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venerdì 18 ottobre 2019

Burning: la conflagrazione onirica della nuova lotta di classe - Francesco Todisco

Cortázar, nelle sue “Lezioni di letteratura”, ci spiegava quali sono le qualità caratterizzanti di un racconto, necessariamente diverse da quelle di un romanzo. Un racconto, diceva lo scrittore argentino, deve possedere tensione e intensità; se il romanzo è un poligono, più sfaccettato e pieno di angoli, allora il racconto è una sfera. Ma cosa succede quando un racconto viene adattato per il cinema? La risposta di Chang-dong Lee è semplice: bisogna sovvertire quelle regole, sospenderle, rendere elastica la materia prima del racconto per fare in modo che un ritmo e un’atmosfera tratteggiati, su carta, in poche pagine possano mantenersi vivi per la durata di un lungometraggio.
È questa la delicata operazione portata avanti dal regista sudcoreano con Burning. Decidendo infatti di adattare un racconto di Haruki Murakami, Chang-dong Lee si inserisce nella non nutritissima schiera di cineasti che si sono cimentati, spesso fallendo, con l’opera dello scrittore giapponese. Questa volta, però, a sorreggere l’adattamento c’è una brillante intuizione, forse l’unica chiave possibile per aprire al cinema le porte del mondo di Murakami: pescare a piene mani dall’universo immaginifico dello scrittore giapponese, prendere in prestito tutti i suoi topoi, le sue ossessioni, le sue immagini ricorrenti. Andare, insomma, oltre lo spazio limitato delle pagine del racconto per offrire allo spettatore un bignami della mitologia di Murakami. Ecco quindi che la storia si arricchisce di tanti piccoli elementi: non solo la donna che scompare misteriosamente, incipit di tante narrazioni murakamiane, ma anche i gatti (che scompaiono e ricompaiono), persone che raccontano di essersi perse in dei pozzi, citazioni a romanzi di Faulkner, e ovviamente tanta musica jazz. Chang-dong Lee dilata un racconto di Murakami fino a farlo diventare un romanzo vero e proprio, pieno di tutti quei punti di riferimento che i lettori dello scrittore giapponese hanno imparato a riconoscere con gli anni per meglio orientarsi all’interno della sua opera.




