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venerdì 6 gennaio 2017

Jhumpa Lahiri e Pasolini, Baudelaire e Karl Marx: i migliori libri letti nel 2016

Come da tradizione, vi proponiamo la lista dei migliori libri letti durante quest'anno. Un'occasione per proporvi delle letture (o riletture), una piccola pausa per meditare su quello che abbiamo letto, sul nostro percorso umano e culturale. Per riflettere su quello che abbiamo imparato, e su quelle innumerevoli cose che ancora abbiamo da imparare. Buon anno a tutti!

Pagine sull'arte, Charles Baudelaire: si tratta dell'antologia degli scritti critici di Baudelaire curata da Carlo Pellegrini nel 1920. Pensieri sparsi, ma divisi per tematica, ci presentano l'arte come lo specchio dell'individualità dell'artista. In questo senso, l'arte non può che essere fine a se stessa e assolutamente distaccata da un'idea di progresso che vada oltre la visione intimista. Un libro che permette di calarsi nella domanda, più che attuale, sull'arte e sull'artista. Può l'arte essere impegnata? Per Baudelaire probabilmente no, ma ciò non toglie che «una tal leggerezza metafisica del mondo baudelairiano vuol esprimere l'esistenza stessa» (Sartre).


In altre parole è stato scritto direttamente in italiano da Jhumpa Lahiri, scrittrice statunitense di origini bengalesi. Il libro è composto di mattoncini leggeri e scarni, capitoli di poche pagine e un linguaggio pulito e scolastico, che in alcuni punti cerca di spiccare il volo con costrutti complessi e parole ricercate. Leggendolo, si percepisce nettamente l'abisso tra la lingua materna e le lingue acquisite. Ogni parola perde la spontaneità e l'ovvietà della lingua quotidiana, e pagina dopo pagina, leggendo dell'innamoramento di Lahiri per la lingua italiana e del suo studio durato anni interi e mai concluso, ci si fa carico dell'enorme peso di ogni singola parola, della fatica immensa di scrivere (e pensare) in una lingua presa in prestito, in cui anche il linguaggio banale e quotidiano è un mistero fitto che solo la pratica costante e l'intimità possono rendere familiare.
Non ho mai trovato che Jhumpa Lahiri fosse una grande scrittrice, ma questo suo libro è diverso dagli altri. Mi ha turbato quanto può farlo un saggio di filosofia del linguaggio, mi ha commosso come L'analfabeta di Agota Kristof. Mi ha fatto cogliere della mia lingua, che do quotidianamente per scontata, tutta la difficoltà, la magnificenza, l'alterità.


Storie della città di Dio. Racconti e cronache romane (1950-1966), di Pasolini.
Lontane nel tempo e nel senso, accomunate dalle coordinate geografiche e dal fascino dei ritratti d'autore, ci sono la Roma di Paolo Sorrentino e quella di Pier Paolo Pasolini. La prima è una Roma inesistente, inerte, superficiale come una patina lucida e rigida stesa su un vuoto rimbombante, è bella e morta come le anatomie di marmo di Piazza Navona. La città di Dio raccontata da Pasolini, invece, è viva, e non perché a ucciderla siano stati i sessant'anni intercorsi tra un ritratto e l'altro. La Roma di Sorrentino è uccisa dal suo occhio mistificatore ed estetizzante, falsificatore, snaturalizzante al pare dell'opera di un
imbalsamatore, di un imbellettatore di mummie, dalla sua assenza di slancio sociale, dal suo ripiegamento sterile su un'interiorità egotica ed edonistica, autoassolutoria, invaghita di una bellezza virginale che è disumana e frigida. L'uomo di carne e l'uomo collettivo ne escono umiliati e offesi, dallo spazio sociale vengono ricacciati nella sfera di un intimo privo di tensione ideale e di spessore materiale («Noi abbiamo già fatto l'amore?»).
La Roma di Pasolini, che inizia a languire nel processo di omologazione culturale della società dei consumi, è invece viva, pulsante, materica, spessa. È guardata sì con l'occhio innamorato di chi proviene dalla periferia dell'Italia, di chi sente forte il fascino della millenaria stratificazione urbanistica e artistica, dell'appassionato di umanità che studia come al microscopio un universo di linguaggi, mimica e percezioni ancora nuovo e alieno. Ma è anche guardata con la lucidità dell'uomo politico, con un taglio ora da antropologo ora da poeta, con a volte una punta di invidia per quelle forme di vita radicate e spontanee, spaventose e fragili, che avevano nelle borgate romane il loro habitat naturale più caratteristico, introvabile altrove.
Un ritratto di Roma che è anche un saggio sociologico, una riflessione sulla religione e sul consumismo, sull'origine e sulla conservazione delle diseguaglianze, un affresco minuzioso di ambienti e folle, una fotografia degli anni Cinquanta e Sessanta, una dichiarazione d'amore.



