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lunedì 18 settembre 2017

¡Viva la vida! - Frida Kahlo secondo Pino Cacucci

«Ho cominciato dipingendo me stessa perché non c'era nessun altro e nient'altro intorno a me. Ma era la mia faccia, in quello specchio? O era la Pelona che si incarnava in me, che mi entrava dentro fino a fondersi e sciogliersi in questa eterna stagione delle piogge che è la mia vita?»

Pino Cacucci racconta, in prima persona e in forma di monologo teatrale, la vita della pittrice messicana Frida Kahlo: una vita dalle tonalità intense e sensuali, animata da passioni e immagini perturbanti, resa cupa da angosce insuperabili, intrisa di mexicanidad come i suoi quadri.
Il monologo somiglia a uno dei tanti autoritratti: sullo sfondo della giungla nella stagione delle piogge e delle pareti colorate della Casa Azul di Coyoacán, raffigura Frida come una presenza ingombrante, contraddittoria, primordiale. Ce la racconta a partire dal giorno fatale dell'incidente del tram su cui Frida viaggiava, in quel settembre 1925: appena diciottenne, la pittrice incontra la Pelona, la cagna spelacchiata, la morte, e la mette in fuga con la sua disperata voglia di sopravvivere a dispetto delle numerose fratture e del dolore straziante. L'incidente rende Frida "una sciancata" per il resto della vita, ne mina gravemente la salute, la rende fisicamente incapace di portare a termine le quattro gravidanze iniziate e desiderate, e soprattutto la ossessiona per sempre: la morte, incontrata e scampata quel giorno, diventa per Frida una compagna costante, un'ossessione, un demone che la abita, una parte di lei e dell'abisso che si porta dentro per il resto della vita. Ogni giorno, fino alla morte giunta troppo presto, viene vissuto come un palmo di terra sottratto alla Pelona con una guerra di posizione che non lascia requie e tormenta, negli infiniti giorni trascorsi immobile nel letto di ospedale o rinchiusa nei busti di gesso e metallo, nelle interminabili notti piene di angosciosa solitudine.


È in questi soggiorni forzati, in queste lunghe prigionie in un corpo infermo con l'unica compagnia di uno specchio e del materiale da disegno, che la giovane Frida inizia a comporre i suoi dipinti. Colorati, violenti, intensi come il Messico, e con protagonisti gli occhi penetranti dell'autrice e le sue sopracciglia come "ali di gabbiano nero".
Cacucci racconta delle amicizie di Frida con Lev Trockij [stupefacentemente traslitterato "Tročkij"] e con Tina Modotti, e soprattutto del suo incontro fatale (almeno quanto l'incidente del tram) con il Rospo, Diego Rivera. L'artista degli immensi murales pieni di facce e di storia, il segretario generale del Partito Comunista Messicano, il marito
incredibilmente fedifrago, l'omaccione "alto il doppio e pesante il triplo" della "Colomba" sua moglie, ci viene raccontato da una Frida ammirata, inguaribilmente innamorata, e allo stesso tempo sofferente fin quasi a odiare l'uomo del quale, tuttavia, non può e non vuole fare a meno. Numerosi tradimenti vengono commessi da una parte e dall'altra: Frida ci racconta del suo amante giapponese, l'artista Isamu Noguchi, di alcune amanti donne, della liaison con "el Viejo León", e ci racconta anche dei tradimenti subiti. Uno su tutti, quello che spinge Frida ad abbandonare Diego (dal quale, pure, tornerà), coinvolge Cristina, la sorella amata, e colpisce Frida all'indomani dell'ennesimo straziante aborto spontaneo.
Tra aneddoti biografici e sfoghi, che ricalcano a volte gli scritti di Frida e sempre cercano di richiamarne il carattere e la tormentosa passione, il rapporto tra "l'Elefante e la Colomba" (come titolarono i giornali il giorno delle loro nozze) ci viene raccontato come una convivenza tra geni artistici, prima e oltre che come un matrimonio difficile.

«Mentre Diego rappresenta l'universalità del mondo visibile, Frida dipinge pensieri che si materializzano, stati d'animo che diventano forme e colori: lui è l'interprete di un popolo e della sua lunga e travagliata storia, lei è l'immediatezza dell'esperienza vissuta e immaginata, dove vivere e immaginare si fondono, si compenetrano, si tormentano a vicenda

"Autoritratto come Tehuana (o Diego nei miei pensieri)"

Nel finale Frida, vestita con gli abiti tribali delle donne di Oaxaca e carica di gioielli come una divinità azteca, si prepara all'incontro, sempre rimandato, temuto e desiderato, con la Pelona. Frida cammina incontro alla Pelona, ne brama l'abbraccio come si brama una liberazione dalle sofferenze fisiche ed emotive, dal peso non più sostenibile di una vita intensa e travagliata. Aspetta la partenza, come scrisse nel suo diario alla vigilia della morte, e spera di non tornare mai più.
Il libro si conclude con due brevi testi che raccontano qualcosa in più dell'ambiente abitato da Frida e Diego e della genesi del monologo ¡Viva la vida!, dell'ammirazione di Cacucci per figure di Tina Modotti e Nahui Olin e soprattutto del suo amore per Frida, che pone al di sopra delle altre e che chiama, ammaliato dai suoi occhi penetranti e dalla sua personalità, la "stella intramontabile".

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venerdì 2 settembre 2016

Tracce di poesia - Paul Éluard

Il Primo Manifesto del Surrealismo, del 1924, proclama l'allontanamento da qualsivoglia forma di realismo e razionalità: l'arte è il luogo in cui il vero e l'immaginario si incontrano, in una dimensione distorta che riesce ad illuminare la parte più recondita della nostra mente. L'inconscio è il filo rosso attraverso cui si snoda l'investigare della coscienza, la possibilità di andare finalmente oltre le "realtà sommarie" e di approfondire l'abisso interminabile dell'immaginazione, onnipotente trasmettitore di informazioni. Nel Manifesto André Breton scrive: 

«Il sogno si trova così ridotto a una parentesi, come la notte. E come questa, in generale, non porta consiglio. [...] E poiché non è affatto provato che "la realtà" che mi occupa sussista allo stato di sogno, che non precipiti nell'immemorabile, perché non concedere al sogno ciò che a volte rifiuto alla realtà, ossia quel valore di certezza in sé che, per il tempo che dura, non è esposta alla mia sconfessione? Perché non mi aspetterei dall'inizio del sogno più di quanto non aspetti da un grado di coscienza sempre più elevato? Il sogno non può essere anch'esso applicato alla soluzione dei problemi fondamentali della vita?»