Ma c’è molto di più. C’è un'altra, decisiva intuizione a rendere Burning un’opera superiore al materiale di partenza: quella di spostare il racconto dal Giappone etereo e metafisico di Murakami alla Corea del Sud tangibile e spietata di Lee, dove la lotta di classe resta la tematica inevitabile da affrontare per cineasti e narratori. Il regista sudcoreano aveva già dimostrato in passato (ricordiamo in particolare lo splendido Poetry, del 2010) di saper coniugare un sommesso lirismo con un’analisi chirurgica delle problematiche socio-economiche della sua nazione. Se in Murakami lo scontro era quello tra cultura tradizionale giapponese e influenze europee e americane (esplicitate dalle infinite citazioni letterarie e musicali), in Lee invece la lotta, spesso sotterranea e invisibile, seppure terribilmente evidente nei suoi effetti, è quella tra nuovi ricchi e nuovi poveri; il vampirismo esercitato dai primi nei confronti dei secondi è la vera anima pulsante di Burning. Jongsu (un protagonista con un nome, a differenza di tanti narratori di Murakami, spesso privi di identità anagrafiche) si innamora di Haemi (una ragazza che, ancora una volta, sembra incarnare l’archetipo della figura femminile in Murakami), solo per poi vederla scomparire poco tempo dopo un viaggio in Africa durante il quale ha conosciuto Ben, un ragazzo tanto misterioso quanto affascinante. La differenza tra di due protagonisti maschili è marcatissima, e Lee decide di evidenziarla in ogni modo possibile, a partire dalle rispettive abitazioni (la casa, e ciò che la casa può dire sullo status sociale del suo proprietario, è forse il vero centro focale di tanto cinema sudcoreano recente; si veda per esempio Parasite, recente vincitore della Palma d’Oro a Cannes, dove la casa evolve da semplice ambientazione a protagonista della pellicola). Mentre Ben può sfoggiare il lusso ipermoderno e asettico della sua abitazione in centro, Jongsu vive in una zona rurale a poca distanza dal confine con la Corea del Nord, tanto da poter sentire distintamente i megafoni tramite i quali la propaganda di regime viene urlata ai cittadini sudcoreani. 
Anche con questi dettagli, Chang-dong Lee dipinge un’atmosfera di paranoia, di persecuzione: Jongsu non si sente solo diverso, ma avverte la presenza di un nemico che non riesce ad identificare. Ecco dunque che, poco tempo dopo la scomparsa di Haemi (che, nella scena più memorabile del film, balla nuda sulle soffuse note di Miles Davis, altra presenza fissa dell’immaginario murakamiano; l’intera sequenza è quasi un perfetto saggio audiovisivo su come fissare su pellicola il suono e la consistenza di una pagina di Murakami), Jongsu non può fare a meno di identificare il discutibile hobby di Ben, ovvero quello di bruciare granai abbandonati, come una metafora usata per preannunciare l’assassinio della ragazza. È qui che racconto e pellicola divergono in maniera più netta: mentre Murakami si limita alla suggestione, Lee infila un indizio dopo l’altro per portarci alla conclusione, seppure mai esplicitata in maniera diretta, che Ben si sia effettivamente macchiato del crimine. Non può che esserci una sola destinazione finale per il film; ossessionato dalla presenza fantasmatica di Haemi e dal risentimento nei confronti di Ben, Jongsu decide che il bagno di sangue è l’unica soluzione applicabile.
Burning, con i suoi movimenti di macchina molli e placidi, non si limita a mettere in scena la crescente disparità socioeconomica sudcoreana e i conflitti che essa genera, ma la problematizza: così la vittima diventa carnefice, quasi a suggerire che l’unico esito possibile di uno scontro così aspro è la distruzione, letterale o figurata, di entrambe le parti in causa. Se una buona fetta del cinema sudcoreano si muove verso questa conclusione, allora di questa conclusione Burning rappresenta l’aspetto più sottile e sotterraneo, pronto però ad esplodere in una conflagrazione improvvisa e finale. Un sogno che, in maniera subdola, si trasforma in un incubo, come nei migliori romanzi di Murakami; e di tutto il palcoscenico onirico dell’autore giapponese, la pellicola di Chang-dong Lee rappresenta la trasposizione più riuscita.


