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giovedì 31 dicembre 2015

I 10 libri più belli letti nel 2015: da Dostoevskij a Kristof, da Pasolini a Vattimo

Nell'ultimo dell'anno, noi di Caratteri Vaganti vi proponiamo la nostra "Top Ten": i dieci libri più edificanti, suggestivi e belli che abbiamo letto in questo 2015. Sperando che la nostra lista vi dia qualche spunto, vi auguriamo un 2016 pieno di libri, di film e (possibilmente) rivoluzionario!


1. Petrolio, Pier Paolo Pasolini, pubblicato postumo nel 1992. Una discesa nei gironi dell'Italia degli anni Settanta, segnata dal conformismo, dalla sete di potere, dall'imporsi di un modello occidentale privo di alternative, che riduce a sé ogni specificità, da quella popolare del mondo delle borgate, a quella dell'intellettuale di sinistra, ormai perfettamente integrato nei salotti buoni.

2. I Demonî, Dostoevskij, 1873. Come in una tragedia dell'antica Grecia, Dostoevskij mette in scena un dramma collettivo, corale. Quello della lotta contro le ingiustizie, del nichilismo, dell'ossessione, della rivoluzione.

3. Costituzione e lotta di classe, Hans Jürgen Krahl, pubblicato postumo nel 1971. Allievo di Adorno, Krahl fu uno degli interpreti più lucidi della Scuola di Francoforte. Morto all'età di ventisette anni, non ha potuto lasciarci un'opera completa, ma questa raccolta di saggi e interventi getta luce su molte questioni affrontate dai suoi maestri francofortesi, e ci dice molto della sua generazione, dei suoi sogni e delle sue speranze. Quella del 1968.

4. L'analfabeta, Agota Kristof, racconto autobiografico scritto per una rivista di Zurigo. La scrittrice ripercorre la propria esistenza secondo un unico filo conduttore: la lingua. Se per l'Agota bambina l'unica lingua concepibile come universale è l'ungherese, per l'Agota adulta ed esule la lingua ungherese perde la propria globalità e diventa la lingua incomprensibile dello straniero, causa di emarginazione. Lo straniero, l'esule, non è solo colui che non può essere capito. È un analfabeta. Ella scrive: «Questa lingua, il francese, non l’ho scelta io. Mi è stata imposta dal caso, delle circostanze. So che non riuscirò mai a scrivere come scrivono gli scrittori francesi di nascita. Ma scriverò come meglio potrò. È una sfida. La sfida di un’analfabeta.»

5. Il pensiero debole, a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, 2010. Una raccolta di saggi che oggi, più che mai, vale la pena leggere. Contro ogni metafisica fondazionale, i diversi autori dichiarano la pregnanza della soggettività. Se, come scrive Rovatti, «la situazione tipica del pensiero "forte" è [...] quella in cui pensante e pensato, chi pensa e cosa si pensa sono solidali», il pensiero debole si propone come ciò che può spodestare l'essere dalla sua centralità e presentare la ragione non più come universale, ma come «una singolarità tra le altre».

6. La metamorfosi, Franz Kafka. Pubblicato per la prima volta nel 1915, il racconto smaschera l'ipocrisia borghese perbenista. Nonostante il nobile intento, Kafka non nasconde (il protagonista ne è, in qualche modo, l'alter ego) al lettore che, dietro l'umiliazione subìta, si nasconde un desiderio, più che conscio, di far parte interamente di quel mondo ovattato di ipocrisia.

7. 36 Poesie, Attilio Bertolucci. Non poteva mancare un libro di poesie, porto ospitale per quei giorni in cui la narrativa non basta.

8. Tungsteno, Cesar Vallejo. Uno dei maggiori poeti peruviani per una sola volta si è cimentato con il mezzo espressivo del romanzo e il risultato è imperdibile. Atti di quotidiana crudeltà e cinismo si consumano nella zona mineraria di Cuzco, dove gli imprenditori statunitensi della Mining Society in combutta con le autorità locali spadroneggiano sugli indios facendone i propri schiavi nelle miniere. È un libro asciutto e vero, che racconta delle violenze operate dai gringos, della vita misera dei mineros che dopo essere stati sfruttati disumanamente possono ripiegare solo nelle loro squallide catapecchie, delle prepotenze operate dalle autorità sui manifestanti e sugli indios rastrellati nei villaggi rurali per fornire manodopera schiavile nelle fucine. Ma racconta anche degli entusiasmi di inizio secolo, delle agitazioni e dell'aspirazione a una vita più giusta.

