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giovedì 18 febbraio 2021

"Il racconto dell'ancella" di Margaret Atwood


Fraternizzare
significa comportarsi da fratelli. Me l'ha detto Luke. Diceva che non c'era una parola equivalente che significasse comportarsi da sorelle. Avrebbe dovuto essere sororizzare, diceva lui. Dal latino. Gli piaceva sapere queste cose. La derivazione delle parole. Io lo prendevo in giro per la sua pedanteria.

Questo è un libro scritto e narrato da una donna. 

Fin dalle prime pagine si comincia a delineare uno scenario distopico. Si tratta del regime di Gilead, la società a cui approderemmo se vincesse la logica del "È stata stuprata perché aveva la gonna corta". Una società di questo tipo è una società che "eleva" la donna a creatura debole, bisognosa di protezione e di salvaguardia perché custode del dono della procreazione. Di contro, ogni mancata fecondazione non è mai causata da una deficienza dell'apparato riproduttivo maschile, ma esclusivamente da una infecondità patologica della donna. Le donne sterili, incapaci dunque di assolvere al diritto-dovere di procreare, sono esiliate nelle Colonie e prendono il nome di Nondonne. 

L'emancipazione fisica mentale e sociale della donna e l'approdo ad una mercificazione del corpo femminile, in Gilead, vengono estremizzate al punto da essere ribaltate: e se riuscissimo davvero a instillare nei più la concezione secondo cui la donna, mostrandosi, desacralizzerebbe il proprio corpo? Cosa accadrebbe se perseguissimo una antica gloriosa purezza che non potrebbe mai collimare con un disvelamento sacrilego del corpo? Le donne del libro finiscono così per essere rigidamente rinchiuse nei loro ruoli, delineati da abiti distinti per colore che accomunano le donne della stessa "specie": Ancelle, Marte, Mogli, Vedove, Economogli. Il regime, dichiarando nulli tutti i secondi matrimoni e le relazioni non maritali, si assicura un copioso numero di reclute donne, le Ancelle. Dapprima inviate in un istituto correttivo nel quale venga loro impartito il corretto stile di vita per adempiere al proprio dovere, quello di essere degni contenitori, vengono poi assegnate ad un Comandante, un uomo sposato e in là con gli anni la cui moglie non è stata in grado di assicurare una discendenza (ricordiamoci che la responsabilità di una mancata fecondazione ricade sempre sulle donne, siano esse di basso o di alto rango). È qui che le Ancelle vengono spogliate persino del proprio nome: Offred, il nome della protagonista narrante, non è altro che un patronimico, composto dalla preposizione con valore possessivo (of-) e dal nome di battesimo del Comandante assegnatole (Offred, di Fred). 

Il mio nome non è Offred, ho un altro nome, che adesso nessuno usa perché è proibito. Mi dico che non è importante, un nome è come un numero di telefono, utile solo per altri; ma mi sbaglio, è importante. Tengo la coscienza di questo nome come qualcosa di nascosto, un tesoro che tornerò a scavare un giorno. È un nome sepolto, circondato da mistero come un amuleto, un amuleto sopravvissuto a un passato incredibilmente distante. La notte sto sdraiata sul letto, con gli occhi chiusi, e il mio nome è lì, sospeso dietro gli occhi, non del tutto a portata di mano, che brilla nel buio. 

Alle donne non è permesso leggere. L'unica lettura di cui possano godere è quella di alcuni passi della Bibbia letti dal Comandate nei giorni di Cerimonia, i giorni cioè in cui avviene un atto sessuale prestabilito e controllato tra l'Ancella e il Comandante. Non c'è spazio per la passione o l'erotismo. Quello che avviene in quei giorni è una trattativa d'affari stipulata sotto il vigile occhio della padrona di casa, niente di più. 

Lì sotto il Comandante sta fottendo. Ciò che sta fottendo è la parte inferiore del mio corpo. Non dico fare l'amore, perché non è ciò che sta facendo. Anche copulare non è l'espressione esatta, perché indica la partecipazione di due persone mentre qui solamente uno di noi è coinvolto. Neanche parlare di stupro sarebbe giusto, perché non sta succedendo nulla che io non abbia sottoscritto.