Liberazione animale di Peter Singer è un classico del pensiero occidentale contemporaneo. In un periodo come quello presente, che vede lo stile di vita vegano e il vegetarianesimo come mode e quasi come manie, di certo come fenomeni socioeconomici e mediatici, come nuovi impulsi vitali per il mercato alimentare e quello editoriale, è fondamentale interrogarsi sul senso reale della scelta auspicata da Singer, quella della rinuncia alla carne. Con immensa competenza bioetica e con estrema lucidità logica, Singer smonta dapprima il mito antropocentrico caratteristico della società Occidentale, per poi analizzare e descrivere gli universi spietati della sperimentazione sugli animali, dell'industria della carne, dell'allevamento industriale per le uova; infine, viene proposto un nuovo modello di vita, non solo antispecista, ma che mette in profonda discussione alcuni degli assunti intrinseci del capitalismo, che stanno alla base di ogni altra forma di sfruttamento e oppressione. L'enorme talento di Singer impedisce che la sua denuncia sia ridotta a dito puntato contro le sofferenze dei singoli animali, con corredo patetico e derive fanatiche: Liberazione animale è un libro assolutamente rigoroso, che giustifica le sue posizioni con grande serietà intellettuale, che mette in discussione alcuni punti cardine della nostra cultura, mostrando una parte degli orrori che l'abitudine e la ricerca esclusiva del profitto ci addestrano fin da bambini ad accettare come uno stato di cose immutabile.


Storia e coscienza di classe, György Lukács, 1922. Raccolta di saggi di teoria e filosofia politica. Di particolare rilievo filosofico è il saggio sulla reificazione: l'autore mette in evidenza come la razionalità capitalistica, formale e calcolante, non tenga conto della mostruosità della condizione del proletariato. Il proletariato è per il Capitale una cosa in sé inconoscibile, i cui bisogni e desideri vitali non sono comprensibili attraverso le categorie formali di cui si serve per irreggimentare la realtà. Il proletariato è la materia densa e oscura che il capitalismo pone nel momento in cui dispiega la sua fredda razionalità: la classe operaia è la massa che si fa coscienza, principio autenticamente vitale e punto di rovesciamento del sistema capitalistico.



La famiglia Karnowski, I.J.Singer, 1943. Ritratto di tre generazioni di una famiglia ebraica, dalla fine del diciannovesimo secolo fino alla Seconda Guerra Mondiale. Un romanzo sull'identità ebraica soggetta, come tutte le identità,  ai mutamenti e agli eventi storici, legata alle vite degli individui che concorrono a costituirla; una profonda riflessione sul senso dell'essere ebreo, sul rapporto con il proprio passato, con i propri padri e con i propri fratelli. Un quadro complesso della comunità ebraica, in cui vivono anime diverse, spesso inconciliabili, in cui il conflitto con il Padre è un conflitto con il testo sacro, con la propria fede religiosa.
 