di Francesco Todisco

lunedì 19 febbraio 2018

"Sami blood": la difficile costruzione dell'identità

Sangue sami: il titolo pare rivendicare un'identità tramandata per via biologica, genetica, una concezione essenzialistica dell'identità culturale, da cui il sami e la sami non possono fuggire, a cui sono destinati a ritornare pur dopo l'esplorazione di culture diverse. Una sorta di naturale, istintivo "richiamo della foresta". Ma la lettura proposta dalla regista Amanda Kernell nel suo lungometraggio di esordio va molto oltre questo stereotipo, e si richiama ad una concezione dialettica di identità. Racconta le stratificazioni e le lotte interiori del soggetto che costruisce il proprio io, all'interno e contro la cultura del proprio gruppo, e allo stesso tempo la definizione dialettica (per tramite del contrasto noi/gli altri) del gruppo stesso, quello del popolo sami.
I sami o lapponi, minoranza etnica della Svezia e di altri Paesi scandinavi, possiedono una propria cultura tradizionale ben definita ed una lingua propria. Ancora all'indomani della Seconda Guerra Mondiale, quella sami era una popolazione nomade che fondava la propria economia sull'allevamento delle renne. In questo contesto è ambientata la storia narrata da Kernell: i bambini e i ragazzini sami, pur indossando gli abiti tradizionali e ritirandosi a sera a dormire nelle tende mobili sui pascoli montuosi, devono frequentare le lezioni di una maestra svedese e sforzarsi di parlare in classe esclusivamente svedese, pena un castigo corporale. Elle-Marja, adolescente sami di spiccata intelligenza e con una personalità ancora in fase di difficile costruzione, è la più brava ad adattarsi alla lingua e alla cultura degli Altri, è la sola a guardare con desiderio all'alterità svedese, che impone dall'alto un modello omologante alla minoranza sami, che è costretta ad adattarvisi, seppur con molti attriti e resistenze. La sorella minore di Elle-Marja, rappresentante di tali resistenze e fiera portatrice della cultura tradizionale, parla lo svedese stentatamente e con fastidio, preferendo di molto cantare il joik, il canto rituale sami.
La maestra svedese guarda con una dolcezza inevitabilmente paternalistica a Elle-Marja e le regala un libro di poesie che contiene il suo verso preferito: «Anelo la terra che non esiste, e tuttavia sono stanco di desiderare». È un verso che si addice alla ricerca sempre frustrata di Elle-Marja di una personalità in cui sentirsi a proprio agio, di un'identità adulta liberata dalle insicurezze dell'adolescenza, una storia e una forma di cui andare fiera.
Quando Elle-Marja cammina verso la scuola nel suo abito tradizionale, i ragazzi svedesi ridono alla sue spalle: perché i sami puzzano ed Elle-Marja puzza, e il suo vestito è ridicolo, e anche se i sami vivono in Svezia senz'altro non capiscono lo svedese e si può insultarli a piacimento. «Ecco gli animali del circo!» grida uno dei ragazzi nel veder arrivare la fila di bambini sami diretti alla lezione.
La sua appartenenza al popolo sami non genera altro che vergogna e senso di rifiuto in Elle-Marja. Il suo ruolo nei confronti della maestra svedese che annuncia l'arrivo di ospiti da Uppsala si può definire collaborazionista. Lei è la più docile, la più desiderosa di addomesticamento alla cultura dominante: quindi per prima, per dare il buon esempio, viene gettata in pasto agli ospiti svedesi che si rivelano degli studiosi senza scrupoli. La costringono a spogliarsi davanti al resto della classe e alla finestra aperta e la sottopongono gelidamente a esami medici e a misurazioni antropometriche, in un'agghiacciante sequenza che richiama alla mente sia il distacco dei medici nazisti nei confronti dei "subumani" ebrei o zingari, sia l'atteggiamento lombrosiano che ricercava nelle misure del cranio e nella distanzia tra gli occhi la dimostrazione scientifica dell'inferiorità naturale dei meridionali. Di tutta la sequenza mi ha irritato in particolare un gesto inaccettabile sotto la sua facciata di innocenza: la carezza di una delle studiose ai capelli biondi di una bimba sami, e la sua parola compiaciuta per quella tonalità di biondo. Un carezzare compiaciuto che pare rivolto a un gatto o a un cavallo, che non si chiede se alla bimba piaccia che un'estranea le tocchi le trecce, e che sotto la veste di un bonario paternalismo nasconde la stessa violenza che le cronache dell'epoca ci tramandano dei seppur "buoni" e "gentili" missionari europei, colonizzatori dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina.



