è proprio ironizzando sulla morte che questo "poeta maledetto" ci strappa una risata beffarda, un "faccio corna". Le sue sono poesie che riducono "il pessimismo cosmico leopardiano a mero umorismo": la morte fa parte della vita (come dicono i più) e, proprio in virtù di questa sua connotazione, è bene riderci sopra. Si tratta di un umorismo macabro che sdrammatizza il trauma della perdita, enfatizzandone la necessità e, dunque, la normalità. Con le parole del mitico Mino: "Chi prima, chi dopo...tutti dobbiamo morire". 
Emilio Solfrizzi vestito da Mino Pausa
Ebbene, le poesie (dal titolo apparentemente innocuo) sembrano appartenere a una rassegna sulle morti più insolite (che siano le antenate del programma tv "1000 modi per morire"?). Non solo! Denotano una cultura vastissima, laddove (anche tra le righe) citano Bach, Ungaretti, Leopardi. È certamente questo uno dei motivi della grandezza di Mino Pausa, mai banale o scontato. Un discorso a parte meritano i titoli delle raccolte, che manifestano un sottile sarcasmo. Basti pensare alle raccolte "Do re mi fu", "Coperta di mogano", "Dipartita in partita": è questa la comicità che vogliamo! Una comicità colta e pungente, una comicità che recupera l'innominabile morte per renderla dolce, la Dolcenera.  
Non vi resta che addentrarvi nel mondo di questa Dolce tramite le parole di Mino Pausa. 

Dalla 4° raccolta “C’è più spazio in casa da quando sei cenere”:

Hai preso quel treno

Hai preso quel treno,

Lo hai preso in pieno.

Dalla 5° raccolta “Io nell’universo, tu nell’obitorio


Gli strani incroci della vita

Ti fermasti prudente
e a destra desti precedenza
ma il tir entrò nella tua vita
da sinistra.


Dall’8° raccolta “Fiato alle trombosi

Avanza pure

Avanza pure
il numero dei tuoi
globuli bianchi.

Dalla 10° raccolta: "Do Re Mi Fu

Musica nell’aria

Per ascoltare quella fuga di Bach
Non ti accorgesti di quella fuga di gas.


Dalla 12° raccolta “Il giorno della trasfusione non eri in vena

La crisi del 7° anno

Non ho i soldi per pagare
la tua riesumazione.



Qui tutti i video di Toti e Tata.

sabato 15 giugno 2013

"Il Maestro e Margherita" di Michail Bulgakov


«Seguimi lettore! Chi ha detto che non c'è al mondo un amore vero, fedele, eterno? Gli taglino la lingua malefica a quel bugiardo! Seguimi lettore e io ti mostrerò un simile amore!»

Il Maestro e Margherita non è un romanzo, ma un autentico affresco: grandioso, ricchissimo, visionario, originale. Eugenio Montale lo ha definito "un miracolo che ognuno deve salutare con commozione". Un esercito di personaggi, verosimili o grotteschi, si avvicenda in una selva di episodi personali e collettivi, sullo sfondo di una Mosca e di una Eršalaim che a tratti si accavallano come per un contrappunto musicale.
La trama esplode e inizia a srotolarsi dall'incontro ai Patriaršie prudy di due letterati moscoviti, il direttore del Massolit Berlioz e il mediocre poeta Ivan Nikolaevič Bezdomnyj, con Woland. Quest'individuo si presenta come uno straniero loquace dall'aspetto bizzarro: origlia come per caso la conversazione dei due, che verte sull'esistenza di Dio, e si intromette. I due, perfettamente integrati in un ambiente culturale che fa dell'indiscutibile ateismo una bandiera, asseriscono con decisione che non esistono entità ultraterrene, e cercano di persuadere il diavolo della propria inesistenza, senza conoscere la vera identità del loro interlocutore.
Su questo imbarazzante equivoco, su una profezia sinistra che si realizza nel giro di pochissime pagine, su una decapitazione fulminea e spiazzante è imperniato l'incipit del libro. Woland, che incarna le forze oscure e richiama il Faust di Goethe con una miriade di similitudini, parallelismi e citazioni, si spaccia per un prestigiatore e si esibisce nel teatro di Mosca, scatenando una serie di eventi tragicomici che nel corso del romanzo conducono alla morte, in galera o in manicomio gran parte dei personaggi. Ad affiancare Woland c'è un seguito pittoresco, composto dal versatile Korov'ёv, dal demone-assassino Azazello, dalla splendida diavolessa Hella e da Behemot, un gattone nero dotato di spigliata parlantina, oltre che di modi a tratti servili e a tratti insolenti (credo il personaggio più appariscente e piacevole).
Solo a storia inoltrata il lettore incappa nel Maestro e in Margherita, e nella loro storia d'amore. Lui, uno scrittore reso folle dalle diffamazioni e dalle pessime recensioni dei critici riguardo un suo manoscritto, incontra Ivan Nikolaevič nella clinica psichiatrica dove entrambi sono ricoverati, e lì gli racconta del proprio incontro con Margherita, una donna sposata ed estremamente infelice.