Casa di bambola, Ibsen, 1879. Opera teatrale d'avanguardia nel teatro e nella letteratura borghese, in cui si mettono in scena tutte le ipocrisie e le miserie della piccola borghesia europea nei decenni a cavallo tra XIX e il XX secolo. Una donna-bambola, stereotipo della perfetta moglie e madre borghese, comincia a sentire questa etichetta sempre più estranea, fino alla scelta di abbandonare il tetto coniugale per riscattarsi come donna, come essere umano. Opera che mette in luce la mediocrità, la finzione della vita borghese, apparentemente rassicurante, ma profondamente segnata da contraddizioni e lacerazioni insanabili.


Manoscritti economico-filosofici del 1844, Karl Marx. Raccolta di manoscritti del giovane Marx, in cui vengono poste le basi per la futura critica dell'economia politica. Nel cuore restano soprattutto i manoscritti sul lavoro alienato, in cui l'autore mette in luce la brutalità, l'estraniazione che il modo di produzione capitalistico impone all'operaio, condannato a vendere la propria forza lavoro come merce. Questa alienazione porta il lavoratore ad avere l'oggetto prodotto di fronte a sé, estraneo, ad allontanarsi da se stesso, dagli altri uomini, dallo stesso genere umano. Un'analisi che pone le basi per uno studio scientifico e sistematico dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, lucida e allo stesso tempo intensa. Un classico indimenticabile della filosofia.


La fattoria degli animali, George Orwell (rilettura): un sempreverde della letteratura che riesce a spalancare finestre sulla questione secolare dei servi e dei padroni nella misura in cui sia possibile un rovesciamento degli uni negli altri. Gli animali della Fattoria Padronale, stanchi dei soprusi subiti, si ribellano all'uomo padrone e, alla cacciata del padrone, il signor Jones, la fattoria cambia nome (diventa la Fattoria degli Animali) e i maiali si assumono la responsabilità di stabilire i ritmi di lavoro di tutti gli animali. I profitti del lavoro vengono divisi secondo il principio "da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni", ma i maiali impongono il proprio volere fino a introdurre una nuova costituzione: "Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri". I servi sono diventati i padroni dei compagni di una volta. Il libro di Orwell era in maniera piuttosto esplicita una critica alla Rivoluzione russa, ma a noi piace leggerlo in chiave contemporanea e ci auguriamo che i servi di oggi non siano i padroni di domani. 


Poeti simbolisti francesi, a cura di Glauco Viazzi: il mistero della poesia che si schiude lentamente e, ogni volta, diversamente per ogni lettore che apporta alla lettura il proprio io. 
"La contemplazione degli oggetti, l'immagine che si diparte dai sogni ch'essi suscitano, è questo, a costituire il canto: i Parnassiani, loro, prendono la cosa nell'interezza sua e la mostrano; talché mancano di mistero; privano gli spiriti della deliziosa gioia di credere che stanno creando. Nominare un oggetto equivale a sopprimere i tre quarti del godimento del poema, ch'è fatto invece della felicità di indovinare poco a poco; suggerirlo, ecco il sogno. È l'uso perfetto di questo mistero, a costituire il simbolo; evocare lentamente un oggetto per mostrare uno stato d'animo, oppure, all'inverso, scegliere un oggetto e farne sprigionare uno stato d'animo grazie ad una serie di decifrazioni" (Mallarmé)