Di quest'ultima, smisurata umiliazione, dell'essere stata trattata come una bestia da studiare, Elle-Marja non accusa gli svedesi ma la propria appartenenza al gruppo giudicato inferiore. Introietta le accuse, la discriminazione, gli insulti contro i sami ed ella stessa si rivolta contro la propria storia, la propria identità, e si decide definitivamente a rigettarla, a costruirne una completamente nuova. Chiede alla maestra di aiutarla a trasferirsi in città, ma il marchio infame si alza come un muro tra Elle-Marja e il suo sogno: essere prima della classe tra i sami non è sufficiente a seguire le normali lezioni per i ragazzi svedesi. Troppa è l'inferiorità dei sami perché uno di essi possa estirparla da sé.
Qui inizia l'avventura solitaria di Elle-Marja e contemporaneamente si dà il passaggio dall'adolescenza all'età adulta: ruba un vestito occidentale, si lava in una polla d'acqua per togliersi di dosso la puzza sami e con queste nuove vesti riesce facilmente a vivere la sua prima avventura romantica e poi a fuggire in città, da sola e vestendo una nuova identità: Elle-Marja è rimasta indietro e adesso c'è solo Christina nata nello Småland (particolari anagrafici rubati alla sua maestra) e vestita di abiti altrui.
La chiave della costruzione del nuovo io, come nelle lezioni in lingua svedese (e come nei processi dell'egemonia culturale nei contesti coloniali), sta nell'istruzione: Elle-Marja/Christina si rivolge ad una scuola di Uppsala perché la educhi come una ragazza svedese, perché la trasformi agli occhi di tutti in Christina solamente, e il passato sami sia cancellato dalla storia. Ma per frequentare una scuola e vivere in città occorre denaro. Per procurarselo Elle-Marja è disposta a tutto, perfino a tornare temporaneamente nella casa rifiutata, dove c'è da commettere un delitto, un parricidio freudiano: il sacrificio di una renna, che è allo stesso tempo un ricatto contro la madre e l'assassinio figurato della cultura sami.
"Sami blood" è un film raffinato, un difficile gioco di equilibrismo tra la tradizione e la globalizzazione, tra il rischio della chiusura soffocante in se stessi e quello speculare della dispersione in un modello culturale omologato e privo di storia. È la narrazione di una costruzione soggettiva tra l'infanzia e l'età adulta, tra la casa e il mondo esterno, segnata da riti iniziatici e ritorni simbolici, che dura fino alla vecchiaia della protagonista, perché la soggettività umana non è un'essenza ma un processo, e non finisce mai il lavoro di ricerca di una sintesi che sappia sussumere in sé tutte le fasi e tutte le stratificazioni della storia personale e sociale. 

sabato 16 dicembre 2017

"Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza" di Roy Andersson

«È giusto servirsi delle persone solamente per il proprio piacere?»

Il titolo è ironico e immaginifico. Il film è strano ed evocativo. Vincitore del leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 2014, è piacevolissimo da vedere, spinoso e nordico, lento e suggestivo. Pone una sequela di domande, senza fornire che stralci di risposta, ma abbondando di silenzi che ti lasciano l'agio di pensare, mentre fissi il grigiore delle scenografie fintissime da teatro e insieme vivide e trasognate, come ereditate da un ricordo infantile o prese a prestito da un futuro informe.
Seguiamo due agenti di commercio tristi, tristissimi, nei loro tentativi frustrati di vendere denti da vampiro e maschere di Zio Dentone, articoli per fare feste e scherzi, che non divertono nessuno. Come loro stessi, che invano ripetono agli altri e a se stessi: "Vogliamo aiutare la gente a divertirsi". Tra ipotetici acquirenti non interessati ed ex clienti insolventi, si aggirano tetri e ripetitivi in uno scenario fantasmatico, saldi nella loro amicizia e nella comunione di lavoro e fallimenti. Camminano con la loro valigetta tra parate militari fuoriuscite dalla Grande guerra del Nord, ballerini di flamenco che provano e sudano nella scuola di danza, passeggeri che pranzano alla mensa di una nave. La lunga sequenza di quadretti presi in prestito dalla vita (più uno strappato a un brutto sogno) raccontano con delicatezza, ironia, malinconia e stupore di amori non corrisposti, debiti non saldati, morti inaspettate, bevande alcoliche pagate in baci, autobus persi e ombrelli dimenticati a casa in giornate improvvisamente diventate piovose. Nell'immobilità pittorica e nel pallore disumano di personaggi, comparse e fondali, viene sgranato questo piccolo rosario della vita. La lentezza e la pulizia delle sequenze le rendono belle e contemplative, scultoree, esistenzialistiche.