Ecco che viene a crearsi un linguaggio assolutamente lontano da quello stereotipato della tradizione e, con esso, un mondo nuovo, sintesi perfetta tra il reale e l'irreale: il surreale, la verità che nasce non dalle inconciliabili opposizioni, ma dalle antitetiche compenetrazioni. 
La prima scena di Un chien andalou, film manifesto girato da Luis Bunuel (anche sceneggiatore assieme a Salvador Dalì) nel 1929, si presenta proprio come la rappresentazione visiva di un intento: il regista invita lo spettatore a sbarazzarsi delle proprie abitudini epistemologiche, lasciandosi abbandonare al flusso di quel impossibile-possibile che non è più licenziato come indegna rappresentazione, ma è valorizzato e innalzato a terza realtà altra e amalgamante. 


Un chien andalou, regia di Luis Bunuel (1929)


La scrittura è intesa come "automatismo psichico": parole e immagini si impongono spontaneamente con la veemenza dell'inconscio. La poesia parla per immagini non del tutto afferrabili perché associate, come in sogno, a parole talvolta slegate, quasi inopportune. È la forza dell'inconscio, la genesi di un pensiero decifrabile soltanto attraverso l'empirica sensazione che esso provoca.

Oggi la luce unica
Oggi l'infanzia intera
Mutando vita in luce
Non passato non domani
Oggi sogno di notte
Al gran sole ogni cosa si libera
Oggi io sono per sempre

È in questo contesto che si colloca il poeta Paul Éluard, pseudonimo di Eugène-Emile-Paul Grindel. 

Egli nasce nel 1895 e nel 1923, dopo una parentesi Dada, aderisce attivamente al Surrealismo dell'amico Breton, con cui nel '33 firma diversi appelli in Francia contro gli imminenti pericoli che la presa al potere di Hitler in Germania avrebbe presumibilmente comportato. L'amicizia con Breton, però, è destinata a durare poco: mentre Breton si avvicina a Trockij, Eluard si avvicina ai comunisti. Durante la seconda guerra mondiale, Éluard si mobilita come sottotenente e, dopo la firma dell'armistizio nel '40, rientra a Parigi, dove poi si iscrive al partito comunista, che lavora in maniera clandestina. In questi anni scrive con lo pseudonimo di Jean du Haut, fonda il Comitato nazionale degli scrittori e pubblica Domaine français, antologia che raccoglie scritti di artisti non collaborazionisti. Se nella prima parte della propria produzione, egli scrive principalmente del tema dell'amore e parla del legame amoroso come l'unica chance per esistere nel mondo come uomo libero dal groviglio della solitudine, nella seconda parte di essa, che coincide con l'aumentare dell'interesse politico, i temi diventano la libertà, la giustizia, la pace. Ma, in fondo, l'amore di cui parla Éluard è da intendere, più in generale, come il rapporto con l'altro (e non solo l'altro-da-amare): come scriveva il buon vecchio Sartre, l'altro è ciò che mi fa esistere puntando il suo sguardo verso di me e facendomi altro-guardato. L'altro è condicio sine qua non per la mia esistenza nel mondo: mi sento parte del mondo solo quando un altro mi guarda. È in quel momento che esisto e mi rendo conto della pregnanza della mia esistenza in quanto uomo. 
Éluard scrive:

Non verremo alla meta ad uno ad uno,
ma a due a due. Se ci conosceremo
a due a due, noi ci conosceremo
tutti, noi ci ameremo tutti e i figli
un giorno rideranno
della leggenda nera dove un uomo
lacrima in solitudine.

La poesia diventa lo specchio del poeta, che deve immortalare le incongruenti libere associazioni dell'inconscio come in una fotografia. L'arte, in generale, è ciò grazie a cui si può indagare il dionisiaco: la vita non è fatta di minuzie logiche, ma di caos pungente, un non-detto sotteso eppur così vivido e presente. Ne Il lavoro del poeta, Éluard scrive:

Che siete venuto a prendere
Nella stanza familiare?

Un libro che mai nessuno apre

Che siete venuto a dire
Alla donna indiscreta?

Quel che non può ripetersi

Che siete venuto a vedere 
In quel luogo in vista?

Quello che i ciechi vedono

Dopo la liberazione di Parigi (25 agosto 1944), riprende a pubblicare con il primo pseudonimo. Gli anni successivi sono ricchi di viaggi di impegno letterario e politico, vari i suoi interventi sul valore della democrazia. Nel 1951 si reca a Praga in occasione di una mostra dedicata a Majakovskij. La morte sopraggiunge nel 1952 a seguito di un violento attacco cardiaco. 