martedì 4 ottobre 2016

Produci consuma crepa: la (cosiddetta) vita di un'operaia-consumatrice

18 quadri della vita di una ragazza della fabbrica di conserve: il cortometraggio, diretto dalla regista ungherese Ágnes Kocsis, onestamente non è molto facile da reperire: 22 minuti che devi sudarti, e alla fine ti lasciano svuotato, amaramente divertito e rabbioso. Se riuscite a rimediarlo, guardatelo, ne vale la pena: questo post non ne sarà un riassunto esauriente, né vuole sembrare una vera recensione, ma contiene qualche mia considerazione peregrina.
Il tono emotivo dei 18 quadri non è una disperazione esplicita, ma un senso omogeneo e costante di stordimento, ottusità, carenza di senso. Tale vuoto ideale e vitale (se si prescinde dalla mera sopravvivenza materiale e dagli automatismi corporei quotidiani) si manifesta nell'espressione fenomenologica forse più propria della nostra società: il consumismo. Qui intendiamo il consumismo non come pratica economica o come elemento sociologico e di costume, ma come dimensione esistenziale. Dimensione sulla quale non occorre che io mi soffermi, visto che è giù stata ampiamente espressa in un autentico trattatello filosofico contemporaneo: il brano "Morire" del gruppo punk rock CCCP Fedeli alla linea:

PRODUCI CONSUMA CREPA 
SBATTITI FATTI CREPA 
PRODUCI CONSUMA CREPA CREPA 
RIEMPITI DI BORCHIE SBATTITI FATTI CREPA 
ROMPITI LE PALLE COTONATI I CAPELLI RASATI I CAPELLI 
CREPA CREPA CREPA CREPA

In questo circuito senza senso la protagonista è avviluppata non solo sotto l'aspetto delle risorse economiche e del tempo vitale (a Bologna, se non erro tra la Stazione ferroviaria e il quartiere Bolognina, un graffito fa notare che "Lavori per comprarti la macchina per andare a lavoro") ma, tristemente fino a toccare i toni del tragico, anche sotto l'aspetto soggettivo-emozionale. L'esperienza quotidiana del consumismo è quella che induce il soggetto consumatore a percepirsi sì ancora come progettualità, ma come progettualità a brevissimo termine, se non a vuoto. Lo svuotamento del senso è totale nella ripetizione, virtualmente all'infinito, di questo ciclo formale. La protagonista, una giovane operaia, acquista e mangia yogurt su yogurt, e non perché le piacciano particolarmente o abbia carenze di calcio, ma per una raccolta punti, ossia per vincere un premio che non le serve (e che, una volta ricevuto, saluterà con un «Che figata! Cos'è?»).