9. Italiani brava gente?, Angelo Del Boca. Un illustre storico del colonialismo italiano cerca di sfatare, in questo libro ricco e necessario, il mito più solido del nostro Paese. Del Boca sviscera alcuni degli episodi più bui della nostra storia, dalla guerra al brigantaggio che ha visto stragi di ribelli nel sud Italia e decimazioni in villaggi innocenti ad opera del nuovo governo all'indomani dell'unità, alla brutalità della Grande Guerra e alla disinvoltura con cui Cadorna ha destinato al massacro ondate di giovani soldati, alle violenze operate in Africa durante gli anni del Fascismo. Di più ancora: questo libro scava sotto la retorica della conquista, della superiore civiltà italiana, del nostro essere "brava gente", e ci rivela anche gli aspetti meno conosciuti e più dolorosi da confessare: le deportazioni e i campi di concentramento realizzati dagli italiani in Libia, gli ordini ufficiali di decimare la popolazione, lo sciacallaggio operato dai nostri in Cina approfittando della Guerra dei Boxer, i tentativi di pulizia etnica che abbiamo perpetrato nei Paesi slavi (e sui quali abbiano anche ricamato il mito delle Foibe), la prigione di Nocra in cui lasciavamo i detenuti a morire di stenti, privi di acqua potabile e di cibo, per poi fucilarli senz'altro se tentavano di evadere. Queste e altre ancora sono le pagine di storia che Del Boca ci invita ad approfondire, mostrandoci il lato più oscuro e doloroso della nostra italianità.

10. Montedidio, Erri De Luca. «Calo la saracinesca, ci salutiamo, dice che è bello avere le ali, ma è stato più bello avere mani buone per lavorare». Le storie del piccolo protagonista, del calzolaio ebreo Rafaniello, della ragazzina che "ha già conosciuto lo schifo", molestata dal padrone di casa per sanare all'affitto arretrato, si intrecciano sullo sfondo di una Napoli laboriosa e rumorosa, di file di panni stesi che tagliano a fette il cielo azzurro, delle strade animate dalle voci delle comari e dei venditori di pettini. Una romanzo che somiglia a una poesia.


Nina, Bulma e Clem

martedì 15 dicembre 2015

I demonî, Dostoevskij

E c’era lì a pascolare pel monte un gran branco di porci; e lo scongiurarono a permetter loro di entrare in quelli. Ed egli permise. Allora i demoni, usciti da quell’uomo, entrarono nei porci e con grande impeto la mandria si precipitò nel lago e ivi affogò. Appena videro quanto era accaduto, i mandriani fuggirono a portare la notizia in città e per le campagne. E la gente uscì a vedere l’accaduto, e, venuti a Gesù, trovarono l’uomo, dal quale erano usciti i demoni, seduto ai piedi di Gesù, rivestito, in sé, e s’impaurirono. E quelli che avevano vista la cosa, raccontarono anche loro come l’ossesso era stato liberato.
VANGELO DI SAN LUCA, Cap. VIII, 32-37

