Maestro,
cominciando
questa lettera mi viene subito in mente la scena di un suo film, C’eravamo tanto amati. Nicola Palumbo è
sugli spalti ad assistere ad un discorso tenuto da Vittorio de Sica, il suo
grande maestro. Per difendere Ladri di
biciclette dalla critica di stampo “andreottiano”, Palumbo aveva perso il
suo posto di lavoro, aveva dovuto abbandonare il suo paesino campano, la
famiglia. Quel film era stato più volte decisivo nella vita di questo
intellettuale fallito. Lo studente che lo accompagna, lo incita ad andare a
parlare con De Sica, ma egli si rifiuta, schermendosi. Cosa dovrei dirgli,
pensa Palumbo, dovrei parlargli di cose grandi, importanti e tristi per me, e forse anche per lui.
Di cosa dovrei,
di cosa potrei parlare? Di smarrimento, isolamento, paura, di un tempo
inafferrabile e incomprensibile. Di cose grandi, di cose miseramente piccole, di
cose tristi.
Invece le
parlerò dell’orizzonte. L’idea me l’ha suggerita lei: durante una lezione di
cinema tenuta durante il Bifest a Bari lo scorso anno, appena salito sul palco
del teatro Petruzzelli, lei disse che non aveva voglia di parlare di cinema, ma
che avrebbe voluto parlare di politica. Si rivolse ai giovani, alla mia
generazione, dicendo che così non andava bene, che avremmo dovuto darci una
svegliata. Ci parlò della sua generazione, quella che aveva vissuto gli ultimi
anni del fascismo, che aveva vissuto la guerra, la caduta del regime, che aveva
visto nascere la repubblica. Ci disse che eravate tutti animati dalla voglia di
ricostruire una nuova Italia, nata dalle macerie del fascismo. Che avevate un
orizzonte comune verso il quale tutti insieme camminavate, spinti dallo stesso
desiderio, presi dallo stesso entusiasmo.
Non riuscii
a cogliere appieno il significato che lei attribuiva a quell’orizzonte. Forse perché
la mia generazione non ne ha uno proprio, perché siamo dispersi, sparpagliati
per il mondo a sprecare le nostre energie in una lotta senza senso, senza
perché.
Oggi quell’orizzonte
mi fa pensare ai suoi film. È quell’orizzonte che lei descrive in C’eravamo tanto amati, un orizzonte
inseguito dai personaggi per tutta la vita. Quando invecchiano, si accorgono
che quell’orizzonte è stato superato, che il traguardo è ormai tagliato. L’orizzonte
che unisce un radiocronista omosessuale e una casalinga infatuata di Mussolini
in Una
giornata particolare: due persone completamente diverse, che mai si
sarebbero incontrati, parlati, compresi, se non fossero stati entrambi stretti
nella morsa repressiva del regime, se non fossero stati umiliati da quell’ideale
di virilità che li escludeva, li emarginava. Quell’orizzonte perduto, dissolto,
che l’intellettuale “frascico” non riesce più a vedere e che lo spinge alla
follia e alla disperazione ne La
terrazza. L’orizzonte che la spinge, nello stesso film, a far dissertare la
Sora Lella sulla crisi dell’artista, dell’intellettuale. È l’orizzonte comune
che unisce l’intellettuale e le masse disperate, abbandonate, degradate,
crudeli, come lei le descrive in Brutti,
sporchi e cattivi. È sempre nella prospettiva di questo orizzonte che lei
denuncia una situazione di degrado, e la mette in luce senza retorica, senza
condanne né tantomeno assoluzioni.
Guardando con
lucidità, sensibilità, genialità a quell’orizzonte, lei è riuscito a trovare le
parole giuste per essere amato dalle masse, per essere capito. Ci è riuscito
perché ha amato gli uomini, li ha capiti, e guardando i suoi film, si smette
davvero di sentirsi parte di una massa informe. Nell’amore proletario, nella
gelosia, nella sofferenza e nella gioia consumatesi nella monnezza della capitale,
divenuta ormai “Carosello infernale delle macchine de Gianni Agnelli”, descritto
in Dramma della gelosia, estrapola
dal contesto l’unicità di ogni singolo individuo. Nell’equilibrio tra
collettività e individualità sta la forza della sua poetica, che è sempre anche
politica. Nella sua ironia vi è la leggerezza che deride il potere e la
sensibilità di chi ama il più debole, l’arroganza e la malinconia.
Oggi mi guardo attorno e cerco quell’orizzonte. Non riesco a
vederlo. Tutto si frantuma nel clima di durezza, di odio, ogni tentativo di
abbattere il muro dell’indifferenza sembra essere vano. Non abbiamo i suoi
occhi, la mia generazione non ha quell’entusiasmo che aveva la sua. Le idee
nascono troppo fragili e impotenti per affrontare un mondo sempre più ostile. È
difficile cambiare, invertire la tendenza. È difficile unirsi in collettività
che non abbiano l’odio del diverso come unico collante. È difficile, ma come
lei disse in quella lezione di cinema nella quale non voleva parlare di cinema,
non può essere un alibi. Anche in questo caso non la capii. Forse intendeva
dire che anche la disperazione comporta una responsabilità individuale che
ciascuno è tenuto ad assumersi. Che il mondo, anche se non siamo stati noi a
crearlo in questo modo, grava sulle spalle della mia generazione, che deve
decidere in che modo portarne il peso.
O forse intendeva dire che l’orizzonte non è semplicemente
qualcosa che c’è, è lì e basta guardarlo, ma che va costruito. È frutto tanto
della contemplazione quanto della volontà.
Lei, maestro, ci lascia questo orizzonte. È lì, sospeso,
nella speranza di nutrirsi dei nostri sguardi e delle nostre volontà. Per diventare
grande e coinvolgerci tutti in un grande entusiasmo, in una risata, in una
speranza.
Grazie.