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lunedì 2 giugno 2014

"Lotta di classe" di Ascanio Celestini

Nicola, Salvatore, Marinella, la signorina Patrizia... I protagonisti di questo libro hanno nomi comuni perché sono persone assolutamente comuni: sono proletari, figli di una classe oppressa ed equivalente alla quasi totalità della popolazione di ogni Paese capitalista. Le loro vite potrebbero essere le nostre (a meno che voi che leggiate queste righe non abbiate un nonno che porta l'orologio sul polsino). Forse alcuni di noi, singolarmente, si trovano in condizioni migliori dei personaggi di "Lotta di classe", ma la loro condizione è la nostra: noi siamo i salariati, la classe operaia, quella che per sopravvivere e consumare deve svendere la sua forza-lavoro, alienare la propria libertà, scendere talvolta a compromessi morali.
Ascanio Celestini, nel suo romanzo corale, offre uno spaccato desolante della nostra classe. Il perno della narrazione è un triste condominio, e se l'ambientazione è chiaramente romana, quell'edificio avrebbe tranquillamente potuto essere parte delle Vele di Scampia o dei
Trecento Alloggi crotonesi, di Quarto Oggiaro, di Libertà o della Città Vecchia di cui canta De André, quei «quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi, ha già troppi impegni per scaldar la gente d'altri paraggi».
La vita di borgata è triste e squallida. Se Ascanio Celestini arriva a raccontare di tentati suicidi e tentati omicidi, di vicini ossessivi e folli, di situazioni gravi al limite del surreale, non credo proprio lo faccia per mero gusto dell'orrido né per suscitare commozione o pietà con un mélo esagerato e patetico. I suoi personaggi, poco meno che casi umani, non sono che frutti del tutto plausibili dello sfruttamento, dei ritmi di lavoro opprimenti, dell'ambiente sociale sgradevole e disumano, dell'alienazione. Si tratta di storie limite ben lontane dal fantastico o da un noir inverosimile: grottesche? Sì, lo sono. Ma non lo è anche la condizione di abbrutimento bestiale in cui tanti uomini sono ridotti, nelle nostre società super sviluppate di cui i neoliberisti vanno fieri e sono soddisfatti?
Le vite dei precari costretti a barcamenarsi tra diversi lavori e lavoretti, le vite degli operatori di call center costretti a lavorare ore e ore per pochi spiccioli (lordi) sono tali da portare una protagonista a dire che a sera:

«Mi spogliavo e mi sentivo leggera. Avrei continuato a spogliarmi, se fosse stato possibile. Mi sarei sfilata la pelle come un cappotto e l'avrei appesa a una stampella. A scuola c'insegnano che abbiamo quattrocento muscoli: me li sarei tolti uno per uno come fazzoletti sporchi dentro alle tasche. E le ossa? Solo nel piede ce ne stanno cinquantadue. E io le avrei messe in un secchio al lato del letto. Anche le vene le avrei tirate via, raggomitolate e messe in un cassetto. E poi la stanchezza che mi pesava come un maglione, e tutti i pensieri che c'avevo addosso».

Lo sfruttamento è così selvaggio e sregolato da ridurre il tempo di vita a margini irrisori tra un abisso di stanchezza e un fiacco moto di ribellione ogni tanto. Il tempo è denaro, ma il tempo di lavoro è tempo alienato: denaro, sì, ma del padrone.
Eppure, la situazione squallida e disumana, grigia e brutale che ci racconta Celestini, non è senza speranza. Il titolo del romanzo non è "La condizione operaia" o "La classe sfruttata": è "Lotta di classe". Sì, perché i suoi personaggi sono docili e sottomessi dal mercato, relativamente depoliticizzati, eppure non totalmente sconfitti. Tra di loro serpeggia come una spira di vapore la consapevolezza della propria condizione, ciò che può trasformare la "classe in sé" (l'effettivo gruppo dei lavoratori) in "classe per sé" (classe sfruttata che sa di essere tale e solo così può decidere di ribellarsi). Tutti i personaggi, di fronte ad atti crudeli o cinici, brutali o aggressivi, lo ripetono: «è lotta di classe». Non è ancora rivoluzione: è un istinto di sopravvivenza, è un moto d'orgoglio, è una speranza sopita ma non spenta.

domenica 15 settembre 2013

"Fabbrica" di Ascanio Celestini

La lunga lettera che un operaio assunto per sbaglio scrive alla propria madre ci accompagna, con un linguaggio colorito e grezzo, diretto e spontaneo, lungo cinquant'anni di storia italiana.