«L'amore è balzato davanti a noi dal nulla, come un assassino in un vicolo, e ci ha colpiti entrambi, nello stesso istante. Così colpisce la saetta, così colpisce il coltello a serramanico. Ma lei, in seguito, sosteneva che non era successo così, e che noi ci amavamo già da tanto, tanto tempo prima, senza conoscerci, senza esserci mai visti.»

La malattia psichica di lui li ha allontanati, senza che lei avesse notizie della sorte del suo amato. Quando Azazello incontra Margherita e le lascia intendere di avere informazioni sul Maestro, lei accetta senza indugi di incontrare Woland. Per la speranza di rincontrare il suo amato, Margherita lascia il tetto coniugale, si trasforma in una strega e stringe un patto con Woland. La narrazione culmina nel variopinto e allucinato capitolo Il gran ballo di Satana, in cui gusto macabro, atmosfera vivace e fantastica e riferimenti storici dottissimi si intrecciano alla blasfemia che si addice ad un festino satanico, culminando con la scena forse più cupa e intensa del romanzo, quella in cui Woland uccide un uomo, ne versa il sangue nella coppa ottenuta dal cranio di Berlioz e lo beve sottoforma di vino, nel blasfemo rovesciamento della cristiana transustanziazione del vino in sangue.
La storia d'amore di Margherita e del Maestro si intreccia alle vicende di quest'ultimo, coinvolto e come posseduto dal proprio romanzo fino ad impazzirne, alle vicende di una marea di personaggi minori e ai tiri mancini di Behemot e Korov'ёv, che si dilettano fino all'ultimo dei capitoli (trentatré come gli anni di Cristo) a spargere panico e confusione; il tutto è situato su un piano narrativo che si alterna con un secondo contesto: quello altrettanto vivido della passione di Cristo, il "filosofo" Ha-Nozri, che fino alla morte predica invariabilmente che: «Tutti gli uomini sono buoni». Questo secondo piano narrativo coincide con il romanzo del Maestro, con i sogni che turbano fino alla fine Ivan Nikolaevič e con la storia tormentosa di Ponzio Pilato, che per duemila anni porterà con sé il peso della propria decisione, quella di lasciare che Ha-Nozri venisse ucciso, come una maledizione.
Seppure estremamente fantasioso, Il Maestro e Margherita è uno specchio realistico della società moscovita degli anni '30 (non a caso, il libro sarà pesantemente censurato e vedrà la luce in forma definitiva solo dopo la morte di Bulgakov): nell'intreccio dei singoli fili narrativi, Bulgakov inserisce e incastona la satira sociale, la polemica sull'assegnazione degli appartamenti, soprattutto la critica beffarda dell'ambiente letterario e culturale moscovita (molti personaggi sono il calco di artisti e letterati realmente esistiti; ad esempio, Margherita Crepax identifica il personaggio minore di Rjuchin con il poeta Majakovskij, del quale in tal caso si darebbe una rappresentazione a dir poco impietosa).

Il Maestro e Margherita è un intrecciarsi inquietante di alienazioni, capovolgimenti della realtà, straniamenti, e gronda di tocchi macabri e profetici. Bulgakov incontrò gravi difficoltà nella stesura dell'opera, di cui compì una tripla redazione, per giunta di continuo rimaneggiata, e nella sua pubblicazione. Stroncato dalla critica dei suoi contemporanei, represso e censurato dal governo, l'autore ebbe modo di scrivere a Stalin:


«Io considero la lotta contro la censura, di ogni natura e qualsiasi potere la sostenga, come un dovere dello scrittore allo stesso titolo degli appelli alla libertà di stampa. Io sono un feroce partigiano di questa libertà e dichiaro che uno scrittore che possa farne a meno somiglia ad un pesce che dichiara pubblicamente di poter fare a meno dell'acqua». 