Su quaderni di scolaro
Su i miei banchi e gli alberi
Su la sabbia su la neve
Scrivo il tuo nome

Su ogni pagina che ho letto
Su ogni pagina che è bianca
Sasso sangue carta o cenere
Scrivo il tuo nome

Su le immagini dorate
Su le armi dei guerrieri
Su la corona dei re
Scrivo il tuo nome

Su la giungla ed il deserto
Su i nidi su le ginestre
Su la eco dell'infanzia
Scrivo il tuo nome
Su i miracoli notturni
Sul pan bianco dei miei giorni
Le stagioni fidanzate
Scrivo il tuo nome

Su tutti i miei lembi d'azzurro
Su lo stagno sole sfatto
E sul lago luna viva
Scrivo il tuo nome

Su le piane e l'orizzonte
Su le ali degli uccelli
E il mulino delle ombre
Scrivo il tuo nome

Su ogni alito di aurora
Su le onde su le barche
Su la montagna demente
Scrivo il tuo nome

Su la schiuma delle nuvole
Su i sudori d'uragano
Su la pioggia spessa e smorta
Scrivo il tuo nome

Su le forme scintillanti
Le campane dei colori
Su la verità fisica
Scrivo il tuo nome

Su i sentieri risvegliati
Su le strade dispiegate
Su le piazze che dilagano
Scrivo il tuo nome

Sopra il lume che s'accende
Sopra il lume che si spegne
Su le mie case raccolte
Scrivo il tuo nome

Sopra il frutto schiuso in due
Dello specchio e della stanza
Sul mio letto guscio vuoto
Scrivo il tuo nome

Sul mio cane ghiotto e tenero
Su le sue orecchie dritte
Su la sua zampa maldestra
Scrivo il tuo nome

Sul decollo della soglia
Su gli oggetti familiari
Su la santa onda del fuoco
Scrivo il tuo nome

Su ogni carne consentita
Su la fronte dei miei amici
Su ogni mano che si tende
Scrivo il tuo nome

Sopra i vetri di stupore
Su le labbra attente
Tanto più su del silenzio
Scrivo il tuo nome

Sopra i miei rifugi infranti
Sopra i miei fari crollati
Su le mura del mio tedio
Scrivo il tuo nome

Su l'assenza che non chiede
Su la nuda solitudine

Su i gradini della morte
Scrivo il tuo nome

Sul vigore ritornato
Sul pericolo svanito
Su l'immemore speranza
Scrivo il tuo nome
E in virtù d'una Parola
Ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per chiamarti

Libertà.

(traduzione di Franco Fortini)

Se volete leggere le poesie di Paul Éluard, vi consigliamo Poesie e Poesia ininterrotta, entrambi editi da Giulio Einaudi Editore. 



Curiosità: 
  • Ne La vita è altrove Milan Kundera scrive: 

    «Strane coincidenze! Jaromil, che nello stesso periodo spiava per intere giornate l'occhio piangente di Magda, conosceva molto bene il fascino della tristezza e vi si immergeva completamente. Sfogliava ancora il libro che gli aveva prestato il pittore, leggeva e rileggeva senza fine le poesie di Éluard e si lasciava rapire da alcuni versi: Aveva nella pace del suo corpo una pallina di neve del color dell'occhio; oppure: in lontananza il mare che il tuo occhio bagna; e: Buongiorno tristezza sei iscritta negli occhi che amo. Éluard divenne il poeta del placido corpo di Magda e dei suoi occhi bagnati dal mare delle lacrime; tutta la propria vita gli pareva racchiusa nella magia di un solo verso: Tristezza bel volto. Sì, era Magda: tristezza bel volto.»
  • Nel film francese Guernica (regia di Alain Resnais e Robert Hessens, 1950), l'attrice María Casares recita un poema di Paul Éluard.
  • Nel film Agente Lemmy Caution: missione Alphaville (regia di Jean-Luc Godard, 1965), il protagonista legge alcune poesie tratte da Capitale de la douleur di Paul Éluard.



da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/poesia-4575?f=a:715>


sabato 25 aprile 2015

"I figli di Alcide non sono mai morti": i fratelli Cervi e la Liberazione

«Ma io scrivo ancora parole d'amore,
e anche questa è una lettera d'amore
alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi,
non alle sette stelle dell'Orsa: ai sette emiliani
dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,
morirono tirando dadi d'amore nel silenzio.

Non sapevano soldati, filosofi, poeti,
di questo umanesimo di razza contadina.
L'amore, la morte, in una fossa di nebbia appena fonda.
Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,
non per memoria, ma per i giorni che strisciano
tardi di storia, rapidi di macchine di sangue.»

[Ai fratelli Cervi, alla loro Italia di Salvatore Quasimodo]

I fratelli Cervi non erano dirigenti del PCI in clandestinistà, né fini intellettuali, né antifascisti idealisti di ispirazione crociana. Erano contadini della Bassa padana, erano affittuari di un appezzamento a Olmo di Gattatico e lo lavoravano con i metodi più tradizionali e pesanti prima di potersi permettere un trattore. Il terzogenito Aldo risulterà il più istruito dei sette, avendo potuto apprendere non solo dal lavoro dei campi ma anche da quella che chiamerà "l'università della prigione" (dove sconta tre anni per errore ed eccesso di zelo, avendo ferito a un dito un tenente colonnello che non aveva risposto al chi va là). L'antifascismo che anima i sette maschi della figliata Cervi fino a costituirsi in banda e farsi eroi e martiti della Resistenza non passa solo per la lettura dei libri proibiti dal regime, che Aldo e i suoi fratelli leggono e riuniscono in biblioteca, esortando compagni e vicini a leggerne a loro volta. Passa anche per il loro essere brave persone, pronte a sacrificare la propria tranquillità domestica e bucolica per liberare gli italiani che "hanno dormito per diciotto anni", come afferma stizzito Aldo (Gian Maria Volonté) nella trasposizione cinematografica del libro in cui Alcide Cervi racconta la storia dei suoi sette figli, partigiani rastrellati e fucilati dai fascisti. Dal nonno Agostino Cervi che capeggiò la rivolta contro la tassa sul macinato del 1869, la "tradizione" di casa Cervi era quella di una come istintiva opposizione alla diseguaglianza sociale.
I fratelli Cervi non si fecero partigiani per il piacere di brandire fucili o darsi allo sciacallaggio, come i più ignoranti rinfacciano agli eroi della Resistenza. Di sette maschi, sei si fecero riformare (uno con la scusa di un'ernia, un altro riconoscendo il figlio di Aldo come suo e risultando così padre di famiglia numerosa): il rifiuto netto è per la guerra ingiusta e dannosa, che va ripudiata (come poi scriveranno i nostri Padri Costituenti). Non è certo la vigliaccheria a far tirare indietro i Cervi, che imbracceranno sì il fucile, ma per la causa che riterranno giusta e che costerà loro la vita. Le armi sono l'ultima scelta, quella che non si vorrebbe fare, ma che a volte è dolorosamente necessario fare. Sempre nel film diretto da Gianni Puccini, Aldo parla di quanto ha imparato in galera sui fascisti: «non bisogna mai dargli tregua, non fermarsi mai, fargli sempre sentire il peso della nostra presenza. Con il lavoro, con la parola, con le armi se necessario.»
Così si resiste: con il lavoro e le armi, e con la parola che passa per l'insegnamento, per l'impegno intellettuale oltre che morale, per la carta stampata (durante il regime, la carta proibita). Questa è la più grande lezione che i fratelli Cervi ci abbiano lasciato: che di fronte all'ingiustizia resistere si deve, anche se costa molto, anche se è spaventoso. E che per farlo bene occorre sapere, occorre scrollare gli altri dal sonno, bisogna accendere biblioteche come falò per illuminare, per diffondere la cultura, per fare strabuzzare gli occhi e scuotere dal torpore dell'indifferenza, dell'abulia da cui Antonio Gramsci ci ha messi in guardia:
 