«Mi hanno messo agli alti forni, alla fonderia.» scrive alla madre. «mansione di scovazzino: devo scopare il carbone nell'altoforno. Mi hanno detto che il mio capoturno è Fausto. Si chiama Fausto quello che devo incontrare. Lui deve impararmi il lavoro

Il padre di questo capoturno Fausto si chiamava anch'egli Fausto, e anche il padre di questi prima di lui. Tre uomini simboli di tre generazioni di operai, di tre ere "geologiche" delle fabbrica.

«Cara madre,
il tempo del nonno di Fausto, che pure lui si chiamava Fausto, è la prima età della fabbrica: l'"età dei giganti"


Quell'era lontana viene raccontata dall'operaio-narratore con toni nostalgici e mitici: a quei tempi gli operai erano alti dieci metri e si chiamavano Veraspiritanova, Dinamo, Acciaio, Guerriero, Germinal. Ascanio Celestini ha pescato a piene mani dalla tradizione orale e popolare, ha trasferito nel suo spettacolo teatrale (e nella sua trasposizione cartacea, il libro "Fabbrica") i frammenti di quell'epoca che sono stati conservati dall'immaginario e tramandati con la vividezza e l'esaltazione di un racconto epico. Il racconto prende toni e forma simili alle memorie della lotta partigiana, gli operai sono ricordati dai posteri come "giganti" e la loro epoca è quasi puro mito.
L'epoca successiva, incarnata dal Fausto padre, è molto diversa: è il tempo dell'"aristocrazia operaia". L'operaio-narratore ci racconta dei bombardamenti, della visita di Mussolini alla fabbrica, delle armi prodotte clandestinamente e vendute a Inghilterra e Jugoslavia. Ci racconta degli operai talmente abili e versati nel proprio mestiere da essere diventati indispensabili alla produzione, e pertanto risparmiati allo scempio della guerra e tenuti nel seno operativo e produttivo della fabbrica, da loro dominato grazie ai ferri che si facevano da soli, ai "capolavori" che dimostravano la loro indispensabile competenza. L'epoca dell'aristocrazia operaia è come il miraggio di un ribaltamento, l'illusione di vedere ripristinata una gerarchia di sogno in cui è il lavoratore a primeggiare sullo sfruttatore e anche Pietrasanta (il proprietario, il padrone, il capitalista, il Mazzarò che vuole possedere tutto ciò su cui si posano i suoi occhi) deve riconoscere quello statuto appunto "aristocratico" ai suoi migliori operai. È il tempo dei lavoratori comunisti e anarchici, che cercano di affermare la dignità del proprio lavoro e della propria persona.
Infine, arriva l'epoca di Fausto figlio e del nostro narratore. È il tempo della fabbrica contemporanea, in cui del passato mitico si conservano appena le memorie, tramandate e deformate dall'epos collettivo. È un tempo in cui alla fabbrica gli operai non servono neanche più, la macchina primeggia assoluta e incontrastata, l'abilità e la competenza non sono più richieste. La maggior parte degli operai viene licenziata o cassaintegrata, i pochi che restano vedono contrarsi il loro tempo di lavoro necessario e dilatarsi quello dedicato alla produzione del plusvalore, in una morsa disumanizzante di sfruttamento. Diminuiscono i lavoratori ma aumenta la produzione. Centinaia e migliaia di operai vengono scoperti superflui e licenziati: restano solo quelli che non è possibile mandare a casa, quelli che hanno «la disgrazia». Gli operai che hanno perso le dita tra gli ingranaggi, quelli assordati dal fischio dell'aria compressa, quelli mutilati, deformati e avvelenati dal lavoro: gli "storpi". Di quelli non si parla, perché «se lo sanno i sindacati che questa è una fabbrica che taglia le dita... ci fanno pure la vertenza e ci mettono su un bello sciopero!», però li si tiene a lavorare e neanche Gesucristo li può mandare via. Come Fausto figlio, il capoturno contemporaneo del nostro narratore: lui in fabbrica ha perso una gamba.
Nella nota introduttiva, Celestini spiega che si tratta di una forzatura narrativa che non corrisponde precisamente a verità: gli operai infortunati o resi invalidi dal lavoro sono i primi ad essere messi da parte. È precisamente qui che rinvengo la grandezza di Celestini, ciò che rende "Fabbrica" un'opera incantevole e toccante: c'è un significato ben preciso dietro questa forzatura artistica. Le dita, le gambe, l'udito persi nella fabbrica rappresentano l'estremo sacrificio dell'operaio, quello che lui deve compiere per poter continuare a lavorare: il sacrificio della propria identità. L'integrità dell'operaio viene immolata all'idolo della fabbrica, e non si tratta solo di integrità fisica: essa è il rispecchiamento dell'integrità identitaria dell'operaio che deve rimodellarsi, reinventarsi non più uomo ma appunto operaio. L'operaio del racconto "decide" di procurarsi una disgrazia per poter continuare a lavorare e la scelta cade su una mutilazione ben precisa: l'anulare della mano sinistra, un dito che non serve a niente... Il dito dell'anello nuziale. Fausto «dice che è una disgrazia che porta bene. Dice che con l'anulare sinistro è come se mi sposo la fabbrica...».