Da qualche parte, nella sezione de Il Capitale dedicata alla forma del valore, il bonario sociologo barbuto spiega i meccanismi basilari dello scambio e i concetti di valore d'uso e valore di scambio. Il valore d'uso del pane è il mio potermene nutrire, il valore d'uso di un maglione è il mio poterlo indossare per ripararmi dal freddo. Semplificando, si può in questo modo descrivere uno scambio tra valori d'uso, mediato dal denaro: ho molto pane, ma niente con cui scaldarmi; vendo parte del pane, ne ottengo del denaro (ossia quell'unica merce il cui valore d'uso è l'essere scambiabile con qualsiasi altra merce) e con questo compro un maglione. Ho ceduto un valore d'uso per averne un altro: lo scambio è stato finalizzato a soddisfare dei miei bisogni, e il denaro non è stato per me che il mezzo atto a tale scopo. Nel ribaltamento di questo schema, ossia nella sostituzione dei mezzi con i fini, si colloca la trasformazione dell'uomo in capitalista: possiedo del denaro, e voglio che figli altro denaro. Allora, acquisterò una merce il cui valore d'uso non mi serve, né mi importa, e la rivenderò a chi ne ha bisogno per averne in cambio altro denaro, che diventa capitale in questo processo di accumulazione estraneo ai bisogni reali e umani.
Possiamo sperimentare un simile capovolgimento paradigmatico, sostituendo i fini con i mezzi nell'osservazione delle attività, non solo umane ma anche macchinali, di produzione e consumo. Mi vengono in mente un tosaerba o un motozappa, o più genericamente un'automobile o una macchina. Considerandoli come "aiutanti" in alcune pratiche umane, emerge innanzitutto la loro natura di strumenti. Loro proprio è il consumo preventivo (o, dal punto di vista del loro utilizzatore umano, l'investimento) di carburante a fronte di un'attività da svolgere, di una "produzione", di un lucro (che sperabilmente coprirà tale spesa anticipata e la renderà conveniente). Questa coniugazione di Consumo-Produzione è l'unica possibile per gli strumenti inanimati del nostro lavoro, in quanto privi di appetiti, di pulsioni desideranti, perfino di "bisogni" materiali (carburante e manutenzione, come l'ammortamento del materiale stesso, non sono certo "richiesti" dal macchinario, ma sono spesa implicita nel processo produttivo).
Ora, ribaltando l'endiadi, dovremmo trovarci di fronte ad un'agenda più propriamente umana: Produzione-Consumo. L'idea è che il lavoro, liberamente intrapreso ed eseguito secondo le proprie esigenze e nella quantità necessaria e sufficiente a soddisfarle, sia solo un mezzo (indiretto, cioè socialmente mediato) finalizzato al consumo. Un "consumo" composito, poiché, a differenza del tosaerba e dei proletari descritti da Engels nel 1845, il contemporaneo operaio-consumatore non vive solo del carburante per sopravvivere e lavorare, ma anche di una quantità di cose superflue, soddisfacenti bisogni secondari o perfino pseudo-bisogni, bisogni indotti o immaginari, i quali non rimandano ad alcuna esigenza umana salvo quella, socialmente determinata, dell'"apparenza".
Alcune considerazioni inducono a osservare come tale paradigma del lavoro libero e scelto, come mezzo di soddisfazione dei bisogni (appunto, Produzione-Consumo), sia più accidentale che essenziale (o perfino più ideale che reale). La prima considerazione è immediatamente conseguente la definizione dei "bisogni indotti": indotti da chi, e a che fine?