Gilead, patriarcale nella forma e matriarcale nel contenuto, è una fandonia. Gli uomini di alto rango, quelli che posseggono la parola, continuano a godere delle proprie piccole o grandi perversioni: possedere tante donne e farne delle puttane o delle sante a loro piacimento. Scopo del regime, messo a punto dagli uomini e dagli uomini gestito, effettivamente non è la sublimazione della figura femminile, ma la possibilità di aizzare le donne le une contro le altre. Uno Stato come questo giustifica la violenza se indirizzata ai traditori, ma punisce chi attenta alla vita degli schiavisti degli alti ranghi; rifugge da qualsivoglia iniziativa solidale tra i suoi membri, ma concede grandi manifestazioni per le esecuzioni capitali; eleva la donna a simbolo di purezza, ma permette che i Comandanti frequentino club in cui altre donne vengono costrette a prostituirsi. Lo Stato si fa garante del benessere dei propri cittadini, che sono considerati inabili alla scelta del proprio bene. Ma fin dove è lecito per un garante spingersi nella limitazione della libertà? E ammesso che il fine sia giusto (giusto per chi?), il fine giustifica il mezzo?

Questi e altri gli spunti di riflessione che offre questo libro. Una lettura quasi d'obbligo per donne e uomini del nostro tempo. 

martedì 26 aprile 2016

L’incubo di un re detronizzato. "La città delle donne" di Federico Fellini

Uscito nelle sale nel 1980, La città delle donne suscitò molte polemiche per il marcato antifemminismo che caratterizza la pellicola. Il protagonista, Snàporaz, interpretato da Marcello Mastroianni, incontra in treno una donna, la segue nel tentativo di possederla, e si ritrova in un covo di femministe che lo tormentano, lo umiliano, lo mettono sotto processo con l’accusa di essere un Maschio. Il ritratto delle donne che lottano per la propria emancipazione è, in pieno stile felliniano, grottesco. A queste donne aggressive e violente, il regista contrappone grandi seni e grandi sederi, morbidi rifugi per un perseguitato.
Sono passati trentasei anni da allora, i movimenti femministi sono ripiegati su se stessi e forse, nell’immaginario collettivo, è proprio la visione felliniana ad essere diventata egemone: le femministe erano una banda di scalmanate che non facevano altro che urlare. Erano delle estremiste, dei maschi al contrario oppure donne che avevano “imitato” ed ereditato, nel loro processo di emancipazione, il peggio del maschio. Ma in questo film c’è di più. Nel viaggio che il regista compie all’interno della psiche di un tipico “macho italiano” si dispiega un rapporto complesso tra gli uomini e le donne che ci dice molto dei timori, delle debolezze e delle insicurezze che si celano dietro il cinico sorrisetto da seduttore del Maschio.
Cominciamo allora a seguire il percorso disegnato da Fellini, con la potente fantasia e immaginazione che caratterizza la sua arte. Snàporaz è in treno. Vede una bella donna che siede di fronte a lui: lei lo guarda ammiccante, lo provoca e fa in modo che lui la segua. E lui, con un’espressione eccitata e inebetita – il ridicolo non caratterizza soltanto i personaggi femminili del film – la insegue. Scende dal treno, attraversa un boschetto e si ritrova in un albergo pieno di donne. Snàporaz si aggira tra le donne divertito, con un sorriso che è tra lo stupore, la distaccata ironia e la tenerezza paternalistica. Ma questa spavalderia dura poco: la donna che lui aveva seguito, cercando di sedurla con pose ridicole e infantili, lo smaschera davanti a tutte. Pronuncia un’invettiva che metterà quest’uomo all’angolo, che lo costringerà a fuggire. È l’inizio dell’incubo del “califfo” ormai detronizzato.
 
«Gli occhi di quell’uomo che circola fra di noi, con la sua faccia fintamente rispettosa e che dice che vuole informarsi, conoscerci meglio, perché solo conoscendoci meglio potrà cambiare il suo rapporto con noi e  che, di tutte le sue false e ipocrite giustificazioni, questa è la più turpe… Gli occhi di quest’uomo, dicevo, sono gli occhi del maschio di sempre. Che deformano tutto ciò che vedono nello specchio della derisione e della beffa. Il mascalzone è sempre lo stesso. Noi donne siamo solo dei pretesti per permettergli di raccontare, ancora una volta, il suo bestiario, il suo circo, il suo avanspettacolo nevrotico, e noi lì a far da pagliacce, da bayadère, da marziane. A far spettacolo per lui con la nostra passione e la nostra sofferenza. Questo lugubre, cupo, stremato califfo, sappia una volta per tutte che non siamo marziane! Vogliamo abitare la terra, questa terra, ma non più per far da concime, come avviene da quattromila anni!»