La citazione che costituisce l’incipit del romanzo racchiude ermeticamente il senso dell’intera vicenda narrata da Dostoevskij, ispirata ai movimenti anarchici russi di metà Ottocento e, in particolare, all’anarchismo di Nečaev.
La vicenda si svolge in una provincia russa nella quale una “cinquina” di anarchici, capeggiata da Piotr Stepanovic Verchovenski si insinua, dapprima pacificamente, nella politica della comunità, accattivandosi il ceto dirigente, in particolare la moglie del governatore, Elizaveta Prokofevna, con un piano machiavellico scrupolosamente architettato: sabotare le iniziative politiche e sociali della classe dominante, insidiare i rapporti personali tra i membri del ceto dirigente, con l’intento di creare scompiglio, disorientamento. Fare abbassare la guardia ai custodi dell’ordine pubblico, in modo da creare situazioni di disordine violento e porre le condizioni per un abbattimento totale delle istituzioni del potere. Il tono del narratore segue un drammatico crescendo: la sedizione strisciante, nascosta, mascherata, rete che si avvinghia attorno ai protagonisti della vicenda, fino a stringerli in una morsa che non risparmierà nessuno, né le vittime, né i carnefici, distinzione che nella narrazione si fa sempre più sottile; e poi l’esplosione finale, l’incendio della provincia, culmine catartico di un piano che sembra non avere né autori né responsabili, in cui l’orrore e la violenza si distribuiscono ambiguamente tra i protagonisti della vicenda.
Tralascerò in questa sede l’esposizione più dettagliata delle vicende che intessono la trama del racconto, e mio malgrado, dovrò anche tralasciare una descrizione dettagliata della psicologia dei singoli personaggi, che pure meriterebbe una profonda riflessione. Ciò su cui intendo soffermarmi principalmente è il percorso dell’Idea, a mio avviso autentica protagonista del romanzo: dapprima parla con voce flebile alla coscienza umana, una voce talmente debole che richiede concentrazione e attenzione per poter essere udita, che va isolata da tutte le altri voci della coscienza. L’Idea si insinua gradualmente, dolce e inarrestabile, come un tarlo che comincia a scavare un tunnel profondo nei nostri pensieri, creando labirinti che conducono sempre allo stesso punto, all’Idea. Ogni concetto dalla mente elaborato, ogni dubbio, ogni domanda costituiscono per l’Idea il  nutrimento che le permette di crescere, una sorta di massa tumorale che occupa e divora tutta quanta la materia cerebrale. È il momento della possessione demoniaca: l’Idea vuole uscire da sé, diventare azione, realtà. E allora ci ordina di agire in suo nome: l’Idea guida tutte le nostre azioni, è fonte assoluta di legittimazione della nostra condotta morale. In nome dell’Idea si può ingannare, tradire, raggirare l’altro. Solo in nome dell’Idea si può uccidere. Il nesso istituito da Dostoevskij tra un’idea che agisce ossessivamente nel suo portatore e il delitto che il soggetto si ritiene legittimato a compiere, è un motivo ricorrente nella narrazione dell’autore: penso a Delitto e castigo, in cui il protagonista vive un tormento che lo affligge sia prima di uccidere la vecchia usuraia, sia dopo. Il protagonista teorizza che il delitto sia legittimo nel caso in cui si voglia combattere un’ingiustizia, e in nome di questa idea che si impossessa di lui in maniera sempre più prepotente, egli uccide, salvo poi espiare con la malattia, con la sofferenza inconsolabile la sua colpa. Fino alla catarsi, quando “alla dialettica si sostituisce l’amore”. Penso ai Fratelli Karamazov: Ivan Karamazov teorizza che “se Dio non esiste, tutto è concesso”. L’Idea che diventa realtà morale e intellettuale in Ivan, diventa realtà fisica in Smerdiakov, che ammazzerà il loro spregevole padre. Questa dimensione del “demoniaco” è una costante nei romanzi di Dostoevskij, ed è forse il punto focale in cui convergono le varie prospettive dalle quali l’autore guarda alla natura umana. Ma la particolarità de I demonî sta nella natura collettiva dell’ossessione: dal singolo, la possessione demoniaca si trasferisce ai “porci”, coinvolge una collettività.

