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giovedì 6 giugno 2013

"Il flauto di vertebre" di Vladimir Vladimirovič Majakovskij

«Ho bestemmiato.
Ho urlato che Dio non esiste,
e lui ha tratto dal fondo dell'inferno
una donna che farebbe tremare una montagna,
e mi ha comandato: 
amala!»

Come ha giustamente scritto Stefano Garzonio, "per Majakovskij la poesia è la dimensione totalizzante dell'essere". L'eroe lirico di Majakovskij non si può disgiungere dal suo ruolo di poeta e futurista, né dalla sua identità più intima di persona reale. La sua poesia non tocca lievemente il tema dell'amore, le sue rime non sfiorano soavemente delle amene romanticherie: la poesia di Majakovskij è un fiume in piena, e come travolgenti e impetuosi sono i suoi versi politici e rivoluzionari, altrettanto decisa è la sua presa di posizione artistica e umana nei confronti dell'amore. La sua passione è talmente intensa e sofferta da spremergli una raffigurazione dell'amore incredibilmente vivida e potente: per la donna che ama, Majakovskij annuncia nel Prologo:

«Oggi io suonerò il flauto
sulla mia colonna vertebrale.»

Majakovskij compone il brevissimo e straordinario poema (inizialmente intitolato Versi a lei) nell'autunno del 1915. Nell'estate dello stesso anno aveva conosciuto quella che sarebbe diventata una delle persone più importanti della sua vita: Lilja Brik. Vladimir (o meglio, Volodja) conosceva El'za, la sorella di Lilja, ed era andato a trovarla nella dacia dove viveva con i genitori, nei pressi di Mosca: si era attardato a passeggiare con lei nel bosco, il contatto con Lilja era invece stato minimo. Non si trattò certo un colpo fulmine. Solo a luglio la incontrò di nuovo, a Pietrogrado, e insieme a lei c'era Osip Brik: il marito.
I rapporti si intricarono subito, ma non divennero mai ostili: Majakovskij si innamorò perdutamente di Lilja, ma contemporaneamente divenne un caro amico di Osip Brik, che era legato all'ambiente dei futuristi, e i due si trovarono anche a lavorare felicemente insieme. Brik era consapevole del rapporto di Volodja e Lilička, e non aveva niente in contrario. Majakovskij, al contrario, era lacerato: amicizia, stima, un amore dirompente e una gelosia furibonda lo tormentavano.
Il flauto di vertebre è il risultato straordinario dell'intensa situazione sentimentale vissuta da Majakovskij. Il poema è un trionfo di quello che Trockij ha chiamato majakomorfismo, è un riferimento continuo alla sensibilità dell'Io del poeta, e gronda di intensità amorosa e di acerrima e frustrante gelosia. L'enormità dell'oggetto del poema e l'incredibile eleganza della sua forma riempiono di meraviglia.
Nel Flauto si possono rintracciare molti dei temi ricorrenti in Majakovskij e anche le sue caratteristiche stilistiche si manifestano pienamente: l'uso costante della metafora, il topos letterario che preferisce; quello abbondante dell'iperbole, figura retorica perfetta per esprimere i picchi di trasporto e dolore; i toni solenni e i richiami alla religione, le invocazioni a Dio. Un amore così sofferto e disperato assimila, nel linguaggio di Majakovskij, lui a un martire. Non c'è catarsi purificatrice nella sua sofferenza, ma solo un abbandono desolato: l'invocazione a Dio - un dio a cui il poeta non credeva - è l'unica cosa a cui Majakovskij senta di potersi appigliare, del tutto impotente.
Si rivolge a Dio familiarmente, in tono perentorio e insieme supplice, con le parole:

«come una forca
distendi la Via lattea,
e impiccami subito come un criminale.
Fa' quello che ti pare.
Squartami, se vuoi.
Io stesso, giusto, ti laverò le mani.
Però,
ascolta!
Portati via la maledetta,
che m'hai comandato d'amare!»

L'amore non è un dolce sentimento, le metafore e le similitudini scelte per illustrarlo non sono rosee e soavi, ma un «arcobaleno di spasimi». L'amore di Majakovskij è «vivido come l'incarnato di un tisico». È così atroce da fargli desiderare la morte, e dà un brivido pensare che proprio di propria mano morirà il poeta, sparandosi un colpo di pistola, solo quindici anni più tardi.

«Ora è tale l'angoscia che desidero
soltanto fuggire al canale
e il capo cacciare nell'acqua digrignante.»

Ma ancora più profetici e tremendi sono i versi 6-8, proprio all'inizio del componimento. Versi che propongono ancora il tema del suicidio, che sarà ricorrente nell'opera di Majakovskij fino alla realizzazione concreta, versi che mostrano lucidamente, gelidamente il tarlo che iniziava a rodere il poeta:

«Sempre più spesso mi chiedo
se non sia meglio mettere il punto
d'un proiettile alla mia sorte.»

Eppure, Majakovskij sa di stare vivendo un'eccezione, o almeno non l'unica delle alternative: sa che l'amore non è solo un tormento macabro e autodistruttivo, una monomania dolorosa che vota all'angoscia e al disastro. Dice: «Ho spremuto a non finire la mia disperazione.» Ma canta anche quell'amore familiare ed estremo, quell'ultimo baluardo di dolcezza prima della fine: l'amore del soldato morente, quello che troviamo ne La guerra di Piero di De Andrè, per cui il soldato, in punto di morte, pensa alla sua Ninetta.
Nonostante la sofferenza, perfino nonostante il profilarsi fatalistico o cercato della morte, Il flauto di vertebre è quindi la più pura e vibrante tra le forme di poesia: una dichiarazione d'amore.


«Sono forte,
avranno bisogno di me
e mi ordineranno
muori in battaglia!
Il tuo nome
sarà l'ultimo,
rappreso sul mio labbro spaccato dal proiettile.»

2 commenti:

  1. Adoro i suoi salmi disperati, senza possibilità di redenzione....

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  2. Per me Majakovskij è un evangelista! Non mi sazierei mai di leggere e rileggere le sue poesie. Grazie della lettura e del commento, benvenuta/o!

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