Un uomo attende per ore, impalato in mezzo alla strada, la persona che ha evidentemente dato buca ad un importante appuntamento. Alle sue spalle, oltre la vetrina di un bar, la maestra di danza bacia le mani del ragazzo che la respinge, e si accascia piangente sul tavolino. Così, ugualmente gravata di uno schermo di silenzio e indifferenza, una ricercatrice in camice bianco chiacchiera al telefono sul clima, mentre a pochi passi una scimmietta immobilizzata e attaccata agli elettrodi geme con il corpicino impotente squassato dalle scosse elettriche. Una moglie smanetta con utensili da cucina, ignara del marito in sovrappeso che, colto da malore, agonizza silenzioso nella stanza accanto. E ancora così, degli schiavi africani vengono ricacciati a frustate dagli aguzzini colonialisti in un macchinario gigantesco che trasformerà la loro agonia in musica per le orecchie dei ricchi, che osservano placidi lo spettacolo sorseggiando un Martini. Le vite e i drammi degli uni scorrono accanto agli altri, che restano impassibili: per ignoranza, indifferenza, impotenza, pudore. Ognuno è ripiegato sulle proprie vicende e ammutolisce di fronte all'Alterità, all'imprevisto, al mistero. Eppure, la rete di relazioni e di compresenze, sulla terra e alla fermata dell'autobus, è fittissima e indissolubile: solo dal bouquet di esperienze diverse, dalla vicinanza, seppure muta, di intere folle, dal collage di sentimenti paralleli e plurali può emergere un qualcosa che non sia diario intimista ma ricco affresco della vita.

giovedì 8 giugno 2017

"The last family": le visioni apocalittiche di Zdzisław Beksiński

Attenzione: ispirato a una storia vera. Questo avviso rende "Ostatnia rodzina" del giovane regista polacco Jan P. Matuszyński ancora più potente e disturbante. È un film così macabro, dalla trama così accanitamente triste, dalle forme così oscuramente grottesche da apparire inverosimile, se non fosse, appunto, lo specchio fedele della vita vera di una vera famiglia.
La famiglia in questione è quella di Zdzisław Beksiński: pittore surrealista nato in Polonia nel 1929, dall'io cupo e labirintico, sadomasochistico, aracnofobico, divorato dalla propria arte e dall'ossessione del reportage. Dal 1977 al 2005, Beksiński registra e archivia la propria vita privata, la storia sua e della sua famiglia, con la passione morbosa di chi questa vita,
Quadro di  Zdzisław Beksiński. Come tutti gli altri,
è senza nome.
forse, preferisce documentarla e osservarla disumanamente come attraverso la lente di un sogno o di un quadro, piuttosto che viverla. Con registratori casalinghi, Beksiński immortala ogni sua conversazione; con telecamere che si succedono secondo gli avanzamenti tecnologici, filma le stanze della casa, la moglie timida, il figlio disturbato, perfino i corpi delle parenti appena defunte prima di chiamare i soccorsi. E mentre ogni dettaglio della vita finisce rubricato e conservato, tramandato ai posteri e destinato ad alimentare la fedele sceneggiatura del film "The last family", la vita stessa scorre in una forma spenta e grigia, tra la tristezza e l'indifferenza.
Il figlio di Beksiński, che lavora in radio e ha tradotto in polacco i Monty Python, sembra incapace di cantare come di sorridere, totalmente impedito all'instaurazione e alla conservazione di relazioni con donne (e, sbotta a un certo punto davanti a una madre sconsolata, non interessato neppure agli uomini). Non ho mai picchiato Tomasz - racconta il pittore ad un amico - per non farne uno psicopatico. Nonostante la sana intenzione, Tomasz è comunque uno psicopatico, e nel corso della pellicola tenta numerosi suicidi. In preda a ripetute crisi distrugge piatti e altri oggetti, impreca, gesticola istericamente. Sembra immerso in un liquido denso e torbido che gli impedisce di nuotare come di tirarsi fuori. Annega lentamente, nello sconforto dei genitori incapaci di salvarlo.
La madre di Tomasz e le due nonne, che incarnano in qualche modo la solidità e la "normalità" della famiglia, non si rivelano sufficienti: per la durata delle rispettive vite e per il carattere e l'azione debole che ne fanno figure defilate.
Su questo panorama di infelicità diffusa, di claustrofobica incomprensione, si staglia la figura di Beksiński, con la fedele telecamera in mano oppure davanti a una delle sue tele. La sua vita e la sua famiglia, come il film che le ritrae, sembrano uno dei suoi tanti quadri. Sono dominate da un forte senso di inadeguatezza rispetto alla vita e alle relazioni umane, da un'angoscia paralizzante, da un presagio macabro e dal peso costante della solitudine.
L'essere umano e le forme in cui questo si dà, vengono deformati dallo sguardo dell'artista, che vede mostruosità e corpi putrescenti, tinte plutonie e sulfuree, orizzonti post-apocalittici abitati da incubi e rovine.
"The last family" è un film angoscioso e cupo, intimistico e pessimistico, autentico come un documentario, invadente come un reality, come lo studio entomologico delle disgraziate dinamiche familiari del protagonista. Allo stesso tempo non è vita ma arte: nel suo essere non più transitorio e particolare, ma duraturo ed universale, nel suo lanciare potente un grido di disperazione per la condizione dell'essere umano alienato e avulso dal mondo, egoticamente chiuso in sé, incapace di darsi agli altri, di trasmettere agli altri calore umano e di riceverne in cambio, di rendere gli altri felici ed esserlo lui stesso.

