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domenica 2 giugno 2013

"Spagnolo dell'esodo e del pianto" di León Felipe

«Oggi nessuno ha tra le mani più che polvere. Polvere e lacrime. Il nostro grande tesoro. E sarebbero tesoro se l'uomo potesse comandarli. Però nessuno di noi può. Siamo poveri perché niente ci obbedisce. [...] Ah, se sapessi organizzare il mio pianto e la polvere dispersa dei miei sogni! I poeti di tutti i tempi non hanno lavorato con altri ingredienti. E forse la grazia del poeta non è altra che quella di rendere docile la polvere e feconde le lacrime

"Español del éxodo y del llanto" è un'opera mista, una sorta di prosimetro, una breve miscellanea di versi, riflessioni e brani in cui il poeta, León Felipe, si rivolge agli ascoltatori, ai lettori, al Messico che lo ha calorosamente accolto.
Da sempre viaggiatore per passione, León Felipe si ritrova ad esserlo per forza dopo il 1938. Fuggito dalla Spagna franchista, trasformato dalla dittatura nel Caminante che già le liriche degli anni '20 in qualche modo profetizzavano, il poeta trova rifugio in America Latina. L'esilio lo ha denudato, privato delle sue certezze professionali e politiche. Franco, sradicando lui insieme a tutta una generazione di intellettuali e artisti, esiliati o uccisi (Miguel de Unamuno, Antonio Machado, María Zambrano, García Lorca), ha destabilizzato le loro identità, incrinato i loro progetti futuri, ma contemporaneamente ha mutilato il Paese.
León Felipe scrive: «I miei diplomi e il mio bagaglio se li è portati via la guerra e a me non restano che queste parole». Parole di cui, al contrario, è rimasta priva la Spagna.

Una vecchia edizione in lingua originale.
L'opera fu pubblicata per la prima
volta in Messico, nel 1939.
«Senza il poeta non potrà esistere la Spagna. Che lo sentano le truppe vittoriose, che lo senta Franco:

Tua è la tenuta,
la casa,
il cavallo
e la pistola.
Mia è la voce antica della terra.
A te rimane tutto
e mi lasci nudo ed errante per il mondo...
Ma io ti lascio muto... Muto!
E come farai a raccogliere il grano
e ad alimentare il fuoco
se io mi porto via la canzone?»

Il poeta non è un lusso per la società. La sua opera e il suo ruolo non sono dei surplus di cui si possa fare a meno. La poesia, la canzone, è parte integrante dei meccanismi funzionali e produttivi di una nazione. Majakovskij scriveva che «tutti i soviet insieme non muoveranno gli eserciti, se i musicisti non suoneranno la marcia» e, seppur in tutt'altro contesto geografico e storico, analogamente León Felipe scrive:

«La vita dei popoli, anche nelle necessità più umili, funziona perché ci sono alcuni uomini lassù in Collina, che osservano i segni delle stelle, mantengono vivo il fuoco prometeico e cantano canzoni che fanno crescere le spighe.»

La dittatura di Franco ha mutilato il Paese, e il ruolo dei poeti (di cui la società non può fare a meno) viene in qualche modo colmato con un suo tremendo surrogato. La ley viva e ardente viene spenta e annichilita, e al suo posto resta la ley muerta, la sola espressione che possa sopravvivere sotto il giogo della dittatura franchista: sono morte le parole degli arcivescovi e dei politici, sono ossificate in demagogie e liturgie ripetitive e prive di significato, che hanno perso ormai la vivida e pulsante forza della vita, quella che alimenta le espressioni più spontanee ed autentiche dell'uomo. Quando vengono meno la libertà e la forza espressiva, la viva naturalità del sentimento, della produzione e della ricezione dell'opera poetica, la voce del Paese si annichilisce e stempera, il suo carattere si affievolisce. Il polso della Spagna si indebolisce, calcificato dalla retorica e dal muto assenso: venuta meno la voce autentica della terra, il Paese resta ammutolito e triste, senza più nerbo né forza di reagire.