«L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare

Che nessuno si consoli con la comoda scusa della propria indifferenza-innocenza, perché una simile categoria storica non esiste. Esiste il passivo lasciare fare, che è un consenso silenzioso. Ed esiste il consenso acritico, che non tace ma urla per coprire le voci dissenzienti, per coprire l'eco terrificante del suo vuoto, ottuso obbedire.

 Il film del 1968, "I sette fratelli Cervi", racconta la loro storia con sobrietà e naturalezza, senza nulla concedere ai fasti dell'epopea o ai toni eroici di una santificazione postuma. Della famiglia Cervi ci mostra la semplicità contadina e l'umanità, dalla vita sentimentale di Aldo alle preoccupazioni della mamma-chioccia Genoeffa (che poco dopo l'eccidio dei figli maschi muore di crepacuore). Aldo-Gian Maria Volontè si lascia accompagnare senza retorica nel percorso di maturazione della propria coscienza politica, di consolidamento dei propri ideali di giustizia sociale, che vanno dal cattolicesimo a cui rivendica l'appartenenza al Manifesto del partito comunista che legge in carcere.
Noi di Caratteri Vaganti vi consigliamo la visione di questo film per riscoprire e meglio ricordare un tassello della nostra storia. Papà Alcide Cervi, ricevuta una medaglia che lo raffigurava come una quercia con sette rami mozzati, disse che di questa quercia occorreva guardare il seme, che è l'ideale nella testa dell'uomo. A noi piace ricordare i fratelli Cervi, Duccio Galimberti, Felice Cascione e tutti gli altri che non vollero restare indifferenti, nella certezza che la memoria storica sappia dissodare il terreno su cui questo seme possa attecchire.

mercoledì 21 gennaio 2015

"Il trattato decisivo" di Averroè

Il Fasl al-maqâl è propriamente una fatwâ (un’emanazione dell’autorità giuridico-religiosa con cui si vuole risolvere una questione) e in quanto tale non presenta tanto una natura prettamente filosofica quanto giuridico-morale.
La breve opera è composta di due parti più un’appendice, la Damîma.
Nella prima parte, il filosofo cerca di giustificare la filosofia dal punto di vista religioso; nella seconda, cerca di giustificare la Legge religiosa dal punto di vista filosofico.
Il fine dell’opera è esplicitato immediatamente, subito dopo le rituali lodi a Dio di apertura:

«Ordunque: il fine di questo scritto è indagare, dal punto di vista dello studio della Legge religiosa, se la speculazione filosofica e le scienze logiche siano lecite secondo il shar’ o proibite o obbligatorie, sia perché commendevoli sia perché necessarie».

Evidentemente, questa fatwâ vuole rispondere ad un quesito: quale sia la posizione della filosofia nei confronti del fiqh (il diritto islamico).
Secondo il diritto islamico, le azioni umane possono essere collocate in una sorta di griglia di valutazione morale: esistono atti permessi o leciti, (indifferenti dal punto di vista morale), atti prescritti (in quanto semplicemente meritevoli oppure obbligatori) e atti illeciti (semplicemente riprovevoli oppure categoricamente vietati al buon musulmano). Averroè cerca, attraverso il Fasl al-maqâl, di collocare la pratica filosofica in una di queste cinque categorie di azioni.
Il primo passo è certamente fornire una definizione della filosofia: essa

«altro non è che speculazione sugli esseri esistenti, e riflessione su come, attraverso la considerazione che sono creati, si pervenga a dimostrare il Creatore».

Conseguenza diretta e immediata di questa definizione è il fatto che:

«La Legge religiosa autorizza, e anzi stimola, la riflessione su ciò che esiste, per cui è evidente che l’attività indicata col nome (di filosofia) è considerata necessaria dalla Legge religiosa, o, per lo meno, ne è autorizzata».

