Raccolta di aforismi
composta tra il 1944 e il 1947, durante l’esilio di Adorno negli Stati Uniti,
pubblicata nel 1951, Minima Moralia costituisce
una profonda riflessione sulla condizione dell’individuo nell’epoca della
società di massa. La vita è offesa, violata, repressa, tradita da un’organizzazione
economica e sociale repressiva, che riduce l’individuo a macchina di produzione
e consumo. Ne scandisce il tempo, i respiri, gli aspetti più intimi e privati.
Novissimum organum. È stato dimostrato da tempo che il lavoro
salariato ha foggiato le masse dell’età moderna, e ha prodotto l’operaio come
tale. In generale, l’individuo non è solo il sostrato biologico, ma – nello stesso
tempo – la forma riflessa del processo sociale, e la coscienza di se stesso
come di un essente-in-sé è l’apparenza di cui ha bisogno per intensificare la
propria produttività, mentre di fatto l’individuato, nell’economia moderna,
funge da semplice agente della legge del valore. Di qui occorre dedurre, non
solo la sua funzione sociale, ma l’intima struttura dell’individuo in sé.
La società capitalistica, così come si sviluppa nel Novecento, in cui il capitale è sempre più monopolizzato dalle grandi industrie, dalle multinazionali, si sviluppa come un nuovo organismo, onnicomprensivo, che produce, dà forma agli individui. L’individuo racchiude in sé le forme sociali dominanti, è trasparente rispetto all’amministrazione totale della società, completamente informata sulla base delle leggi economiche. Ciò significa che le leggi che dominano la condotta dell’individuo, che ne regolano la vita, sono le stesse leggi che regolano l’andamento e lo sviluppo del mercato. Ma l’aspetto più complesso e più drammatico è forse questo: è necessario, affinché sia un autentico funzionario delle leggi del mercato, che l’individuo pensi di essere qualcosa di diverso da queste leggi, un “essente-in-sè”, un essere libero, autonomo, avente una sua propria sfera privata completamente separata dall’organizzazione economica e sociale vigente. È questa la “falsa coscienza”, la menzogna, la maschera che permette all’uomo di vivere come uno strumento, un ingranaggio della macchina, perché se ne fosse consapevole, non potrebbe tollerarlo. L’uomo attribuisce le sue frustrazioni a se stesso, alla sua sventura: la contraddizione tra la promessa di felicità reclamizzata dai mezzi di comunicazione, dalla pubblicità, e l’assoluta insoddisfazione e frustrazione è all’origine della lacerazione dell’individuo, della decadenza, della freddezza, del vuoto che egli avverte nella sua esistenza, ma che drammaticamente non riesce a spiegarsi. “Questa”, dice Adorno, “è la patogenesi sociale della schizofrenia”.
Da questa
consapevolezza nasce il progetto di scrivere di questa vita offesa. Dall’impossibilità
di poter descrivere in maniera sistematica questo fenomeno, che coinvolge l’uomo
moderno nella sua totale lacerazione, la scelta di una scrittura aforistica: il
pensiero si infrange contro il muro della fredda e crudele organizzazione
sociale, frantumandosi in frasi intrise di fragilità. Adorno fu costretto ad
abbandonare la Germania nazista: l’incubo dello stato totalitario anima quest’opera,
e in generale il pensiero dell’autore. Ma il terrore più grande di Adorno è l’inquietante
affinità della società nazista con la brillante e sfavillante società di massa
americana. Il fascismo non è l’esito di una frattura, non è un morbo che
affligge una società e una cultura perfettamente sane. Il fascismo è il
capitalismo che mostra il suo volto più violento nei momenti di crisi. È continuità
con la cultura occidentale, che tende a fare dell’universale una legge
totalizzante e omologante, che schiaccia e umilia la vita nella sua molteplicità
e diversità irriducibile.