L’incubo che perseguita il protagonista di questa storia è la concretizzazione della paura più profonda che affligge l’uomo: le donne contestano radicalmente l’egemonia maschile, creando spazi propri di vita, di aggregazione, di ironia. Creano un proprio linguaggio che gli uomini non riescono a comprendere, un mondo in cui gli uomini non sono presi in considerazione se non come i vecchi padroni dai quali si sono definitivamente liberate. In questo processo di creazione di modi di vita alternativi al dominio maschile, il Maschio vede sgretolarsi il terreno sotto i suoi piedi, si vede spodestato dal proprio regno che diventa terra inospitale dalla quale fuggire. L’intera vicenda si dispiega come fuga da questo assurdo mondo invaso dalle “marziane”. Snàporaz troverà rifugio nella casa di un uomo, il Dr. Xavier Katzone, che cerca di resistere all’occupazione militare delle donne: la sua casa raccoglie una immensa collezione di ritratti femminili che emettono gemiti di piacere. Sono tutte le sue amanti, collezionate nel corso della sua vita da grande seduttore. Questa figura grottesca, assurda e caricaturale rappresenta un’epoca che ormai è stata superata, malgrado tutti i tentativi di resistere da parte degli uomini.
Nel corso della sua fuga, Snàporaz avrà un dialogo con sua moglie in cui lei lo metterà di fronte alla sua indifferenza, alla sua assenza, alla sua totale mancanza di considerazione e di rispetto. Lui comprenderà le ragioni di lei, ma sarà troppo tardi: resterà in un angolo da solo, mentre lei ballerà sorridente con una donna.
Nell’incubo felliniano le donne assumono un aspetto sempre più ambiguo, incomprensibile, dionisiaco:  hanno un mondo inaccessibile all’uomo, fatto di mistero e di equivocità. Emblematica è la scena in cui Mastroianni, nel tentativo di fuga, accetta un passaggio da alcune scalmanate che urlano, ridono e ascoltano musica disco. Il loro aspetto è inquietante, sembrano delle possedute. La visione che Fellini dà di queste donne si avvicina ai riti dionisiaci descritti nelle Baccanti di Euripide, riti riservati alle sole donne, il cui accesso era severamente vietato agli uomini. Riti in cui le donne esprimono la propria sessualità e interiorità liberata da tutte le regole imposte dalla razionalità maschile. La donna portatrice di una dimensione “demoniaca” irriducibile al dominio dell’uomo, che mette in crisi l’ordine costituito, la regolarità geometrica e gerarchica della società costruita secondo le leggi del Maschio. Una visione della donna che da sempre è radicata nell’uomo e che si è concretizzata in molte forme, dalla persecuzione delle “streghe” – uno dei motti delle femministe era proprio “Maschi tremate, le streghe son tornate!” – alla chiusura delle donne in casa, isolate nelle proprie cucine, alla violenza psicologica e fisica, fino alla cinica derisione dell’uomo contemporaneo di fronte al tentativo delle donne di creare un mondo che sia il proprio, creato, pensato e vissuto dalle donne senza il filtro e la coercizione della cultura fallocentrica.
Ciò che, a mio avviso, emerge da questo film non è tanto il desiderio di difendere un modello maschile che risulta, nella rappresentazione del regista, ormai indifendibile, né criticare da un punto di vista politico i movimenti femministi. Questa pellicola sembra esprimere una grande nostalgia, espressa in maniera geniale in una delle ultime scene del film, in cui Mastroianni è su uno scivolo nel quale compaiono le donne della sua infanzia, tutte procaci e materne: la nostalgia di un’infanzia perduta, di mondo che non c’è più, in cui tutte le donne erano protese a soddisfare l’ego del maschio, sempre amato e coccolato. La nostalgia di un tempo perduto e irrecuperabile, in cui le donne guardavano agli uomini con ammirazione, premura, affetto. Ora le donne guardano il maschio con disprezzo e ostilità, non sopportano più il suo dominio e se ne vogliono liberare; dal canto suo, il maschio si sente escluso, inutile, si arma di ricordi e vittimismo per potersi difendere. Una dialettica servo-padrone in cui il padrone scopre di essere sempre stato dipendente dal servo e rimpiange i fasti di un regno che non c’è più.

                                                                                                                                                                 

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