«Esistono incubi che non scompaiono mai del tutto.»
Jessie è la Brava Mogliettina Burlingame, è la femminista mezza matta Ruth, è il Frugolino del suo papà. Ma, al momento, è soprattutto una donna ammanettata ad un letto.
Lei e suo marito si sono lasciati alle spalle la trafficata Portland per trascorrere un fine settimana tranquillo ma non troppo, laddove l'intimità coniugale deve fare i conti con le tendenze sadomasochistiche dell'avvocato Burlingame. La coppia si rifugia nella casetta sulle sponde del lago Kashwakamak. La stagione è bassa, l'area deserta, la casa praticamente isolata. Gerald ammanetta Jessie ai montanti del letto (con delle manette vere) e poi, colto da malore improvviso, pensa bene di tirare le cuoia. Sua moglie assiste al decesso piena più che altro di stupore (e solo a pagina 50 mostra un minimo di dispiacere per aver visto schiattare il compagno di una vita) e poi riflette tra sé: «Gerald è morto prima di potermi montare in groppa, eppure questa volta mi ha fottuta meglio del solito». Per lei, infatti, è l'inizio di un incubo che istante dopo istante, con l'accrescersi della sua consapevolezza, si fa più concreto e spaventoso. Immobilizzata, isolata dal mondo, accompagnata solo dalle voci «ufesche» delle sue personalità multiple, dal cadavere di Gerald, da un cane randagio che riesce a introdursi in casa e da una presenza lugubre e mostruosa, Jessie deve inventarsi qualcosa per avere salva la vita. Morire di inedia, mezza nuda, come conseguenza di un gioco erotico finito male sarebbe imbarazzante. La portata reale della minaccia si fa strada nella mente di Jessie, riempiendola di panico e spingendola sull'orlo della follia, e trascina con sé il ricordo di un orrore passato mai del tutto sepolto con cui la protagonista deve tornare a misurarsi nella sua sfida per la sopravvivenza.
Stephen King sforna un'altra delle sue trame geniali: un solo personaggio, una sola stanza, un arco temporale ininterrotto di neppure trenta ore. Le unità aristoteliche di azione, tempo e luogo sono radicalizzate e concentrate in un unico nocciolo pulsante di tragedia che pagina dopo pagina cerca di fluire via, verso un difficile lieto fine che la trasformi solo in un «momentaccio» felicemente superato. L'azione è straordinariamente circoscritta, la trama costruita con un lavoro di microchirurgia, lo zoom sui dettagli elevatissimo, la narrazione affidata quasi del tutto a movimenti introspettivi.
L'intuizione è originale e il tentativo estremamente audace: sviluppare un romanzo intero su una struttura così esile, su un'area quasi inestesa di trama e azione è possibile solo ad un autore di genio brillante e comprovato talento. Tuttavia, non innalzerei "Il gioco di Gerald" nel pantheon dei capolavori del Re per una ragione meramente formalistica: in diversi passaggi, lo stile non è all'altezza dell'intenzione e King non è al meglio delle sue possibilità. Non dirò di averlo trovato irriconoscibile, ma il suo procedere a tratti sembra artificioso e un po' forzato. Mi riferisco alla descrizioni dei malesseri della donna ammanettata, ad esempio, che sembrano presi pari pari da un'enciclopedia medica: una lista di sintomi copia-incollata con tanto di termini tecnici e ben poca elaborazione stilistica, un'asettico elenco di complicanze diligentemente studiate e spiattellate al lettore che prenderebbe più a cuore la condizione della vittima se fosse descritta attraverso i suoi occhi (che si presumono emotivamente coinvolti). Mi riferisco alla ricostruzione degli stati d'animo della protagonista, che non trovo del tutto verosimile, soprattutto nelle prime fasi della tragedia. Mi riferisco soprattutto a uno dei vezzi più tipici di King, che è l'uso frequente di similitudini ardite: nel "gioco di Gerald", credo che il Re finisca con lo sfornare delle immagini non solo forzate e infelici ma del tutto ridicole. Ho smarrito il passo preciso (e non ho la minima intenzione di rileggere tutto il libro per trovarlo) ma, giusto per dare un'idea, ad un certo punto la protagonista si dice smarrita come un-non-ricordo-che preda del vento di una notte di marzo senza luna, o una mostruosità simile.
Troppo artificio e troppa costruzione: la protagonista risulta antipatica, l'immedesimazione difficile, le lettura non faticosa ma neppure entusiasmante. Inoltre, in questo libro King si concede di indugiare un po' troppo su luoghi comuni e generalizzazioni di genere, banalizzando delle analisi di tema erotico che potevano essere oggetto di maggiore attenzione (abbondanza di materiale freudiano buttato quasi a caso) e tentando una trasposizione piuttosto ingenua e a tratti irritante di una psiche femminile. Vediamo uno sterile e semplicistico contrapporsi di banalità, del tipo: «più che dotati del pene, gli uomini ne erano afflitti» e «l'unico scopo di una donna è quello di portare a spasso una fica». Ovviamente c'è molta ironia ma non trovo che l'effetto sia molto ben riuscito.
Volendo essere meno pignoli e chiudere bonariamente un occhio sulle questioni stilistiche, possiamo leggere "Il gioco di Gerald" come una fiaba di emancipazione femminile: la Brava Mogliettina Burlingame violenta la propria psiche, costringendosi a far riaffiorare traumi passati, e il proprio corpo, pronta al sacrificio e allo sforzo in vista della liberazione dalle manette che è la liberazione dalla soggezione ai capricci sessuali del marito perverso. Jessie è il femminino che deve attraversare il dolore per approdare all'emancipazione. La neovedova Burlingame riconquista sé stessa, una Jessie padrona del proprio corpo e delle proprie scelte. Una metafora bella ed efficace, se non fosse poco credibile in un autore così maledettamente statunitense da essere a volte incontrollabilmente e forse inavvertitamente maschilista.