Il problema sembra già risolto e le pagine seguenti costituiscono una ricca argomentazione di questa semplice soluzione, che per altro poggia direttamente sull’autorità coranica; è infatti lo stesso Libro a prescrivere: «Considerate attentamente, voi che avete occhi per guardare!» (in arabo, il versetto sfrutta una sorta di gioco di parole dato dal verbo nazara, che indica tanto il ‘riflettere’, il ‘considerare’ quanto il ‘guardare’: un doppio riferimento, dunque, alla vista fisica, data dagli occhi, e quella intellettuale, fornita dal pensiero).
Averroè cita più di un versetto allo scopo di suffragare la sua presa di posizione e puntualizza che di simili ce ne sono innumerevoli.
Subito dopo, il filosofo nota come la filosofia si serva del sillogismo, cioè del ragionamento razionale, per dedurre l’ignoto da ciò che è già noto. Questo tipo di analisi, dice Averroè, «è la specie più perfetta di studio», tanto più che ad incoraggiare gli uomini in tale direzione è la stesse Legge religiosa. Su questa base, Averroè afferma la superiorità del ragionamento razionale su altre forme di ragionamento meno perfette, quali l’analogia e la dimostrazione retorica.
Qui il filosofo puntualizza che, prima di intraprendere un ragionamento razionale o sillogismo, è necessario averne chiare le parti e il funzionamento: chi voglia filosofare deve preliminarmente chiarirsi bene le idee su «quelle cose che, relativamente al pensiero, svolgono la stessa funzione degli attrezzi relativamente all’attività pratica».
Nonostante la bontà di queste constatazioni sia lampante, qualcuno potrebbe obiettare che lo studio condotto secondo il ragionamento razionale sia una bid’a, cioè un’innovazione biasimevole, pregiudizio che trarrebbe alimento dal fatto che i più grandi filosofi conosciuti sono pagani, non musulmani, Aristotele compreso, ma soprattutto dalla stramba argomentazione per cui gli antichi musulmani non praticavano la filosofia. Averroè dimostra subito l’infondatezza di tale tesi, facendo notare che neppure il ragionamento giuridico era praticato nell’antichità, ma non per questo viene reputato un’innovazione biasimevole! Quanti non vorranno farsi persuadere da questo semplice fatto (e qui Averroè fa un caustico riferimento ad una «piccola sètta di grossolani antropomorfisti», cioè la hashwiyya, composta di giuristi e teologi che si attenevano rigorosamente al significato letterale dei versetti, anche quelli che attribuiscono a Dio mani, bocca, occhi e altre caratteristiche umane) saranno persuasi almeno dalle citazioni dei Testi Sacri.
Qui come altrove, Averroè sembra utilizzare il Corano per garantire il proprio discorso e per farsene scudo nei confronti di coloro che, digiuni di filosofia e diffidenti nei confronti di chi la pratica, si rifiutano di discutere in modo ragionevole: insomma, per risolvere con l’autorità dei Testi Sacri l’annosa incapacità di dialogare serenamente con i teologi tradizionali. Proprio loro, i mutakallimûn, sono i destinatari dell’opera e gli immaginari interlocutori di Averroè. Citare (numerosi) versetti coranici sembra probabilmente ad Averroè un modo efficace per farsi intendere da loro e per dimostrare di non stare sostenendo nulla di empio o contrario alle Scritture.
Per avvalorare ulteriormente la tesi per cui la filosofia non potrebbe essere definita una bid’a solo perché messa a punto da filosofi pagani, Averroè ricorre ad una semplice metafora:

«Invero, se nel praticare un sacrificio si usa uno strumento idoneo, non ha alcuna importanza per la validità del sacrificio se lo strumento appartiene a qualcuno che professa la nostra stessa religione oppure no. L’essenziale è che vengano rispettate le condizioni della cerimonia.»

Dunque, se la filosofia è uno strumento idoneo ad adempiere le prescrizioni del Corano e fare la volontà di Dio, la si dovrebbe scartare solo perché i suoi ‘inventori’ professavano una religione diversa? Evidentemente no, e più di questo: Averroè invita anche a leggere avidamente i testi degli antichi filosofi, per trovarvi del vero (da accogliere) e dell’erroneo (da respingere). Del buono vi si troverà certamente e il buon musulmano dovrà servirsene poiché il sapere è progressivo e cumulativo, e basarci su quanto messo a punto dai nostri predecessori è indispensabile.
Su questo punto, Averroè è chiaro e non teme di ripetersi: un uomo solo non può progredire nella conoscenza di una disciplina sviluppata se non sfrutta ciò che è stato già scoperto, scritto o studiato da chi lo ha preceduto nello studio della stessa materia: ciò vale per il diritto e, a maggior ragione, per la «disciplina suprema», la filosofia.
Il buon musulmano dovrebbe studiare i libri degli antichi filosofi, seppure pagani:

«E ciò che costoro hanno detto di conforme alla verità, lo accetteremo con gioia e gliene saremo grati; mentre ciò che hanno detto di difforme dalla verità, lo evidenzieremo e ne diffideremo, pur perdonandoli per l’errore commesso».