Se non ho ancora precisato di quale idea si tratti non è per dimenticanza, ma  perché ritengo che la natura dell’idea non sia fondamentale nella descrizione di un’ossessione o di una possessione demoniaca. Si è ossessionati, si è “posseduti” nel momento in cui un’unica e sola idea diventa l’unica fonte del nostro agire, permea in tutti i molteplici e contraddittori aspetti della nostra psiche, abbatte ogni luogo di resistenza. Anche un’idea come quella di Ivan Karamazov, che sembra rimandare ad un relativismo che molti definirebbero spregevole e moralmente deprecabile, è un’idea che ha tutti i caratteri dell’assolutezza: Ivan uccide idealmente suo padre non perché è un relativista, ma proprio in nome dell’assolutezza imperativa della sua idea. È come se Dostoevskij ci dicesse che il mondo delle idee non è in alcun modo conciliabile con la storia e, nel momento in cui si cerca di far diventare realtà quell’Idea, l’individuo (o la collettività) si ritrova stretto in una morsa, in una contraddizione che è impossibile sanare: se si vuole realizzare un’idea nella sua purezza, così come essa è nella nostra mente, si dovrà ammazzare, annientare quella realtà a cui l’idea dovrebbe dar forma. L’idea sarà sempre in qualche modo tradita: nel momento in cui diventa “fatto”, l’idea perde la sua assolutezza, la sua purezza e perfezione, per divenire qualcosa di misero e aberrante. E il portatore dell’idea, che vede tutto ciò in cui ha creduto sporcato e umiliato, non può far altro che pentirsi ed espiare la sua colpa. Colui che invece vuole salvare la purezza dell’Idea ha un solo modo per metterla in pratica: il suicidio.
L’idea demoniaca dei maiali del romanzo è la Rivoluzione. Il rovesciamento totale e sistematico delle istituzioni del potere, l’abbattimento della differenza di classe, la libertà assoluta dell’uomo. Il piano di Piotr Stepanovic, uno dei capi di un’organizzazione anarchica operante (a suo dire) in tutta la Russia, organizzata in piccoli gruppi da cinque, è semplice e geniale: entrare nelle grazie della moglie del governatore, dalle idee moderatamente liberali, e sabotare la sua grande festa di beneficenza organizzata per le governanti indigenti, con letture di intellettuali di spicco e gran ballo finale. La festa è preceduta da uno sciopero di operai, succeduta da un incendio e sabotata da ubriaconi e personaggi di dubbia reputazione che si intrufolano nella festa creando scompiglio. In vista del suo progetto, Piotr Stepanovic ricorre a tutti gli inganni e le prepotenze di cui è capace, esercita una tirannia sui suoi compagni tale da spingerli ad assassinare un loro ex compagno, Sciatov, con l’accusa, assai poco fondata, che egli avrebbe prima o poi denunciato. Piotr Stepanovic è meschino, infido, vile, disposto a rovesciare “l’assoluta libertà in assoluta schiavitù”, come ebbe a dire un suo compagno di lotta. L’aspetto forse più interessante di questo personaggio è che, pur essendo l’artefice di tutto il piano, l’intelligente demiurgo che imprime l’idea nella materia, sembra essere il meno “indemoniato”. La sua spregevole condotta sembra più legata a ragioni personali, soggettive (il suo rapporto con il padre, che reputa indegno e vile, la sua antipatia personale per Sciatov, verso cui nutre vecchi rancori che nulla hanno a che fare con la rivoluzione): Piotr non è uno di quei porci che si getterà nel lago, ma fuggirà con destrezza una volta portato a termine il suo progetto.
I veri posseduti si ammazzeranno: Kirillov e Nikolai Stavroghin. Il primo per affermare la sua assoluta libertà: il suicidio è l’esito nichilistico di una scelta razionale, senza alcuna motivazione estranea alla propria libertà. Così Kirillov motiva il suo suicidio, annunciato come proposito sin dall’inizio del romanzo:

La vita è dolore, la vita è paura, e l’uomo è infelice. Ora tutto è dolore e paura: l’uomo ama la vita perché ama il dolore e la paura. Lo hanno fatto così. La vita viene concessa a prezzo di dolore e paura, e qui sta tutto l’inganno. Ora l’uomo non è ancora quell’uomo che dovrà essere. Vi sarà l’uomo nuovo, felice e superbo. Quello al quale sarà indifferente vivere, quello sarà l’uomo nuovo! Chi vincerà il dolore e la paura, quello sarà Dio. E l’altro Dio non vi sarà più.