Friedrich Engels ha esposto in una maniera quasi documentaria la condizione della classe operaia in Inghilterra, soffermandosi sulla dimensione sociale ed economica. Simone Weil ha scritto pagine ricercate e raffinate sull'atrofizzazione dell'io spirituale ed intellettuale dell'operaio. Ascanio Celestini ci racconta degli operai nella loro dimensione più umana e toccante: quella della corporeità.
Il lavoro dell'operaio si "impara a rubeccio", guardando ed imitando i movimenti come delle scimmie ammaestrate. Celestini racconta che nel raccogliere memorie e testimonianze spesso si è trovato di fronte operai che accompagnavano i racconti con i gesti, in un modo spontaneo e praticamente inevitabile. L'esperienza della fabbrica è innanzitutto una esperienza fisica, fatta di movimenti assorbiti e meccanizzati, svincolati dal ragionamento (ottusi, appunto da scimmia ammaestrata, perché ciechi rispetto all'oggetto finale della produzione, semplice lavorazione di un semilavorato che priva l'operaio anche della consapevolezza e della soddisfazione del prodotto finale del proprio lavoro) e pressoché impossibili da esprimere verbalmente. La competenza e l'abilità sono fisiche, fisica è la fatica, fisiche le mutilazioni riportate dai personaggi di "Fabbrica" per rappresentare il loro assoggettarsi alla logica disumanizzante della condizione operaia.
Gran parte del racconto e della riflessione è costretta a rimanere nel margine bianco della pagina, nello spazio indicibile intraducibile destinato al corpo. Ascanio Celestini ci suggerisce aneddoti e scorci che ci facciano immaginare il mondo chiuso della fabbrica, una città nella città o uno Stato nello Stato, e lo fa gettandoci davanti agli occhi scene semplici e vivide, straordinariamente efficaci; raccontandoci storie reali e storie fantastiche attraverso il linguaggio schietto e diretto, gergale e colloquiale di una lunga lettera informale. Il libro è accompagnato dal cd audio in cui Celestini interpreta altre cinque lettere, ricercando «un suono che fosse il meno curato possibile, che rendesse l'immediatezza della scrittura e l'oralità dello spettacolo teatrale».
Per quanto mi riguarda, credo che i fini proposti da Celestini siano stati ampiamente perseguiti. "Fabbrica" è una lettura incredibilmente efficace, talvolta brillante e talaltra toccante. È una storia che interessa e ispira, e che mette in luce la grande sensibilità di Celestini, la sua enorme cultura e il suo raro talento. Una storia che, dipanandosi tra gli operai morti nella scia delle camionette della celere, altri licenziati perché trovati in possesso della tessera del sindacato, altri ancora resi «storpi» dal lavoro, fa riflettere sul passato della fabbrica, sul suo presente e sul suo avvenire, che ci si augura più giusto e rispettoso della dignità umana.
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