Chi proibisse ad altri che siano dotati di intelligenza di applicarsi nello studio della filosofia commette un vero e proprio crimine nei confronti della Legge religiosa, poiché così facendo «sbarra la porta attraverso la quale la Legge chiama gli uomini alla conoscenza di Dio».
È vero, infatti, che in diversi punti gli antichi filosofi hanno errato (poiché non conoscevano la verità rivelata dei Testi Sacri), ma è uno sbaglio proibire qualcosa di essenzialmente buono soltanto perché qualcosa di male è presente in esso per accidente.
A sostegno di tale tesi, Averroè porta due esempi: una semplice metafora e un hadîth, ossia un aneddoto tratto dalla vita del Profeta (e pertanto sorretto da autorità sacra). La filosofia, buona di per sé e solo accidentalmente dannosa, è come il miele o l’acqua: non si può negare di bere ad un assetato solo perché, in qualche circostanza, è capitato che qualcuno morisse annegato o strozzato. «Infatti, morire per un’acqua malamente ingurgitata è accidentale, mentre morire di sete è secondo sostanza e necessità».
Averroè attribuisce gli errori accidentali presenti in diverse discipline all’incapacità di un singolo praticante, e non ad un male essenziale nelle discipline stesse. Infatti, non tutti gli uomini hanno le medesime capacità conoscitive. A questo punto, Averroè introduce uno degli elementi portanti di tutta l’opera, e cioè la distinzione degli uomini in tre classi: in base alle proprie caratteristiche individuali, ogni uomo può (o meglio deve) approcciarsi al Testo Sacro secondo una via che gli sia consona. La vie sono tre: quella apodittica (cioè razionale e propria dei filosofi), quella dialettica (utilizzata dai mutakallimûn, che, come suggerisce il loro nome ricavato dalla radice k-l-m, che in arabo origina la classe di parole relative al discorso, alla parola, alla conversazione, si dilettano nel chiacchierare, anche senza cognizione di causa, sugli argomenti teologici) e infine quella retorica (propria delle masse incolte, che hanno bisogno di affidarsi all’affabulazione mitica perché incapaci di cogliere il significato autentico delle Scritture).
Ancora una volta, Averroè affida le proprie affermazioni all’autorità del Libro: «Chiama gli uomini alla via del Signore, con saggi ammonimenti e buoni, e discuti con loro nel modo migliore», cioè nel modo più appropriato ad ognuna delle tre categorie di uomini. I filosofi comprenderanno gli ammonimenti saggi, le persone più semplici si ispireranno a quelli buoni (cioè finalizzati non tanto ad ampliare le loro conoscenze quanto a regolarne la condotta) e i teologi si trastulleranno con le torbide discussioni che trovano tanto proficue.
Averroè sottolinea la bontà di Dio, il quale ha spianato tre vie diverse perché ciascuno, a modo proprio, possa trovare il modo che gli è più consono per avvicinarsi alla verità: «La religione racchiude tutti i possibili metodi di avvicinamento a Dio».
È giunto il momento, per Averroè, di trattare una questione spinosa e facilmente fraintendibile da parte dei rigidi teologi ashariti: quella dell’interpretazione allegorica delle Scritture. Essa giunge in soccorso dell’interprete del Corano, laddove incappi in un passo oscuro, ambiguo o, peggio ancora, contraddittorio. «Interpretazione allegorica significa trasporto dell’argomentazione da un piano reale a un piano metaforico». Può capitare che la dimostrazione razionale conduca a un significato apparentemente contrastante con quello letterale di determinati versetti. Questo, però, non deve mandare in confusione il buon musulmano, né deve renderlo scettico circa l’affidabilità del Libro: se si studiano i Testi con attenzione, si vedrà infatti che tutte le apparenti contraddizioni possono essere sciolte grazie ad una sapiente interpretazione allegorica.
Non sempre è obbligatorio forzare i testi con un’interpretazione allegorica, né sempre è possibile interpretarli alla lettera. Questo rende la faccenda troppo delicata perché ne siano rese partecipi le masse incolte, che rischierebbero di stravolgere il significato dei testi oppure di perdere la fede, perché delusa dall’apparente contraddittorietà di alcuni versetti.
Ancora una volta, a sostegno di quanto dice, Averroè chiama il Corano stesso:

«Egli è Colui che ti ha rivelato il Libro: ed esso contiene sia versetti solidi, che sono la Madre del Libro, sia versetti allegorici. Ma quelli che hanno il cuore traviato seguono ciò che v’è d’allegorico, bramosi di portare scisma e di interpretare fantasiosamente, mentre la vera interpretazione di quei passi non la conosce che Dio.»

Non solo, dunque, nell’opinione di Averroè, ma secondo lo stesso Corano esistono due livelli di significato: lo zâhir (‘chiaro’, ‘splendente’: è il significato manifesto delle parole) e il bâtin (‘intimo’: è il senso nascosto, esoterico). Chi non sappia attenersi a quello dei due che è più consono al suo modo conoscitivo, rischia di creare scismi e miscredenze.
Nel discorso di Averroè fa a questo punto il suo ingresso un concetto pregnante nella cultura araba: quello dell’ijmâ’ (termine che indicava dapprima l’opinione dei maestri della Legge e che successivamente ha finito per coincidere semplicemente con l’assenso comunitario, con l’opinione pubblica in materia religiosa). Ebbene, Averroè precisa che essa ha sempre ragione in questioni di natura etico-politica, ma non sempre quando si tratta di problemi speculativi (come invece ritengono al-Ghazâlî e altri teologi). Averroè fa notare che
Statua dedicata ad Averroè nella sua
città natale, Cordova.
l’ijmâ’ non ha sempre risposte soddisfacenti, perché alcune questioni non sono state affrontate dagli antichi musulmani oppure non sono sopravvissute alla trasmissione orale (sebbene vi siano delle testimonianze di alcuni antichi sapienti che riconoscevano un senso manifesto e un altro nascosto nelle Scritture, il che fonderebbe l’antichità e la giustezza di una concezione elitaria del sapere autentico, che per altro Averroè fa sua).
Sebbene al-Ghazâlî e gli altri teologi tradizionali accusino i falâsifa di miscredenza, Averroè è certo che l’interpretazione allegorica sia conforme alle prescrizioni religiose, e così le deduzioni (in apparente contraddizione con i Testi Sacri) tratte da al-Fârâbî, Ibn Sînâ e altri.

«Lo stesso Dio, dunque, definisce (i sapienti) uomini di fede, intesa la fede proprio come ciò cui si perviene per mezzo della dimostrazione e che non può non accompagnarsi all’interpretazione allegorica.»