L'introduzione di bisogni inesistenti, ma che pure bisogna soddisfare se non si vuol vivere a margine della società, allunga a dismisura il tempo del lavoro necessario: si è costretti a lavorare più del necessario se ci si vuole permettere il superfluo. "Superfluo" che tale solo di rado può essere considerato, a meno che non si sia pronti a essere tacciati di eccentricità (o di comportamenti antisociali).
L'immissione sul mercato di bisogni ulteriori richiede l'istituzione di nuovi processi di produzione che li sorreggano e rendano soddisfabili. Molti bisogni secondari non servono che a innescare nuove produzioni, a concimare nuovi rami del mercato. Qui si vede come il ribaltamento (umano) di Consumo-Produzione in Produzione-Consumo sia fittizio: il consumo è finalizzato ad altra produzione, la quale sottende nuovi consumi e nuove produzioni, e stringe sempre più le spire di un mostro mangiatempo, che alla fine rivela come la condizione dell'operaio-consumatore non sia, se non illusoriamente, diversa da quella del tosaerba. Resta vera per l'essere umano la sequenza Consumo-Produzione, e lo sventolare del consumo al termine della sequenza è dovuto semplicemente al fatto che l'essere umano, a differenza degli strumenti inanimati, ha bisogno di un fine, seppure fittizio, a cui tendere. In questo senso, propriamente, il paradigma consumistico è disumanizzante: degradante dal punto di vista ideale, nel suo porre come fine degno di essere conseguito nella vita sempre un qualcosa che possa essere acquistato (e sostituito con un modello più nuovo secondo i tempi dell'obsolescenza programmata), sia dal punto di vista "materiale", nel suo ridurre di fatto l'essere umano a ingranaggio, in niente diverso dall'ingranaggio, se non nel necessitare, all'avviamento, un piccolo surplus di persuasione (a cui l'ideologia dominante, mediata da montagne di trash televisivo e da propaganda cinematografica, contribuisce ampiamente).
In tutto questo, si verifica un altro ribaltamento, il più distruttivo e angosciante: quello del lavoro in schiavitù. Il lavoro inteso in senso hegeliano, come chiave del riconoscimento e dell'affermazione di sé, diventa una trappola, la maledizione veterotestamentaria lanciata sull'umanità dal Dio-Denaro. Il lavoro è esperito come prigionia, come una macchina produttrice di sudditanza e insoddisfazione, che fagocita più tempo di quello che basterebbe per sopravvivere e snatura quel poco che resta libero, riempiendolo di svaghi socialmente suggeriti, a cui fin da piccoli si è addestrati, e che servono più a distrarre dalla vita che a riempire la vita. La protagonista dei 18 quadri e la sua coinquilina, dopo il lavoro, si dedicano al divertimento (e alla ginnastica davanti alla televisione): a qualcosa che non fa sentire meglio, che non indica alcuna alternativa alla mostruosità della vita dell'operaio-consumatore. Ma non è detto che l'alternativa non esista. Forse alludono a questo le preoccupazioni della protagonista quando Paloma, la sua gatta, cerca di sgattaiolare dal piccolo e squallido appartamento: «Non possiamo farla uscire, o vedrà quanto è bello fuori e non vorrà tornare.»

