«La colonizzazione è per se stessa un atto di violenza del più forte nei confronti del più debole. Tale violenza si fa ancora più odiosa quando viene esercitata sulle donne e sui bambini.
È amara ironia scoprire che quella civiltà — simbolizzata nelle sue varie forme, cioè libertà, giustizia, ecc. dalla gentile immagine di una donna e guidata da una categoria di uomini che hanno fama di essere campioni della galanteria — infligga al suo emblema vivente il trattamento più ignobile e lo offenda vergognosamente colpendo la donna nelle sue maniere, nella sua modestia, talvolta perfino togliendole la vita.
Il sadismo dei colonizzatori è incredibilmente diffuso e crudele, ma qui ci limiteremo a ricordare pochi casi, di cui sono stati testimoni e che ci hanno narrato persone insospettabili di parzialità. Questi fatti permetteranno alle nostre sorelle occidentali di rendersi conto sia della “natura” della missione civilizzatrice del capitalismo, sia delle sofferenze delle loro sorelle nelle colonie.
“All’arrivo dei soldati”, racconta un colonnello, “la popolazione si diede alla fuga; rimasero soltanto due vecchi e due donne: una ragazza ed una madre che allattava il suo piccolo e teneva per mano una bambina di otto anni. I soldati chiesero denaro, liquori ed oppio. Siccome non riuscivano a farsi capire divennero furiosi e abbatterono uno dei vecchi con il calcio dei fucili. Più tardi, due di loro, che erano già ubriachi all’arrivo, si divertirono per molte ore ad arrostire l’altro vecchio su un fuoco di legna. Nel frattempo, gli altri raparono le due donne e la bimba di otto anni. Quindi, annoiati, uccisero quest’ultima. La madre riuscì poi a scappare con il suo piccolo e da una distanza di cento iarde, nascosta dietro a un cespuglio, vide torturare la sua compagna.
“Ella non sapeva perché venisse commesso quell’assassinio, ma vide la giovane giacere supina, legata ed imbavagliata, mentre uno degli uomini, più volte, le immergeva lentamente la baionetta nell’addome e, lentamente, la ritraeva. Quindi tagliò un dito alla ragazza morta per impossessarsi di un anello, e la testa per rubarle una collana.
“I tre cadaveri giacquero sul terreno piatto di un’antica salina: la bimba di otto anni nuda, la giovane donna con gli intestini fuori, il braccio sinistro rigido con il pugno sollevato verso il cielo indifferente ed il vecchio, orribile, nudo come gli altri, sfigurato per le bruciature, con il grasso che era colato, si era sciolto e poi solidificato contro la pelle del ventre, che era tesa, abbrustolita e dorata come quella di un maiale arrostito”.»
Al principio del Novecento, il movimento nazionale vietnamita viene brutalmente represso dalle autorità coloniali francesi ma non viene sradicato in profondità. Nel Tonchino [Vietnam settentrionale] imbocca la via delle società segrete e dell’agitazione sovversiva clandestina, mentre in Cocincina [Vietnam meridionale] iniziano a sorgere organizzazioni che conciliano gli obiettivi politici democratici con gli interessi commerciali della borghesia saigonese. Una particolare “zona ribollente”, “culla permanente della rivoluzione” è il Nghe-Tinh, zona agricola ad alta densità demografica formata dalle province di Nghe An e Ha Tinh, che sforna letterati e rivoluzionari, conoscitori della lingua cinese e patrioti.
Tra questi c’è Nguyen Sinh Sac (noto anche come Nguyen Sinh Huy), un mandarino di cui non si sa molto, se non che viene destituito dalla sua carica per le sue simpatie nazionaliste e perché, come tanti uomini istruiti originari della stessa zona, rifiuta di imparare il francese. Nel 1885 prende parte ad una delle tante sollevazioni del Nghe-Tinh, la cosiddetta Can Vuong o “rivolta dei letterati”, sorta su appello dei mandarini nazionalisti. Cinque anni più tardi nasce suo figlio, il ribelle annamita dai molti nomi: chiamato alla nascita Nguyễn Sinh Cung, più tardi Nguyen Tat Thanh, e poi come Nguyen Ai Quoc (“il patriota”), nome che manterrà, tra alterne vicende, sino all’ottobre 1944, quando scrive la “Lettera alla Nazione” firmata per la prima volta con il nome di Ho Chi Minh.