Nonostante le sue convinzioni, Bulgakov fu così demoralizzato dalle avversità che bruciò la prima versione del romanzo, oggi considerato uno dei più grandi capolavori della letteratura del Novecento. Allora, visto che l'opera è fortunatamente arrivata fino a noi in un modo o nell'altro, è bello trovare un che di profetico nelle parole pronunciate da Woland, in riferimento al romanzo su Pilato scritto dal Maestro e anche da lui distrutto in preda allo sconforto: 

«I manoscritti non bruciano.»

giovedì 6 giugno 2013

"Il flauto di vertebre" di Vladimir Vladimirovič Majakovskij

«Ho bestemmiato.
Ho urlato che Dio non esiste,
e lui ha tratto dal fondo dell'inferno
una donna che farebbe tremare una montagna,
e mi ha comandato: 
amala!»

Come ha giustamente scritto Stefano Garzonio, "per Majakovskij la poesia è la dimensione totalizzante dell'essere". L'eroe lirico di Majakovskij non si può disgiungere dal suo ruolo di poeta e futurista, né dalla sua identità più intima di persona reale. La sua poesia non tocca lievemente il tema dell'amore, le sue rime non sfiorano soavemente delle amene romanticherie: la poesia di Majakovskij è un fiume in piena, e come travolgenti e impetuosi sono i suoi versi politici e rivoluzionari, altrettanto decisa è la sua presa di posizione artistica e umana nei confronti dell'amore. La sua passione è talmente intensa e sofferta da spremergli una raffigurazione dell'amore incredibilmente vivida e potente: per la donna che ama, Majakovskij annuncia nel Prologo:

«Oggi io suonerò il flauto
sulla mia colonna vertebrale.»

Majakovskij compone il brevissimo e straordinario poema (inizialmente intitolato Versi a lei) nell'autunno del 1915. Nell'estate dello stesso anno aveva conosciuto quella che sarebbe diventata una delle persone più importanti della sua vita: Lilja Brik. Vladimir (o meglio, Volodja) conosceva El'za, la sorella di Lilja, ed era andato a trovarla nella dacia dove viveva con i genitori, nei pressi di Mosca: si era attardato a passeggiare con lei nel bosco, il contatto con Lilja era invece stato minimo. Non si trattò certo un colpo fulmine. Solo a luglio la incontrò di nuovo, a Pietrogrado, e insieme a lei c'era Osip Brik: il marito.
I rapporti si intricarono subito, ma non divennero mai ostili: Majakovskij si innamorò perdutamente di Lilja, ma contemporaneamente divenne un caro amico di Osip Brik, che era legato all'ambiente dei futuristi, e i due si trovarono anche a lavorare felicemente insieme. Brik era consapevole del rapporto di Volodja e Lilička, e non aveva niente in contrario. Majakovskij, al contrario, era lacerato: amicizia, stima, un amore dirompente e una gelosia furibonda lo tormentavano.
Il flauto di vertebre è il risultato straordinario dell'intensa situazione sentimentale vissuta da Majakovskij. Il poema è un trionfo di quello che Trockij ha chiamato majakomorfismo, è un riferimento continuo alla sensibilità dell'Io del poeta, e gronda di intensità amorosa e di acerrima e frustrante gelosia. L'enormità dell'oggetto del poema e l'incredibile eleganza della sua forma riempiono di meraviglia.
Nel Flauto si possono rintracciare molti dei temi ricorrenti in Majakovskij e anche le sue caratteristiche stilistiche si manifestano pienamente: l'uso costante della metafora, il topos letterario che preferisce; quello abbondante dell'iperbole, figura retorica perfetta per esprimere i picchi di trasporto e dolore; i toni solenni e i richiami alla religione, le invocazioni a Dio. Un amore così sofferto e disperato assimila, nel linguaggio di Majakovskij, lui a un martire. Non c'è catarsi purificatrice nella sua sofferenza, ma solo un abbandono desolato: l'invocazione a Dio - un dio a cui il poeta non credeva - è l'unica cosa a cui Majakovskij senta di potersi appigliare, del tutto impotente.
Si rivolge a Dio familiarmente, in tono perentorio e insieme supplice, con le parole:

«come una forca
distendi la Via lattea,
e impiccami subito come un criminale.
Fa' quello che ti pare.
Squartami, se vuoi.
Io stesso, giusto, ti laverò le mani.
Però,
ascolta!
Portati via la maledetta,
che m'hai comandato d'amare!»

L'amore non è un dolce sentimento, le metafore e le similitudini scelte per illustrarlo non sono rosee e soavi, ma un «arcobaleno di spasimi». L'amore di Majakovskij è «vivido come l'incarnato di un tisico». È così atroce da fargli desiderare la morte, e dà un brivido pensare che proprio di propria mano morirà il poeta, sparandosi un colpo di pistola, solo quindici anni più tardi.