La descrizione dello stato d’animo di Stavroghin nel momento in cui decide di impiccarsi, è decisamente diversa. Il narratore descrive il tormento che trapela dalla lettera scritta da Stavroghin prima di morire:

Questo documento, secondo me, è opera di un uomo in istato morboso, dettata dal demone che si era impadronito di lui. Pare il dimenarsi di un malato che soffra di un dolore acuto, e si agiti nel letto col desiderio di trovare una positura che gli allevii almeno per un attimo lo spasimo. Colui, naturalmente, ha altro per la testa che la bellezza o la ragionevolezza della posizione. L’idea fondamentale del documento è la terribile, non simulata esigenza del castigo, l’esigenza della croce, del pubblico supplizio. E tuttavia questa esigenza della croce si fa sentire in un uomo che non crede nella croce, e già questo solo costituisce un’ “idea”, come disse un giorno Stepan Trofimovic, del resto, a un altro proposito. Tutto il documento è nello stesso tempo qualcosa di tempestoso e disperato, sebbene scritto, evidentemente, con un altro scopo.

L’idea che si impossessa di entrambi questi porci è quella del nichilismo, della distruzione totale liberatrice, che si declina in due prassi differenti, entrambe autodistruttive: quella suicida di Kirillov, razionale e filosofica, e quella dissoluta di Stavroghin, che con la sua condotta immorale vuole distruggere i dogmi del suo tempo, primo fra tutti il buon senso e la morigeratezza. Entrambi realizzano e allo stesso tempo tradiscono e mortificano il loro nichilismo, e allora la morte, come unico mezzo di liberazione dalla contraddizione.

Le passioni, le ossessioni che tormentano i personaggi di questo romanzo culminano in un grande incendio, nella distruzione totale di sé, degli altri. Poi il nulla, la cui dolce e pesante quiete graverà sulle future generazioni. La tragedia appassionata del cammino dell’Idea distrugge tutto ciò che incontra lungo la via, fino alla sua stessa dissoluzione.

domenica 2 febbraio 2014

"Povera gente" di Fëdor Dostoevskij


«Proprio presso una palizzata c'era un tale in disparte e supplicava, dicendo: "Dammi mezza kopeka, signore, per l'amor di Cristo," e con voce tanto aspra, rozza, che mi ha scosso per un certo senso di paura, ma non ho dato la mezza kopeka: non l'avevo. Per di più alla gente ricca non piace che i poveri si lamentino ad alta voce della magra sorte: molestano, sono importuni. Sì, la povertà è sempre importuna: i gemiti degli affamati, certo, disturbano il sonno del ricco!»

Con "Povera gente", il giovane Dostoevskij si affaccia per la prima volta sulla scena letteraria pietroburghese, sollevando un clamore e un successo che sorprendono lui stesso per primo. Animato da una segreta passione per la letteratura e soprattutto per il teatro, il venticinquenne studente di ingegneria dedica parte delle sue notti e tutto il suo tempo libero alla stesura di un romanzo epistolare. La sua opera prima vede la luce dopo nove mesi di gestazione. Senza troppa fiducia nella clemenza dei critici e senza osare sperare nel successo, Dostoevskij porta il manoscritto al poeta Nikolaj Nekrasov e glielo lascia con poche parole. Teme il giudizio del letterato, lo aspetta nervosamente, e tutto si aspetta fuorché di ricevere visite alle quattro del mattino seguente: appena finito di leggere il manoscritto, Nekrasov si precipita a casa sua quasi con le lacrime agli occhi. Giudica il romanzo epistolare un capolavoro. «È apparso un nuovo Gogol'!» sono le parole con cui lo stesso Nekrasov accompagna il manoscritto al momento di sottoporlo a Belinskij, il critico più temuto da Dostoevskij che lo immagina «minaccioso e terribile».
Il manoscritto viene accolto con il massimo dell'entusiasmo dal temuto Belinskij, e per la