«La Spagna è morta. Morta. Su richiesta di Franco verranno i becchini e gli archeologi

Ma León Felipe non scarica su Francisco Franco ogni colpa e responsabilità. Non si lava pilatescamente le mani, né si serve di un comodo capro espiatorio o di facili retoriche e giustificazioni. Nella lunga lirica che conclude "Spagnolo dell'esodo e del pianto", l'«ultima scena di un poema storico e drammatico», scrive e urla:

«ESTÁ MUERTA ¡MIRADLA!
[...]
ESTÁ MUERTA... LA HEMOS ASESINADO ENTRE TÚ Y YO»

La Spagna l'abbiamo uccisa insieme, accusa e si autoaccusa León Felipe: Franco e i fascisti non sono gli unici responsabili della mutilazione, della lacerazione e del truce assassino della Spagna. L'ha uccisa chi si è adoperato per l'instaurazione della dittatura, ma è altrettanto colpevole chi ha assistito senza colpo ferire e chi ha portato l'impotenza e la paura all'estremo, attraverso la resa dell'esilio volontario.

«Non c'è più patria. La abbiamo uccisa tutti:
quelli di qui e quelli di là,
quelli di ieri e quelli di oggi.
La Spagna è morta. La abbiamo assassinata
io e te.

Anche io!
Io non fui altro che una smorfia,
una maschera
fatta di retorica e di paura.
Qui c'è la mia fronte. Guardatela!
Perché ero io quello che disse:
"una stella rossa, sì...
una stella rossa e sola
di sangue spagnolo sulla fronte...
preparate i coltelli,
affilate i rasoi,
scaldate al rosso vivo i ferri,
andate alle forge,
che vi pongano sulla fronte il segno della unità e della Giustizia"...
E qui c'è la mia fronte
senza una goccia di sangue. Guardatela!»

La breve opera è un autentico lamento funebre, è il requiem per un Paese della cui morte León Felipe si sente colpevole. Il rimorso peggiore è dato dalla sensazione di avere tradito il sentimento della propria patria, rinnegando la propria nazionalità cercando rifugio altrove, abbandonando il Paese natio al proprio gramo destino. Frantumato il senso di appartenenza allo Stato e al popolo spagnolo, quello che resta ad uno "spagnolo dell'esodo e del pianto", sono appunto esodo e pianto, rispettivamente la categoria metafisica e la testimonianza della dimensione più autentica e originaria dell'uomo, che è appunto puramente umano prima di essere cittadino della Spagna o di altri Paesi. Il pianto è la manifestazione dell'intensità della sofferenza, e la sua potenza espressiva azzera del tutto le barriere linguistiche, socioculturali e politiche.

«Una madre cinese piange come una madre spagnola. Le lacrime sono internazionali e per conquistare la uguaglianza tra gli uomini possono più dei concetti marxisti. E questi stessi concetti nacquero dal pianto. Peccato che questo non sia ancora stato chiarito bene e molti credano ancora che siano nati dall'odio.»

L'auspicio di un marxista quale León Felipe è ancora più interessante, e il suo invito è politico e poetico: affidarsi alle lacrime come ad un completamento de «las internacionales obreras», servirsi del potere salvifico del pianto affinché tutti gli uomini si riconoscano nel reciproco rispecchiare sofferenze identiche, e insieme prendano coscienza del loro essere tutti ugualmente alla ricerca di una "Giustizia umana".

«Tutta la luce della Terra
la vedrà un giorno l'uomo
attraverso la finestra di una lacrima...
Spagnoli,
spagnoli dell'esodo e del pianto:
alzate la testa
e non guardatemi con cipiglio,
perché io non sono colui che canta la distruzione
ma la speranza.»

2 commenti:

  1. Proprio ultimamente ho visto, finalmente intero, un documentario sulla Spagna franchista, nonché saggiato la diversità della letteratura (conferma del successivo sradicamento) pre-franchista.
    Ottima segnalazione!

    Luigi

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  2. Io ho scoperto da poco questo autore (e tra l'altro l'ho scoperto per vie traverse, solo in quanto conoscente e corrispondente di Che Guevara!), e l'ho trovato così interessante... Dovevo assolutamente fargli un po' di spazio qui su CV.
    Grazie Luigi!

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