«Ora è tale l'angoscia che desidero
soltanto fuggire al canale
e il capo cacciare nell'acqua digrignante.»

Ma ancora più profetici e tremendi sono i versi 6-8, proprio all'inizio del componimento. Versi che propongono ancora il tema del suicidio, che sarà ricorrente nell'opera di Majakovskij fino alla realizzazione concreta, versi che mostrano lucidamente, gelidamente il tarlo che iniziava a rodere il poeta:

«Sempre più spesso mi chiedo
se non sia meglio mettere il punto
d'un proiettile alla mia sorte.»

Eppure, Majakovskij sa di stare vivendo un'eccezione, o almeno non l'unica delle alternative: sa che l'amore non è solo un tormento macabro e autodistruttivo, una monomania dolorosa che vota all'angoscia e al disastro. Dice: «Ho spremuto a non finire la mia disperazione.» Ma canta anche quell'amore familiare ed estremo, quell'ultimo baluardo di dolcezza prima della fine: l'amore del soldato morente, quello che troviamo ne La guerra di Piero di De Andrè, per cui il soldato, in punto di morte, pensa alla sua Ninetta.
Nonostante la sofferenza, perfino nonostante il profilarsi fatalistico o cercato della morte, Il flauto di vertebre è quindi la più pura e vibrante tra le forme di poesia: una dichiarazione d'amore.


«Sono forte,
avranno bisogno di me
e mi ordineranno
muori in battaglia!
Il tuo nome
sarà l'ultimo,
rappreso sul mio labbro spaccato dal proiettile.»

domenica 2 giugno 2013

"Spagnolo dell'esodo e del pianto" di León Felipe

«Oggi nessuno ha tra le mani più che polvere. Polvere e lacrime. Il nostro grande tesoro. E sarebbero tesoro se l'uomo potesse comandarli. Però nessuno di noi può. Siamo poveri perché niente ci obbedisce. [...] Ah, se sapessi organizzare il mio pianto e la polvere dispersa dei miei sogni! I poeti di tutti i tempi non hanno lavorato con altri ingredienti. E forse la grazia del poeta non è altra che quella di rendere docile la polvere e feconde le lacrime

"Español del éxodo y del llanto" è un'opera mista, una sorta di prosimetro, una breve miscellanea di versi, riflessioni e brani in cui il poeta, León Felipe, si rivolge agli ascoltatori, ai lettori, al Messico che lo ha calorosamente accolto.
Da sempre viaggiatore per passione, León Felipe si ritrova ad esserlo per forza dopo il 1938. Fuggito dalla Spagna franchista, trasformato dalla dittatura nel Caminante che già le liriche degli anni '20 in qualche modo profetizzavano, il poeta trova rifugio in America Latina. L'esilio lo ha denudato, privato delle sue certezze professionali e politiche. Franco, sradicando lui insieme a tutta una generazione di intellettuali e artisti, esiliati o uccisi (Miguel de Unamuno, Antonio Machado, María Zambrano, García Lorca), ha destabilizzato le loro identità, incrinato i loro progetti futuri, ma contemporaneamente ha mutilato il Paese.
León Felipe scrive: «I miei diplomi e il mio bagaglio se li è portati via la guerra e a me non restano che queste parole». Parole di cui, al contrario, è rimasta priva la Spagna.

Una vecchia edizione in lingua originale.
L'opera fu pubblicata per la prima
volta in Messico, nel 1939.
«Senza il poeta non potrà esistere la Spagna. Che lo sentano le truppe vittoriose, che lo senta Franco:

Tua è la tenuta,
la casa,
il cavallo
e la pistola.
Mia è la voce antica della terra.
A te rimane tutto
e mi lasci nudo ed errante per il mondo...
Ma io ti lascio muto... Muto!
E come farai a raccogliere il grano
e ad alimentare il fuoco
se io mi porto via la canzone?»

Il poeta non è un lusso per la società. La sua opera e il suo ruolo non sono dei surplus di cui si possa fare a meno. La poesia, la canzone, è parte integrante dei meccanismi funzionali e produttivi di una nazione. Majakovskij scriveva che «tutti i soviet insieme non muoveranno gli eserciti, se i musicisti non suoneranno la marcia» e, seppur in tutt'altro contesto geografico e storico, analogamente León Felipe scrive:

«La vita dei popoli, anche nelle necessità più umili, funziona perché ci sono alcuni uomini lassù in Collina, che osservano i segni delle stelle, mantengono vivo il fuoco prometeico e cantano canzoni che fanno crescere le spighe.»