sua approvazione (come per i suoi contenuti) incontra immediatamente l'opposizione dei critici e dei lettori reazionari. La storia, semplice e quotidiana, abita la Pietroburgo degli impiegati e degli affittacamere, delle cucitrici e dei mendicanti: la Pietroburgo della povera gente. Makar Djevuskin e Varvara Dobrosjelova, la sua giovane protetta, attraverso un fitto scambio epistolare raccontano di due processi. Il primo, forse ricettacolo di qualche riflesso autobiografico, è quello che vorrebbe fare di Makar uno scrittore: l'uomo nutre questa intima ambizione ma è consapevole dei suoi limiti, in particolare della sua ignoranza. Frequenta il salotto letterario di Ratazjajev, un imbecille borioso del tutto ignaro di cosa sia la buona letteratura, ma che Makar nella sua umiltà vede come un vate, come un grandissimo artista degno di ammirazione, tanto più che gli permette di arrotondare facendolo lavorare presso di sé come copista. Nel corso del romanzo, anche attraverso i giudizi e le letture suggerite dalla più colta Varvara, Makar cerca di nutrire la sua ambizione, confidandola alla giovane, scrivendo un po'. L'indice costante del tragitto percorso è lo stile delle lettere, banale e prolisso al principio, sempre più sofisticato e retorico fino al finale: punteggiatura di tutto l'epistolario, autentica ossessione di Makar e luogo comune della sua espressione, è proprio quel suo desiderio di «formarsi uno stile».
L'altro processo descritto dall'epistolario, è quello veicolato da speranza e fede, che dovrebbe portare (e parzialmente porta) i due protagonisti dal loro stato miserando ad un lieto fino di agiatezza. Il desiderio di riscatto sociale, per sé e per gli altri, permea tutto il romanzo e manifesta quell'inclinazione sovversiva e socialista che porterà Dostoevskij alla condanna a morte, poi commutata in deportazione in Siberia e lavori forzati, solo tre anni più tardi.
L'attenzione per la miseria umana, per la degradazione umiliante del ceto impiegatizio più misero, attraverso il filtro impagabile del talento di Dostoevskij ci regala pagine struggenti, "patetiche" nel senso più puro ed elogiativo del termine: la povertà e l'ingiustizia sociale, la riflessione su quest'ultima, il sentimento vivo della propria oppressione e umiliazione sono i punti a giorno di un tessuto vivo e commovente.
Il parallelo e il contrasto con Gogol' sorgono spontanei. L'impiegato vessato e miserando de "Il cappotto", Akakij Akakievič, beve l'amaro calice della povertà fino alla feccia e per lui non c'è alcun lieto fine, né potrebbe esserci. Makar, che su suggerimento di Varvara legge i racconti di Gogol', si lamenta appunto di questo, di quanto profondamente ingiusto sia che quel personaggio sfortunato sia perseguitato dalla miseria fino all'ultimo. È una questione di speculare simmetria, allora, l'incontro con Sua Eccellenza (la famosa "scena del bottone"), che ribalta gli esiti e le emozioni dell'incontro col Personaggio Importante che infligge l'ennesima umiliazione ad Akakij Akakievič.
Il lieto fine è in parte riconfermato e in parte negato da quanto accade a Varvara: insidiata da un giovane insopportabile ma molto ricco, finisce col concedergli il proprio affetto e la propria mano. Makar resta privato del suo rapporto umano più prezioso, del suo «passerottino»: Varvara smette finalmente di patire le ristrettezze della sua condizione (buon per lei che ha il suo happy ending quasi fiabesco), ma il protagonista rimane immiserito anche di quella sua ultima ricchezza, l'amore per Varvara.

L'unica cosa di cui si avverte fortemente la mancanza, è quello stile meravigliosamente dostoevskijano che possiamo apprezzare nelle opere più tarde, benché in un romanzo epistolare tale mancanza sia necessaria e imprescindibile: l'autore stesso osserva in una lettera come abbia dovuto annullare completamente ogni traccia di sé e del proprio modo di scrivere, delegando ogni espressione agli stili dei personaggi. Tale annullamento è peraltro ottimamente riuscito.
Opera prima curatissima, "Povera gente" contiene in nuce alcuni temi della maturità e preannuncia i capolavori futuri con delicatezza e profondità di sguardo.