giovedì 9 gennaio 2014

"Scorpione e Felice" di Karl Marx

«Per chi ha conosciuto Marx nessuna leggenda è più ridicola di quella che lo raffigura come un uomo scorbutico, amareggiato, inflessibile e inavvicinabile, una sorta di Giove tonante arroccato nell'Olimpo di una solitudine inaccessibile, perennemente intento a scagliare i suoi fulmini e senza mai un sorriso sulle labbra. Una simile descrizione del più allegro e giocondo degli uomini, dell'uomo dall'umorismo spumeggiante e dal riso irresistibilmente contagioso, del più gentile, tenero e simpatico dei compagni di gioco, è una fonte di perenne stupore e di spasso per chiunque lo abbia conosciuto

Queste stupefacenti parole appartengono a Eleanor, la figlia del filosofo tedesco dall'aria burbera e dalla critica spietata. Qualcuno potrebbe pensare che una figliola adorante sia sempre di parte nel descrivere il proprio padre... Eppure, leggere qualche opera di Marx non fa che confermare quegli attributi così sorprendenti di cui fa menzione Eleanor. Un profano della filosofia può sentirsi intimidito di fronte all'immensa mole del Capitale, e anche un lettore avvezzo a testi impegnativi tendenzialmente lo immaginerà come un mattone improponibile, un condensato (uhm, non molto condensato in effetti!) di rigore scientifico, disciplina ideologica, sentenze implacabili. Ebbene, quell'indole burlona di Marx affiora inaspettata anche tra le pagine
dei suoi testi più tecnici e impegnati: si concede battute brillanti con la stessa frequenza di citazioni letterarie e poetiche che rivelano la sua vasta conoscenza umanistica, e un tono fortemente ironico quando non sarcastico pervade tutti i suoi testi.
"Scorpione e Felice" è la testimonianza più pura di questo Marx inaspettato e poco conosciuto: l'apparente nonsense del titolo (che riporta in realtà i nomi dei due protagonisti) è corredato dal sottotitolo definitorio, "romanzo umoristico". Nel 1837, il diciannovenne Karl invia a suo padre un bizzarro regalo di compleanno: alcuni capitoli del manoscritto intitolato "Scorpione e Felice". Più che un romanzo, in realtà, è un anti-romanzo: pervenutoci purtroppo in una forma fortemente frammentata e lacunosa che ne accresce la cripticità e ne mutila il senso, lo scritto giovanile di Marx non sembra molto un'autentica narrazione. La storia di Scorpione, Felice, Merten, Greta, si sfilaccia e perde di vista, un po' per l'assenza di numerosi capitoli andati perduti, un po' per l'attenzione dell'autore che sembrava rivolta a tutt'altro. Infatti, i brevi episodi narrativi sono intercalati da lunghe e brillanti divagazioni: un intero, geniale capitolo è dedicato a «lambiccamenti filologici» sull'origine del nome Merten (e in tale contesto, parlando di uno scoliasta, Marx nota che: «Benché noi non possiamo abbracciare la sua opinione, tuttavia essa merita un apprezzamento critico, giacché è scaturita dallo spirito di un uomo che univa a una straordinaria erudizione una grande capacità di fumare - per cui le sue pergamene erano avvolte dalla sacra esalazione del tabacco ed erano quindi state riempite di oracoli in un sibillino entusiasmo d'incenso»), un altro fornisce una versione alternativa sul senso del celebre incipit giovanneo e sull'essenza del Sacro Verbo (che, scopriamo con stupore, risiede tra le cosce di Greta), da un altro apprendiamo che «il maggiorascato è la lisciviatrice dell'aristocrazia» (proprio così).
Il giovane studente in filosofia non era ancora il grande pensatore che tanto peso avrebbe avuto nella storia dell'Occidente e del mondo, ma dai frammenti di "Scorpione e Felice" trapela una cultura già vasta, piena di riferimenti dotti e ricercati (Hoffmann, Shakespeare, Ovidio, Virgilio, Hegel, Hume, Schiller sono solo alcuni degli autori citati), e quello spirito polemico, decostruttivo e irrequieto che troverà soddisfazione anni dopo nelle critiche a Hegel, a Feuerbach, a Stirner, a Proudhon, ai socialisti utopisti come agli economisti classici, fino a porre il sistema e il metodo marxisti in aperta ostilità contro l'impianto capitalistico-borghese della società.
Un giovane brillante, voglioso di discutere i dogmi indiscutibili e di ritorcersi contro quella borghesia nel cui seno aveva pure avuto la ventura di nascere: tutto il carattere di Marx trasuda da "Scorpione e Felice", che non smette di stupire con il suo tono dissacrante che parodizza e ridicolizza la società del tempo, l'atteggiamento degli accademici, la bigotteria e il filisteismo della borghesia, la religiosità didascalica ed enciclopedica fatta di citazioni latine e legendae aureae sui Santi.

«"Un cavallo, un cavallo, un regno per un cavallo" disse Riccardo III.
"Un uomo, un uomo, me stessa per un uomo" disse Greta.»

Il senso dell'umorismo è il talento di pensare e guardare altrimenti, e la burla è un atteggiamento rivoluzionario. Jean-Paul Sartre era l'incubo dei suoi professori perché non si stancava mai di complottare con i suoi compagni per realizzare scherzi e tormentare gli individui più seriosi. Proprio lui nella novella autobiografica "Gesù la civetta" rivela di essere il «satiro ufficiale» della sua comitiva, ed esalta il canular, l'essere burlone, come autentica forma di sovversione dell'ordine costituito. Poco meno di un secolo prima, Marx mostrava il medesimo spirito e scriveva queste pagine che, benché parziali e frammentarie, si lasciano leggere con curiosità e piacere, regalandoci uno sguardo insolito su un gigante del pensiero.
La bella edizione degli Editori Internazionali Riuniti con testo tedesco a fronte è anche corredata da vignette e annotazioni di Engels, compagno di vita, studio e burle per Marx. E se anche di Engels pensavate fosse un tipo serioso e compito... ricredetevi!

«Noi Friedrich Engels
poeta sommo nel ristorante del municipio di Brema e privilegiato
BEONE
comunichiamo e informiamo a tutti i precedenti, i presenti,
gli assenti e i futuri
che siete tutti asini, creature pigre, che continuano
a essere inferme del tedio della propria esistenza,
canaglie che non mi scrivono e così via.
Dato sul nostro sgabello del bancone
in un momento in cui non avevamo i postumi di uno sbornia
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