Qui, Averroè contesta per la prima volta quello che era stato uno dei cavalli di battaglia di al-Ghazâlî nella sua polemica contro i filosofi, e cioè la critica alla dottrina secondo cui Dio non conoscerebbe i particolari. Averroè spiega che al-Ghazâlî ha frainteso l’affermazione dei filosofi, interpretando con una sola parola e un solo significato la conoscenza umana dei particolari e quella divina. In realtà, si tratta di due scienze completamente diverse, che hanno in comune solo il nome: la scienza umana, infatti, è effetto dell’oggetto conosciuto, mentre la scienza di Dio ne è causa. Per una spiegazione più approfondita e soddisfacente, Averroè rinvia alla Damîma.
Altra spinosa questione toccata fugacemente da Averroè a questo punto è quella della possibile eternità del mondo: esso è eterno o creato nel tempo? L’apparente contraddizione tra l’opinione degli antichi filosofi (per cui sarebbe eterno) e quella dei teologi ashariti (per cui sarebbe creato da Dio nel tempo, come raccontato dalle Scritture) è riconducibile ad un problema semantico: infatti, le due opzioni non sarebbero veramente alternative l’una all’altra. Le due posizioni sono conciliabili se si intende la creazione, la produzione del mondo come eterna: Dio è eternamente produttore e motore del mondo, che così, pur essendo un prodotto di Dio, è a Lui coevo. Averroè non sembra dunque condividere l’ipotesi di un mondo creato ex nihilo, quando piuttosto quella di una creazione dell’attuale forma del mondo (hudut). A testimonianza dell’esistenza di qualcosa prima della Creazione narrata dalle Scritture, ci sarebbero le Scritture stesse, in diversi passi: per esempio, laddove si dice che «è Lui che ha creato i cieli e la terra in sei giorni, mentre il suo Trono si librava sull’acque» o che Dio «poi s’accinse alla costruzione del Cielo, che era tutto fumo». Qualcosa, in una qualche forma, esisteva prima della Creazione e continuerà ad esistere dopo la fine del mondo, «Il giorno in cui la terra sarà cambiata in un’altra terra, e in altri cieli i cieli».
Con questi numerosi esempi, Averroè vuole dimostrare come, letteralmente, il Corano sembra suggerire sia una Creazione del mondo dal nulla sia l’esistenza di qualcosa di anteriore: ancora una volta la contraddizione è apparente, perché una delle due affermazioni va interpretata allegoricamente. 
In ogni caso, destreggiarsi tra sensi manifesti, sensi nascosti, verità ed errori non è semplice, neppure per gli uomini più dotti e dotati. A questo proposito, Averroè tratteggia due classi di errori, gli uni scusabili e gli altri no, in quanto colpe terribili. In realtà, il tipo di errore è uno solo: a dargli diverso valore, è chi lo commette.

«Per questo disse il Profeta – su di lui la pace! - : “Se un magistrato, esercitando la propria capacità di giudizio, applica la verità, riceverà doppia ricompensa; se sbaglia, ricompensa semplice” (…); e se c’è un errore che la Legge condona, è proprio l’errore di coloro che si applicano all’analisi dei difficili problemi che la Legge stessa impone di affrontare.»

Averroè afferma con assoluta decisione, ancora una volta, la natura elitaria del sapere autentico: interrogarsi su questioni difficili, servirsi della filosofia, interpretare i Testi Sacri in modo allegorico, tutto ciò è prescritto ad una certa classe di uomini (i filosofi, quelli dotati per natura di intelligenza e colti quanto serve): pertanto, è obbligatorio che essi si impegnino in tali attività ed è doppiamente meritorio che lo facciano con successo. Qualora dovessero sbagliare, sarebbero perdonabili per via dell’alta difficoltà del compito assegnato loro.
Coloro che, qualora sbagliassero nello svolgere queste attività, non sarebbero perdonabili, sono le altre due classi di uomini: i teologi e gli uomini più semplici. Gli uni e gli altri semplicemente non hanno i mezzi per riuscire nell’impresa: pertanto, avere la pretesa di filosofare o interpretare i testi, condurrebbe inevitabilmente ad errori e sarebbe necessariamente fallimentare. Per questa ragione, essi non devono neppure tentare. Non compete loro; proprio per questa ragione Dio ha creato tre vie per accostarsi alla verità. Per evitare che, approcciandosi in maniera sbagliata, secondo vie non adatte, gli uomini possano venire traviati, perdere la fede o intorbidire le acque.
Chi non è in grado di cogliere i significati autentici delle cose, deve attenersi a quelli manifesti (che anche laddove non siano letteralmente veri, quantomeno saranno buoni, cioè condurranno alla rettitudine morale). Lo testimonia un hadîth:

«Il Profeta – su di lui la pace! -, quando una negra gli disse che Dio abita in cielo, ordinò di non punirla, considerandola anzi una credente. La negra, infatti, non faceva parte della classe dimostrativa; (…) quel tipo di gente, che non presta assenso se non grazie al soccorso della facoltà immaginativa – poiché tutto trasfigura con l’immaginazione -, ha difficoltà a riconoscere l’esistenza di esseri che non siano in qualche modo collegati con qualcosa di immaginabile».

Appartengono alla stessa categoria gli antropomorfisti e coloro i quali assegnano a Dio un luogo (i Cieli) o degli attributi umani. Queste categorie di persone sono tenute ad attenersi ai sensi letterali dei Testi, poiché, incapaci come sono di comprendere l’interpretazione allegorica, ne sarebbero spiazzati e condotti alla miscredenza. E, ancora peggio:

«Chiunque dei sapienti si permettesse di propalare l’interpretazione allegorica presso la gente comune, sarebbe un propagandatore di miscredenza; e chi propaganda la miscredenza, è egli stesso un miscredente.»

Averroè accusa apertamente al-Ghazâlî di compiere tale gravissimo errore, traviando le masse, confondendole e spingendole alla miscredenza. I capi musulmani dovrebbero proibire la lettura dei libri suoi e dei suoi pari alla gente comune. Essi, mettendo in dubbio le semplici verità di fede, hanno lo stesso risultato (di spiazzare e insinuare il dubbio) che hanno i libri dei filosofi, ma con una grande differenza: i libri dei filosofi vengono quasi sempre presi in mano solo da gente colta, capace di comprendere quanto legge e non perdere la fede; i libri dei teologi, invece, possono essere letti da chiunque, ed essere così male interpretati dalle persone poco accorte.
Ormai la frattura tra Averroè e i mutallimûn, al-Ghazâlî in particolare, è insanabile ed esplicita: alla Tahâfut il filosofo affiderà il resto delle sue invettive e delle sue gravi accuse. 