«Lì, in qualche angolo fumoso, in qualche canile umido, che per necessità è tenuto alla stregua di un alloggio, un artigiano si è destato dal sonno; e nel sonno, parlando figuratamente, per tutta la notte ha sognato gli stivali che ieri ha rotto senza rimedio, proprio come se un uomo debba sognare una porcheria simile! [...] Proprio qui, in questa stessa casa, a un piano superiore o inferiore, in camere dorate, anche un ricchissimo personaggio, forse, di notte, sogna sempre gli stessi stivali, cioè, stivali di un'altra qualità, di un altro modello, ma nondimeno stivali, poiché nella mia idea qui sottintesa, noi tutti siamo un po' calzolai, cara. Anche questo non sarebbe niente, ma soltanto è vergogna che, accanto a questo ricchissimo personaggio non ci sia un uomo che gli mormori all'orecchio: "Basta, insomma, pensare a una cosa simile, pensare unicamente a te stesso, vivere soltanto per te stesso; tu, dunque, non sei un calzolaio, e i tuoi figli sono sani, tua moglie non chiede pane, guardati intorno, non vedi forse per le tue preoccupazioni un oggetto più nobile dei tuoi stivali?"»

giovedì 25 aprile 2013

"Le notti bianche" di Fëdor Dostoevskij

Con un ossequioso rispetto mi accingo a leggere "Le notti bianche" di Dostoevskij: è un libricino di 124 pagine, acquistato in un ipermercato alla modica cifra di 0,99 centesimi nella edizione Newton Compton. (0,99 cent: meno di un cornetto!)
Il titolo, che palesemente richiama il fenomeno atmosferico per il quale, in alcuni luoghi e periodi dell'anno, il sole tramonta dopo le 22, è senza dubbio emblematico: le notti bianche sono notti in cui una realtà appiattita si anima, facendo della speranza linfa vitale grazie alla quale un futuro dell’appagamento spodesta un presente dell’adeguarsi. 
Una notte, il protagonista incontra Nasten'ka, una diciassettenne segregata in casa dalla nonna iperprotettiva: l'incontro fortuito risveglia l'animo introverso del giovane, che è un sognatore («Un sognatore - se è necessaria una sua definizione precisa -non è una persona, ma, sapete, un essere di genere neutro. Si stabilisce il più delle volte in qualche angolo inaccessibile, come se ci si nascondesse perfino della luce del giorno, e quando poi si rifugia a casa, allora si radica al suo angolo come una lumaca [...]») , e stuzzica la curiosità della ragazza, che cerca di dimenticare un amore ormai perduto. I due si rivedono per quattro notti, alle 22 in punto, dandosi appuntamento davanti alla panchina su cui la giovane aspetta di incontrare il ragazzo partito da un anno con la promessa di sposarla non appena avrebbe fatto fortuna.  Quattro notti sono sufficienti per aprirsi l'un l'altro, dando vita a un empatico scambio di sentimenti e di vedute in cui è facile vedere il germoglio di un nuovo legame. 

«[...] c'è, Nasten'ka, amica mia, un momento della mia giornata che amo particolarmente. È il momento in cui quasi tutti gli affari, i doveri e gli impegni terminano, e tutti si affrettano alle loro case per mangiare, stendersi a riposare e intanto, per strada, escogitano anche altri propositi allegri concernenti la serata, la notte e tutto il rimanente tempo libero. In quel momento anche il nostro eroe, - perché, Nasten'ka, permettetemi ancora di raccontare in terza persona, giacché in prima persona tutto ciò è terribilmente imbarazzante da raccontare, - cosicché, in quel momento, anche il nostro eroe, che lui pure ha avuto il suo daffare, cammina dietro gli altri. Ma uno strano sentimento di piacere gioca sul suo volto pallido, come un po' sciupato. Guarda con partecipazione il tramonto che lentamente si spegne contro il freddo cielo pietroburghese. Quando dico -guarda, mento: non guarda, ma contempla pressoché inconsciamente, come stanco o occupato al tempo stesso da qualche altro pensiero più interessante, cosicché forse solo di sfuggita, quasi involontariamente, può dedicare un po' di tempo a tutto ciò che lo circonda. [...] Nella camera si è fatto scuro; nella sua anima c'è vuoto e tristezza; l'intero regno dei sogni si è sgretolato intorno a lui, si è sgretolato senza traccia, senza rumore né chiasso, è svanito come una visione, e lui stesso non ricorda cosa abbia fantasticato.»

Eppure la bianchezza di queste notti nasconde l’insidia della disillusione, la spietatezza della lucidità, il furore dell’addio. Durante l'ultima notte, Nasten'ka scorge nel buio il vecchio amore e, senza esitare, lascia la mano del nostro protagonista per gettarsi al collo del ritrovato. 


