Uscito nelle
sale nel 1980, La città delle donne
suscitò molte polemiche per il marcato antifemminismo che caratterizza la
pellicola. Il protagonista, Snàporaz, interpretato da Marcello Mastroianni,
incontra in treno una donna, la segue nel tentativo di possederla, e si ritrova
in un covo di femministe che lo tormentano, lo umiliano, lo mettono sotto
processo con l’accusa di essere un Maschio. Il ritratto delle donne che lottano
per la propria emancipazione è, in pieno stile felliniano, grottesco. A queste
donne aggressive e violente, il regista contrappone grandi seni e grandi
sederi, morbidi rifugi per un perseguitato.
Sono passati
trentasei anni da allora, i movimenti femministi sono ripiegati su se stessi e
forse, nell’immaginario collettivo, è proprio la visione felliniana ad essere
diventata egemone: le femministe erano una banda di scalmanate che non facevano
altro che urlare. Erano delle estremiste, dei maschi al contrario oppure donne
che avevano “imitato” ed ereditato, nel loro processo di emancipazione, il
peggio del maschio. Ma in questo film c’è di più. Nel viaggio che il regista
compie all’interno della psiche di un tipico “macho italiano” si dispiega un
rapporto complesso tra gli uomini e le donne che ci dice molto dei timori,
delle debolezze e delle insicurezze che si celano dietro il cinico sorrisetto
da seduttore del Maschio.
Cominciamo
allora a seguire il percorso disegnato da Fellini, con la potente fantasia e
immaginazione che caratterizza la sua arte. Snàporaz è in treno. Vede una bella
donna che siede di fronte a lui: lei lo guarda ammiccante, lo provoca e fa in
modo che lui la segua. E lui, con un’espressione eccitata e inebetita – il
ridicolo non caratterizza soltanto i personaggi femminili del film – la
insegue. Scende dal treno, attraversa un boschetto e si ritrova in un albergo
pieno di donne. Snàporaz si aggira tra le donne divertito, con un sorriso che è
tra lo stupore, la distaccata ironia e la tenerezza paternalistica. Ma questa
spavalderia dura poco: la donna che lui aveva seguito, cercando di sedurla con
pose ridicole e infantili, lo smaschera davanti a tutte. Pronuncia un’invettiva
che metterà quest’uomo all’angolo, che lo costringerà a fuggire. È l’inizio
dell’incubo del “califfo” ormai detronizzato.
«Gli occhi di
quell’uomo che circola fra di noi, con la sua faccia fintamente rispettosa e
che dice che vuole informarsi, conoscerci meglio, perché solo conoscendoci
meglio potrà cambiare il suo rapporto con noi e
che, di tutte le sue false e ipocrite giustificazioni, questa è la più
turpe… Gli occhi di quest’uomo, dicevo, sono gli occhi del maschio di sempre.
Che deformano tutto ciò che vedono nello specchio della derisione e della beffa.
Il mascalzone è sempre lo stesso. Noi donne siamo solo dei pretesti per
permettergli di raccontare, ancora una volta, il suo bestiario, il suo circo,
il suo avanspettacolo nevrotico, e noi lì a far da pagliacce, da bayadère, da
marziane. A far spettacolo per lui con la nostra passione e la nostra
sofferenza. Questo lugubre, cupo, stremato califfo, sappia una volta per tutte
che non siamo marziane! Vogliamo abitare la terra, questa terra, ma non più per
far da concime, come avviene da quattromila anni!»