La seconda parte del Fasl al-maqâl, speculare rispetto alla prima, si apre definendo lo scopo della Legge religiosa: «insegnare la vera conoscenza e il retto comportamento».
Averroè torna a ribadire l’esistenza dei tre tipi di giudizi (dimostrativi, dialettici e retorici) e la non idoneità di ogni uomo ad ogni tipo di giudizio, indifferentemente. Di nuovo ed esplicitamente viene tematizzata la suddivisione degli uomini in tre classi e l’ammonimento contro chi agisce come al-Ghazâlî, spingendo le masse a confrontarsi con problemi che non sono alla loro portata.
Come suo solito, Averroè cerca di chiarire il più possibile la questione  trasformandola in metafora: un uomo che dica ad un paziente che prescrizioni fornitegli dal medico sono sbagliate, lo getterebbe nella più grande confusione, poiché il paziente non dispone di conoscenze sufficienti per distinguere chi menta, se l’uomo o il medico; finirebbe con il dubitare dell’operato del medico, senza averne la competenza. Si comporta così il teologo che intende mostrare al volgo il senso allegorico delle Scritture senza padroneggiarlo egli stesso: finisce con l’instillare negli altri uomini il dubbio circa l’affidabilità dei Testi, senza sapere poi egli stesso sciogliere quel dubbio. Tornando alla metafora: l’uomo, che distoglie il paziente dai consigli del medico, non è in grado di curare le malattie in prima persona; né può insegnare al paziente come curarsi da solo. Distoglierebbe l’ammalato dall’unica via che può salvarlo, senza offrirgli valide alternative, portandolo alla morte.
L’analogia è calzante, poiché la salute del corpo corrisponde alla salute dell’anima: il medico e il Testo Sacro sono gli unici depositari della verità, che va presa così com’è da chi non è in grado di concettualizzarle e discuterla.
Si tratta del principio del bi-lâ kaif (senza un come, senza domandare il come): la fede può (e in taluni casi deve) fare a meno della ragione.
L’uomo che, al contrario, è in grado di servirsi opportunamente della ragione e di applicarla all’interpretazione allegorica dei Testi Sacri, deve sfruttare tale propria capacità; quella dell’interpretazione corretta è una vera e propria missione affidata da Dio agli uomini capaci di portarla a termine:

«Noi abbiam proposto il Pegno ai cieli e alla terra e ai monti, ed essi rifiutaron di portarlo e ne ebber paura. Ma se ne caricò l’uomo».

Eppure, il Corano sembra suggerire anche un limite ragionevole oltre il quale non è più opportuno allegorizzare. L’allegorizzazione incontrollata è quella che ha condotto alla formazione delle sètte islamiche, in perenne lotta fra loro. I primi musulmani erano più cauti nella loro missione di lettura e interpretazione, e quando coglievano qualche contraddizione apparente o qualche versetto oscuro, ne tenevano per sé il significato: per questa ragione le sètte sono sorte solo più avanti nel tempo, sviluppandosi di pari passo con la presunzione e l’imprudenza dei teologi.
In questo passo, Averroè inserisce un’accorata lamentazione per l’esistenza delle sètte che sventrano l’Islam, lacerandolo in continui dissapori e lotte fratricide. Il filosofo dichiara di essere amareggiato da profonda afflizione al pensiero di questi gravi fatti, dovuti all’incapacità di Ashariti, Mutaziliti e altri pervertitori della dottrina dell’Islam, che si servono malamente dei metodi della filosofia.

«Le ferite inferte da un amico fanno più male di quelle inferte da un nemico: e siccome la filosofia è amica della religione, e anzi sua sorella di latte, le ferite inferte (alla religione) da chi vorrebbe essere affine ai filosofi sono più dolorose, senza mettere in conto le inimicizie, l’odio e le liti che ne vengono attizzate. Al contrario, filosofia e religione si accompagnano per natura, e per essenza e inclinazioni si amano scambievolmente».

Alla vita di Averroè è ispirato il film "Il
destino" del regista egiziano Yūsuf Shāhīn
(Youssef Chahine): al centro della sua visione,
lo scontro ancora vivo tra estremismo
religioso e razionalità.
Questo è uno dei passi più belli e famosi dell’intero Trattato. Con esso, e con l’elogio degli Almohadi citato nel capitolo precedente, l’opera si chiude.
Segue una breve appendice, la Damîma. In essa approfondisce il problema già incontrato della differenza che intercorre tra la conoscenza umana delle cose e quella divina.
Dice Averroè che se gli oggetti sono presenti nella mente di Dio prima di essere creati, delle due l’una: o vi sono presenti uguali a come saranno dopo essere creati, o in una maniera diversa. Il primo caso è assurdo, perché fra l’essere degli oggetti e il loro non-essere (cioè fra il loro essere in atto e il loro essere prima di essere in atto) non ci sarebbe alcuna differenza, il che è una contraddizione in termini; il secondo caso è altrettanto assurdo, poiché la conoscenza di Dio sarebbe soggetta a cambiamento (al pari della conoscenza degli uomini).
Sulla base di queste premesse, qualsiasi conclusione risulterebbe inaccettabile o quantomeno blasfema.
La soluzione, ancora una volta, è più semplice e antecedente allo stesso dispiegarsi del problema: il problema, infatti, non si pone veramente. La conoscenza di Dio e la conoscenza degli uomini hanno in comune il nome e niente altro: l’indebita analogia fra le due genera confusione ed equivoci. L’esempio di Zayd che guarda una colonna e che rimane identico a sé stesso sia quando si trova alla sua destra che quando si trova alla sua sinistra rappresenta un'efficace metafora della conoscenza di Dio, che resta inalterata nonostante le alterazioni subite dagli oggetti conosciuti.

A chi volesse approfondire (in lingua italiana e francese) suggerisco:
  • "Averroè", M. Campanini, Il Mulino 2007, un'ottima introduzione alla vita e alle opere di Ibn Rushd.
  • "Storia del pensiero nel mondo islamico", M. Cruz Hernàndez, Paideia 1999: tre volumi incantevoli e ricchissimi (in particolare, per quanto riguarda nello specifico Averroè, indico il secondo volume).
  • "Pour une histoire de la 'double verité'", L. Bianchi, Vrin, Paris 2008, un libro leggero ma illuminante sulla questione della "doppia verità", ossia la tesi falsamente attribuita ad Averroè che esisterebbero due verità diverse (ossia non coincidenti), quella razionale e quella religiosa, il che implica la "blasfemia" per cui la religione sarebbe contraria alla ragione: tesi che costerà alle opere del Commentatore la messa all'indice.

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