«Le mie notti finirono un mattino.[...] Non so perché, all'improvviso mi sembrò che anche la mia camera fosse invecchiata come la vecchia. Le pareti e il pavimento erano sbiaditi, tutto si era offuscato; di ragnatele ce n'erano ancora di più. Non so perché, quando guardai alla finestra, mi sembrò che la casa di fronte anche fosse diventata decrepita e si fosse a sua volta offuscata, che gli stucchi sulle colonne si fossero staccati e fossero caduti, che i cornicioni si fossero anneriti e coperti di crepe e le pareti da un colore giallo scuro brillante fossero diventate a chiazze...»

Il sognatore sprofonda nell'abisso della propria solitudine, una solitudine che, diventata estranea, risulta ancor più straziante. Nasten'ka diventa un ricordo, la vita ritorna priva di realtà e animata unicamente dall'immaginazione: si presume che il sognatore, isolato e senza amici, riprenda le passeggiate per le vie di San Pietroburgo, immaginando di parlare con quegli edifici che conosce così bene. A volte gli sembra che qualcuno, già incontrato per le strade della città, gli rivolga un saluto. È l'unico margine di realtà a cui può tristemente aspirare.  

«Ora la "dea della fantasia" [...] ha già iniziato a tessere con mano capricciosa il proprio ordito d'oro ed è andata a svolgere davanti a lui i ricami di una fantastica e bizzarra vita. [...] Ha iniziato a tessere monellescamente tutti e tutto nella sua trama, come una mosca in una tela di ragno, e, con la nuova acquisizione, l'originale è già entrato nella sua piacevole tana [...]»

domenica 23 settembre 2012

"Memorie del sottosuolo" di Fëdor Dostoevskij

«Sono un uomo malato... Sono un uomo maligno.» 

Le "Memorie" meritano di essere lette anche solo per conoscerne il protagonista.
E' l'antieroe più "antieroico" che si possa pensare: non cattivo, se non nelle sue intenzioni. Peggio: è vigliacco, volubile, permaloso fino all'inverosimile. E' un calderone ribollente di rancore, di disgusto per sé stesso, di pusillanimità. Soffre di manie di persecuzione e di complessi di inferiorità, senza dubbio! Detesta ogni cosa ma non osa scagliarsi contro alcun nemico: sa solo rinchiudersi nel suo sottosuolo, nella sua solitudine misera e trapelante di cattivi sentimenti frustrati.
Odia il suo servitore, colpevole contro di lui dei gravi crimini di borbottare fra sé e sé e avere una pronuncia un po' blesa. Detesta i suoi coscritti e invidia il più vincente, bello e potente fra loro. Ucciderebbe in duello un capitano, colpevole di averlo scansato in un locale senza rivolgergli neppure una parola. Eppure, non fa altro che covare invano il proprio rancore, annuire servilmente, arrivare a un passo dalla sfida e ritrarsi, dimesso e inosservato.
Troppo vile per affrontare i propri superiori, i propri pari e perfino sé stesso, il protagonista non può fare altro che prendersela con chi sta ancora più in basso di lui: è così che, «in una notte di neve bagnata», conosce Liza, giovane prostituta. La terrorizza, la umilia, la spinge ad una redenzione che non potrà realizzarsi. Le dà il proprio indirizzo, se ne invaghisce, la aspetta. Lunatico e indeciso, è dilaniato da diversi possibili atteggiamenti. Ma come è inetto a fare del male, è assolutamente incapace anche di amare ed essere amico.
Un libro "strano", che procede in modo impietoso a scandagliare gli angoli più bui, intimi ed imbarazzanti dell'anima umana. Un'escursione nel sottosuolo più profondo e sporco, lontano dai picchi di virtù, bellezza e altruismo su cui intanto si concentravano altri autori e correnti letterarie. Con questa prova, Dostoevskij dimostra tutta la propria originalità, la propria conoscenza dell'animo umano, la propria profondità, il tutto con una forma stilistica davvero pregevole.


«Ti ficcheranno agonizzante nell'angolo più puzzolente della cantina, nel buio, nell'umidità; che cosa penserai allora, coricata lì da sola?»
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