La dittatura di Franco ha mutilato il Paese, e il ruolo dei poeti (di cui la società non può fare a meno) viene in qualche modo colmato con un suo tremendo surrogato. La ley viva e ardente viene spenta e annichilita, e al suo posto resta la ley muerta, la sola espressione che possa sopravvivere sotto il giogo della dittatura franchista: sono morte le parole degli arcivescovi e dei politici, sono ossificate in demagogie e liturgie ripetitive e prive di significato, che hanno perso ormai la vivida e pulsante forza della vita, quella che alimenta le espressioni più spontanee ed autentiche dell'uomo. Quando vengono meno la libertà e la forza espressiva, la viva naturalità del sentimento, della produzione e della ricezione dell'opera poetica, la voce del Paese si annichilisce e stempera, il suo carattere si affievolisce. Il polso della Spagna si indebolisce, calcificato dalla retorica e dal muto assenso: venuta meno la voce autentica della terra, il Paese resta ammutolito e triste, senza più nerbo né forza di reagire.

«La Spagna è morta. Morta. Su richiesta di Franco verranno i becchini e gli archeologi

Ma León Felipe non scarica su Francisco Franco ogni colpa e responsabilità. Non si lava pilatescamente le mani, né si serve di un comodo capro espiatorio o di facili retoriche e giustificazioni. Nella lunga lirica che conclude "Spagnolo dell'esodo e del pianto", l'«ultima scena di un poema storico e drammatico», scrive e urla:

«ESTÁ MUERTA ¡MIRADLA!
[...]
ESTÁ MUERTA... LA HEMOS ASESINADO ENTRE TÚ Y YO»

La Spagna l'abbiamo uccisa insieme, accusa e si autoaccusa León Felipe: Franco e i fascisti non sono gli unici responsabili della mutilazione, della lacerazione e del truce assassino della Spagna. L'ha uccisa chi si è adoperato per l'instaurazione della dittatura, ma è altrettanto colpevole chi ha assistito senza colpo ferire e chi ha portato l'impotenza e la paura all'estremo, attraverso la resa dell'esilio volontario.

«Non c'è più patria. La abbiamo uccisa tutti:
quelli di qui e quelli di là,
quelli di ieri e quelli di oggi.
La Spagna è morta. La abbiamo assassinata
io e te.

Anche io!
Io non fui altro che una smorfia,
una maschera
fatta di retorica e di paura.
Qui c'è la mia fronte. Guardatela!
Perché ero io quello che disse:
"una stella rossa, sì...
una stella rossa e sola
di sangue spagnolo sulla fronte...
preparate i coltelli,
affilate i rasoi,
scaldate al rosso vivo i ferri,
andate alle forge,
che vi pongano sulla fronte il segno della unità e della Giustizia"...
E qui c'è la mia fronte
senza una goccia di sangue. Guardatela!»

La breve opera è un autentico lamento funebre, è il requiem per un Paese della cui morte León Felipe si sente colpevole. Il rimorso peggiore è dato dalla sensazione di avere tradito il sentimento della propria patria, rinnegando la propria nazionalità cercando rifugio altrove, abbandonando il Paese natio al proprio gramo destino. Frantumato il senso di appartenenza allo Stato e al popolo spagnolo, quello che resta ad uno "spagnolo dell'esodo e del pianto", sono appunto esodo e pianto, rispettivamente la categoria metafisica e la testimonianza della dimensione più autentica e originaria dell'uomo, che è appunto puramente umano prima di essere cittadino della Spagna o di altri Paesi. Il pianto è la manifestazione dell'intensità della sofferenza, e la sua potenza espressiva azzera del tutto le barriere linguistiche, socioculturali e politiche.

«Una madre cinese piange come una madre spagnola. Le lacrime sono internazionali e per conquistare la uguaglianza tra gli uomini possono più dei concetti marxisti. E questi stessi concetti nacquero dal pianto. Peccato che questo non sia ancora stato chiarito bene e molti credano ancora che siano nati dall'odio.»

L'auspicio di un marxista quale León Felipe è ancora più interessante, e il suo invito è politico e poetico: affidarsi alle lacrime come ad un completamento de «las internacionales obreras», servirsi del potere salvifico del pianto affinché tutti gli uomini si riconoscano nel reciproco rispecchiare sofferenze identiche, e insieme prendano coscienza del loro essere tutti ugualmente alla ricerca di una "Giustizia umana".

«Tutta la luce della Terra
la vedrà un giorno l'uomo
attraverso la finestra di una lacrima...
Spagnoli,
spagnoli dell'esodo e del pianto:
alzate la testa
e non guardatemi con cipiglio,
perché io non sono colui che canta la distruzione
ma la speranza.»