L’incubo che
perseguita il protagonista di questa storia è la concretizzazione della paura
più profonda che affligge l’uomo: le donne contestano radicalmente l’egemonia
maschile, creando spazi propri di vita, di aggregazione, di ironia. Creano un
proprio linguaggio che gli uomini non riescono a comprendere, un mondo in cui
gli uomini non sono presi in considerazione se non come i vecchi padroni dai
quali si sono definitivamente liberate. In questo processo di creazione di modi
di vita alternativi al dominio maschile, il Maschio vede sgretolarsi il terreno
sotto i suoi piedi, si vede spodestato dal proprio regno che diventa terra
inospitale dalla quale fuggire. L’intera vicenda si dispiega come fuga da
questo assurdo mondo invaso dalle “marziane”. Snàporaz troverà rifugio nella
casa di un uomo, il Dr. Xavier Katzone, che cerca di resistere all’occupazione
militare delle donne: la sua casa raccoglie una immensa collezione di ritratti
femminili che emettono gemiti di piacere. Sono tutte le sue amanti, collezionate
nel corso della sua vita da grande seduttore. Questa figura grottesca, assurda
e caricaturale rappresenta un’epoca che ormai è stata superata, malgrado tutti
i tentativi di resistere da parte degli uomini.
Nel corso
della sua fuga, Snàporaz avrà un dialogo con sua moglie in cui lei lo metterà
di fronte alla sua indifferenza, alla sua assenza, alla sua totale mancanza di
considerazione e di rispetto. Lui comprenderà le ragioni di lei, ma sarà troppo
tardi: resterà in un angolo da solo, mentre lei ballerà sorridente con una
donna.
Nell’incubo felliniano le donne assumono un aspetto sempre
più ambiguo, incomprensibile, dionisiaco: hanno un mondo inaccessibile all’uomo, fatto
di mistero e di equivocità. Emblematica è la scena in cui Mastroianni, nel tentativo
di fuga, accetta un passaggio da alcune scalmanate che urlano, ridono e
ascoltano musica disco. Il loro aspetto è inquietante, sembrano delle
possedute. La visione che Fellini dà di queste donne si avvicina ai riti
dionisiaci descritti nelle Baccanti di
Euripide, riti riservati alle sole donne, il cui accesso era severamente
vietato agli uomini. Riti in cui le donne esprimono la propria sessualità e
interiorità liberata da tutte le regole imposte dalla razionalità maschile. La
donna portatrice di una dimensione “demoniaca” irriducibile al dominio
dell’uomo, che mette in crisi l’ordine costituito, la regolarità geometrica e
gerarchica della società costruita secondo le leggi del Maschio. Una visione
della donna che da sempre è radicata nell’uomo e che si è concretizzata in
molte forme, dalla persecuzione delle “streghe” – uno dei motti delle
femministe era proprio “Maschi tremate, le streghe son tornate!” – alla
chiusura delle donne in casa, isolate nelle proprie cucine, alla violenza
psicologica e fisica, fino alla cinica derisione dell’uomo contemporaneo di
fronte al tentativo delle donne di creare un mondo che sia il proprio, creato,
pensato e vissuto dalle donne senza il filtro e la coercizione della cultura
fallocentrica.
Ciò che, a
mio avviso, emerge da questo film non è tanto il desiderio di difendere un
modello maschile che risulta, nella rappresentazione del regista, ormai
indifendibile, né criticare da un punto di vista politico i movimenti
femministi. Questa pellicola sembra esprimere una grande nostalgia, espressa in
maniera geniale in una delle ultime scene del film, in cui Mastroianni è su uno
scivolo nel quale compaiono le donne della sua infanzia, tutte procaci e
materne: la nostalgia di un’infanzia perduta, di mondo che non c’è più, in cui tutte
le donne erano protese a soddisfare l’ego del maschio, sempre amato e
coccolato. La nostalgia di un tempo perduto e irrecuperabile, in cui le donne
guardavano agli uomini con ammirazione, premura, affetto. Ora le donne guardano
il maschio con disprezzo e ostilità, non sopportano più il suo dominio e se ne
vogliono liberare; dal canto suo, il maschio si sente escluso, inutile, si arma
di ricordi e vittimismo per potersi difendere. Una dialettica servo-padrone in
cui il padrone scopre di essere sempre stato dipendente dal servo e rimpiange i
fasti di un regno che non c’è più.
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