Tra questi c’è Nguyen Sinh Sac (noto anche come Nguyen Sinh Huy), un mandarino di cui non si sa molto, se non che viene destituito dalla sua carica per le sue simpatie nazionaliste e perché, come tanti uomini istruiti originari della stessa zona, rifiuta di imparare il francese. Nel 1885 prende parte ad una delle tante sollevazioni del Nghe-Tinh, la cosiddetta Can Vuong o “rivolta dei letterati”, sorta su appello dei mandarini nazionalisti. Cinque anni più tardi nasce suo figlio, il ribelle annamita dai molti nomi: chiamato alla nascita Nguyễn Sinh Cung, più tardi Nguyen Tat Thanh, e poi come Nguyen Ai Quoc (“il patriota”), nome che manterrà, tra alterne vicende, sino all’ottobre 1944, quando scrive la “Lettera alla Nazione” firmata per la prima volta con il nome di Ho Chi Minh.
Nel giugno 1911 comincia la sua vita di emigrante. Arriva a Parigi dove, nel 1919, aderisce al partito socialista e, col nome di Nguyen Ai Quoc, inizia, insieme con compagni di diverse colonie, un’intensa attività di denuncia del colonialismo e dell’ipocrisia della “civiltà occidentale”, che maschera sotto magniloquenti frasi la reale barbarie dell’oppressione coloniale. Gli anni parigini sono molto importanti per la formazione politica di Ho Chi Minh.
Sui giornali di sinistra francesi – “l’Humanité”, divenuta organo del PCF; “La Vie Ouvriére”, rivista socialista, organo della “Confédération Générale du Travail”; il giornale anarchico “le Libertaire” – in articoli spesso sarcastici e partendo da casi specifici denuncia le condizioni inumane in cui versa la popolazione coloniale del Vietnam e la barbarie inumana dei colonizzatori.
Un discorso a parte va fatto per “le Paria”, che ha come sottotitolo nella testata “organo dell’Unione intercoloniale”. Questa viene fondata nel luglio 1921 a Parigi da rappresentanti di diverse colonie dell’impero francese, tra cui il Gruppo dei patrioti vietnamiti, per una lotta comune per la liberazione nazionale. Nguyen Ai Quoc è segretario aggiunto. Il PCF ospita la piccola redazione de “le Paria”. L’internazionalismo diviene qui una componente essenziale della lotta per l’indipendenza nazionale.
Nell’agosto 1922 viene pubblicato su “le Paria” il “Manifesto dell’Unione intercoloniale”, che si rivolge non solo ai popoli coloniali ingannati dai colonizzatori che li hanno usati come carne da cannone nella carneficina della Grande Guerra e li mantengono ora in un regime di servaggio e supersfruttamento, ma anche ai lavoratori della metropoli:
«Fratelli oppressi della metropoli! Siete stati ingannati dalla borghesia, che vi ha usato come strumenti per conquistare i nostri paesi. Usando la stessa politica machiavellica, la vostra borghesia oggi pianifica di usare noi per reprimere i vostri sforzi di liberazione. Contro il capitalismo e l’imperialismo, i nostri interessi coincidono. Compagni, tenete in mente l’appello di Karl Marx: “Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!”»
Nel cinquantenario della morte di Ho Chi Minh, MarxVentuno Edizioni raccoglie scritti e discorsi (1919-1969) del rivoluzionario vietnamita nell'edizione più completa disponibile in italiano.
I testi riuniti in questa raccolta ripercorrono la vita di Ho Chi Minh, dagli anni della militanza giovanile nel Partito Socialista e poi Comunista Francese alla fine degli anni Sessanta.
Attraverso gli articoli e gli appelli accorati rivolti al popolo vietnamita e ai dirigenti e quadri delle diverse organizzazioni che ha diretto durante cinquant’anni di attività politica e rivoluzionaria, scopriamo la complessa personalità di una delle figure più importanti della storia dell’anticolonialismo: uomo politico radicale ma prudente, commentatore acuto e capace di pungente umorismo, diplomatico e dirigente di partito totalmente dedito alla causa del Vietnam ma sempre, lucidamente consapevole della dimensione internazionale della lotta dei popoli per la propria autodeterminazione.
Gli scritti dello «zio Ho» ci accompagnano lungo cinquant’anni di storia del Vietnam, dalle lotte per rovesciare il giogo coloniale francese all’eroica resistenza popolare contro l’imperialismo statunitense, verso quello che sarà, finalmente, il Vietnam libero e riunificato.