sabato 12 novembre 2016

"Aelita" di Protazanov: comunisti su Marte!

Mancano tre anni all'apparizione in cartellone di "Metropolis", il kolossal fantascientifico per antonomasia dell'epoca del muto, quando viene proiettato per la prima volta "Aelita". Guardando il film sovietico sulla regina di Marte non può non venire in mente il "capolavoro" di Fritz Lang: per la figura femminile, carismatica e inquietante, per i costumi finto-egizi (o simil "Grande Babilonia"), per la grandiosità della messinscena, per l'angosciosa geometria delle rappresentazioni urbane e degli spigolosi arredi interni.
Sono trascorsi già alcuni anni dalla rivoluzione bolscevica dell'ottobre 1917, eppure "Aelita" non sembra portarne le tracce, salvo per le peculiari (e tecnicamente magistrali) caratteristiche del montaggio. Il film fantascientifico si colloca infatti nel 1924, lo stesso anno de "Il cineocchio" di Vertov e di "Sciopero!" dell'immenso Ėjzenštejn, ma è a entrambi imparagonabile, e difficilmente collocabile nei grandi filoni cinematografici del periodo. Le avanguardie culturali e artistiche sovietiche hanno già intrapreso la rivoluzione cinematografica, formale ma soprattutto teorica, che però non è giunta ancora a completa maturazione. A cavallo tra 1923 e 1924, vengono introdotte in Unione Sovietica le macchina da presa portatili senza treppiede, che spalancano nuovi orizzonti creativi ed esecutivi, mentre è già stato profondamente rinnovato il montaggio, nel suo aspetto tecnico-estetico come nella sua portata filosofico-politica. In "Aelita" vediamo una dimostrazione del "montaggio parallelo a contrasto", lo stesso che in "La fine di San Pietroburgo" di quattro anni più tardi spiega con una serrata alternanza di immagini l'essenza della guerra imperialista: soldati che cadono, azioni che salgono, feriti che strisciano, azionisti che comprano.
La portata innovativa di "Aelita" risiede dunque tutta nella sua struttura tecnica, più che formale, e nella grandiosità dell'apparato visivo "da botteghino" (oltre, banalmente, alla trama: è il primo film fantascientifico prodotto dall'URSS). Ma tolta la qualità materiale del prodotto, e tolto il suo valore storico-documentale, di "Aelita" non resta molto. Siamo lontanissimi dai capolavori del cinema "concettuale" sovietico, dalla teorizzazione del "senso cinematografico del mondo", del "vedo!" innovativo sul piano estetico-formale e sul piano storico-sociale capace di rendere il cinema sovietico una delle quattro più grandi scuole cinematografiche della storia.
Addirittura, a tratti "Aelita" ha un sapore quasi (mi si conceda il termine) "controrivoluzionario": l'immagine risente ancora molto della recitazione teatrale, soprattutto nelle scene al chiuso, che risultano molto cariche sulle espressioni facciali, sull'esasperata gestualità, sul trucco, e restituiscono un sapore espressionista; lo scenario, invece, non si discosta dalle tradizionali caratteristiche prerivoluzionarie. Los, sua moglie e la regina di Marte Aelita (che a tratti si sovrappongono in questa sorta di sogno/incubo "fantasentimentale") sono