La vita è offesa nella
distanza che separa gli individui, che rompe ogni legame solidale per gettarli
in un regime di concorrenza spietata che li conduce all’autoannientamento: l’incapacità
di un contatto fisico, la superficialità delle conversazioni, l’inautenticità
dei rapporti umani, rendono l’individuo disperatamente solo, spintonato e
schiacciato dal movimento frenetico della folla. La vita è offesa nel tempo che
le viene negato. Come cantava John Lennon “As soon as you're born they make you feel small/ by giving you no time
instead of it all…”: il tempo del lavoratore viene suddiviso in tempo di
lavoro e tempo libero. Se
durante il lavoro l’uomo è costretto a sacrificare il suo tempo per la
produzione, durante il tempo libero egli deve sacrificarlo per il consumo. Il mercato
scandisce l’intera giornata degli individui: lavorare, comprare, avere “hobbies”,
ossia spendere il proprio tempo in attività tollerate, organizzate, che
costituiscono fonti di profitto. L’industria culturale ha qui un ruolo
fondamentale: anche la fruizione della cultura non è esente dalle leggi del
mercato. Nel momento in cui pubblicherò questo post, sarò inglobata nelle leggi
dell’industria culturale. Non c’è via d’uscita, e pensare di essere degli “outsiders”
rispetto al sistema, è mera illusione e cattiva coscienza. Nel lavoro, come nel
piacere, entrambi irreggimentati e controllati, l’individuo muore, la vita
viene offesa.
Persino nella sfera
erotica permea l’ideologia borghese e capitalista. A questo proposito, l’aforisma
intitolato “Il guastafeste” è illuminante. Adorno critica l’interpretazione del
piacere di Schopenhauer, secondo cui l’esistenza dell’uomo è scandita dall’insoddisfazione
che ci conduce alla ricerca del piacere e dalla noia che segue il
soddisfacimento del desiderio. Per Adorno il merito di Schopenhauer è di aver
intuito che i piaceri che inseguiamo ci rendono sempre più frustrati e
insoddisfatti, ma ciò che il filosofo del dolore e della noia non ha compreso,
è che questo accade perché i piaceri che noi viviamo non sono autentici, e non
lo sono perché la società in cui li conseguiamo non è libera. L’idea che all’atto
sessuale segua la noia, è un’idea tipicamente borghese, la cui ideologia nega
ogni possibilità di stasi, di pace. L’uomo borghese deve sempre agire,
muoversi, lavorare, produrre: l’eros è un’attività in cui bisogna produrre il
maggior numero possibile di orgasmi, possibilmente all’interno di una coppia la
cui unione è legittimata istituzionalmente e, ancor meglio, finalizzata alla
riproduzione.
Il detto omne animal post coitum triste è stato inventato dal disprezzo borghese per l’uomo:
qui, più che in ogni altra sede, l’umano si distingue dalla tristezza della
creatura animale. Non all’ebbrezza, ma all’amore socialmente approvato, succede
la nausea […] Nell’innamorato la stanchezza si trasforma in richiesta di
tenerezza, e la momentanea incapacità del sesso appare come qualcosa di
contingente e affatto esterno alla passione. Non per nulla Baudelaire ha
concepito come un tutto unico l’ossessione della schiavitù erotica e l’incipiente
spiritualizzazione, e definito ugualmente immortali bacio, profumo e colloquio.
Nell’amante che giace
tra le braccia dell’amato, la vita si rivela nella sua concreta forza e
fragilità. Nel senso di appagamento, di calore, di umanità che segue ad un
rapporto autentico, si rivela l’utopia di un’esistenza libera e degna di questo
nome. Quel senso di appagamento dovrebbe seguire ad ogni attività dell’individuo:
il lavoro, lo studio, il dialogo, il contatto con gli altri, dovrebbero
lasciare in noi questa sensazione di pace, di soddisfazione.
Ciò non accade non
perché l’uomo sia condannato a soffrire e ad annoiarsi, ma perché l’uomo è
condannato, in questo mondo, in questo
stato di cose, a soffrire e a sacrificare il proprio tempo.
Il pensiero
rigidamente critico di Adorno, che condanna l'intero esistente con
durezza, che non è disposto a cedere, a vedere spiragli, è animato dalla dolce
utopia di una redenzione dell’umanità. Nel mondo che si rivela in tutto il suo
orrore, il pensiero non può che fare “Tre passi di distanza”, criticarlo e
condannarlo. Ma alla disperazione e al nichilismo del pensiero adorniano
soggiace una grande idea, che rende il “Tutto” falso e terribile: che l’orrore
non sia necessario, che l’uomo possa liberarsi, che l’umanità possa essere
diversa e più giusta di quella che è oggi.