Ascanio Celestini, nel suo romanzo corale, offre uno spaccato desolante della nostra classe. Il perno della narrazione è un triste condominio, e se l'ambientazione è chiaramente romana, quell'edificio avrebbe tranquillamente potuto essere parte delle Vele di Scampia o dei Trecento Alloggi crotonesi, di Quarto Oggiaro, di Libertà o della Città Vecchia di cui canta De André, quei «quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi, ha già troppi impegni per scaldar la gente d'altri paraggi».
La vita di borgata è triste e squallida. Se Ascanio Celestini arriva a raccontare di tentati suicidi e tentati omicidi, di vicini ossessivi e folli, di situazioni gravi al limite del surreale, non credo proprio lo faccia per mero gusto dell'orrido né per suscitare commozione o pietà con un mélo esagerato e patetico. I suoi personaggi, poco meno che casi umani, non sono che frutti del tutto plausibili dello sfruttamento, dei ritmi di lavoro opprimenti, dell'ambiente sociale sgradevole e disumano, dell'alienazione. Si tratta di storie limite ben lontane dal fantastico o da un noir inverosimile: grottesche? Sì, lo sono. Ma non lo è anche la condizione di abbrutimento bestiale in cui tanti uomini sono ridotti, nelle nostre società super sviluppate di cui i neoliberisti vanno fieri e sono soddisfatti?
Le vite dei precari costretti a barcamenarsi tra diversi lavori e lavoretti, le vite degli operatori di call center costretti a lavorare ore e ore per pochi spiccioli (lordi) sono tali da portare una protagonista a dire che a sera:
«Mi spogliavo e mi sentivo leggera. Avrei continuato a spogliarmi, se fosse stato possibile. Mi sarei sfilata la pelle come un cappotto e l'avrei appesa a una stampella. A scuola c'insegnano che abbiamo quattrocento muscoli: me li sarei tolti uno per uno come fazzoletti sporchi dentro alle tasche. E le ossa? Solo nel piede ce ne stanno cinquantadue. E io le avrei messe in un secchio al lato del letto. Anche le vene le avrei tirate via, raggomitolate e messe in un cassetto. E poi la stanchezza che mi pesava come un maglione, e tutti i pensieri che c'avevo addosso».
Lo sfruttamento è così selvaggio e sregolato da ridurre il tempo di vita a margini irrisori tra un abisso di stanchezza e un fiacco moto di ribellione ogni tanto. Il tempo è denaro, ma il tempo di lavoro è tempo alienato: denaro, sì, ma del padrone.
Eppure, la situazione squallida e disumana, grigia e brutale che ci racconta Celestini, non è senza speranza. Il titolo del romanzo non è "La condizione operaia" o "La classe sfruttata": è "Lotta di classe". Sì, perché i suoi personaggi sono docili e sottomessi dal mercato, relativamente depoliticizzati, eppure non totalmente sconfitti. Tra di loro serpeggia come una spira di vapore la consapevolezza della propria condizione, ciò che può trasformare la "classe in sé" (l'effettivo gruppo dei lavoratori) in "classe per sé" (classe sfruttata che sa di essere tale e solo così può decidere di ribellarsi). Tutti i personaggi, di fronte ad atti crudeli o cinici, brutali o aggressivi, lo ripetono: «è lotta di classe». Non è ancora rivoluzione: è un istinto di sopravvivenza, è un moto d'orgoglio, è una speranza sopita ma non spenta.
Ciao,
RispondiEliminainteressante, me lo segno, lo compro e naturalmente lo leggo, mi hai affascinata. Mi sembra davvero un gran bel libro ;)