parte di un cast molto tradizionale, lontano dai "tipi" e dagli eroi-massa tipici del miglior cinema sovietico. D'altronde molto peso è conferito alla trama-narrazione, altro elemento, a rigore, "controrivoluzionario", nella misura in cui corrisponde ad una concezione individualistica del cinema e, soprattutto, alla finalità meramente ricreativa della proiezione. "Aelita" rientra, in una parola, in quel filone di film che oggi domina in maniera pressoché esclusiva (specie nel "mainstream"): quello della "fuga", della distrazione fine a se stessa, dell'assenza di ogni stimolo sociale e ideologico ("assenza" che, come i cinepanettoni ci hanno insegnato, si traduce normalmente nella "presenza" di una veste ideologica conservatrice).


La parentesi prossima al finale (sentimentale) del film, quella in cui un soldato sovietico arrivato sul pianeta rosso cerca di rovesciare la monarchia di Aelita incoraggiando i suoi sudditi a istituire l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche di Marte, non smentisce la lettura "apolitica" del film, poiché risulta non solo forzosa e disomogenea rispetto alla trama, ma prende perfino le sembianze di un semplice spot celebrativo (chissà, forse finalizzato ad evitare le fondate accuse di "vuoto formalismo" che sarebbero potute arrivare).
Con "Aelita", il cinema sovietico si dimostra all'altezza delle più pompose produzioni occidentali, dei canoni tradizionali dei più riusciti "scenari emotivi" e insieme della novità rappresentata dagli elementi fantascientifici (le scenografie e i fondali hanno un sapore perfino futuristico, e richiamano alla memoria certi manifesti della Rosta firmati Majakovskij). Si dimostra, insomma, capace di precorrere i tempi e i modi del cinema, pure nelle sue forme meno "rivoluzionarie" e rappresentative.

martedì 4 ottobre 2016

Produci consuma crepa: la (cosiddetta) vita di un'operaia-consumatrice

18 quadri della vita di una ragazza della fabbrica di conserve: il cortometraggio, diretto dalla regista ungherese Ágnes Kocsis, onestamente non è molto facile da reperire: 22 minuti che devi sudarti, e alla fine ti lasciano svuotato, amaramente divertito e rabbioso. Se riuscite a rimediarlo, guardatelo, ne vale la pena: questo post non ne sarà un riassunto esauriente, né vuole sembrare una vera recensione, ma contiene qualche mia considerazione peregrina.
Il tono emotivo dei 18 quadri non è una disperazione esplicita, ma un senso omogeneo e costante di stordimento, ottusità, carenza di senso. Tale vuoto ideale e vitale (se si prescinde dalla mera sopravvivenza materiale e dagli automatismi corporei quotidiani) si manifesta nell'espressione fenomenologica forse più propria della nostra società: il consumismo. Qui intendiamo il consumismo non come pratica economica o come elemento sociologico e di costume, ma come dimensione esistenziale. Dimensione sulla quale non occorre che io mi soffermi, visto che è giù stata ampiamente espressa in un autentico trattatello filosofico contemporaneo: il brano "Morire" del gruppo punk rock CCCP Fedeli alla linea:

PRODUCI CONSUMA CREPA 
SBATTITI FATTI CREPA 
PRODUCI CONSUMA CREPA CREPA 
RIEMPITI DI BORCHIE SBATTITI FATTI CREPA 
ROMPITI LE PALLE COTONATI I CAPELLI RASATI I CAPELLI 
CREPA CREPA CREPA CREPA

In questo circuito senza senso la protagonista è avviluppata non solo sotto l'aspetto delle risorse economiche e del tempo vitale (a Bologna, se non erro tra la Stazione ferroviaria e il quartiere Bolognina, un graffito fa notare che "Lavori per comprarti la macchina per andare a lavoro") ma, tristemente fino a toccare i toni del tragico, anche sotto l'aspetto soggettivo-emozionale. L'esperienza quotidiana del consumismo è quella che induce il soggetto consumatore a percepirsi sì ancora come progettualità, ma come progettualità a brevissimo termine, se non a vuoto. Lo svuotamento del senso è totale nella ripetizione, virtualmente all'infinito, di questo ciclo formale. La protagonista, una giovane operaia, acquista e mangia yogurt su yogurt, e non perché le piacciano particolarmente o abbia carenze di calcio, ma per una raccolta punti, ossia per vincere un premio che non le serve (e che, una volta ricevuto, saluterà con un «Che figata! Cos'è?»).


Da qualche parte, nella sezione de Il Capitale dedicata alla forma del valore, il bonario sociologo barbuto spiega i meccanismi basilari dello scambio e i concetti di valore d'uso e valore di scambio. Il valore d'uso del pane è il mio potermene nutrire, il valore d'uso di un maglione è il mio poterlo indossare per ripararmi dal freddo. Semplificando, si può in questo modo descrivere uno scambio tra valori d'uso, mediato dal denaro: ho molto pane, ma niente con cui scaldarmi; vendo parte del pane, ne ottengo del denaro (ossia quell'unica merce il cui valore d'uso è l'essere scambiabile con qualsiasi altra merce) e con questo compro un maglione. Ho ceduto un valore d'uso per averne un altro: lo scambio è stato finalizzato a soddisfare dei miei bisogni, e il denaro non è stato per me che il mezzo atto a tale scopo. Nel ribaltamento di questo schema, ossia nella sostituzione dei mezzi con i fini, si colloca la trasformazione dell'uomo in capitalista: possiedo del denaro, e voglio che figli altro denaro. Allora, acquisterò una merce il cui valore d'uso non mi serve, né mi importa, e la rivenderò a chi ne ha bisogno per averne in cambio altro denaro, che diventa capitale in questo processo di accumulazione estraneo ai bisogni reali e umani.
Possiamo sperimentare un simile capovolgimento paradigmatico, sostituendo i fini con i mezzi nell'osservazione delle attività, non solo umane ma anche macchinali, di produzione e consumo. Mi vengono in mente un tosaerba o un motozappa, o più genericamente un'automobile o una macchina. Considerandoli come "aiutanti" in alcune pratiche umane, emerge innanzitutto la loro natura di strumenti. Loro proprio è il consumo preventivo (o, dal punto di vista del loro utilizzatore umano, l'investimento) di carburante a fronte di un'attività da svolgere, di una "produzione", di un lucro (che sperabilmente coprirà tale spesa anticipata e la renderà conveniente). Questa coniugazione di Consumo-Produzione è l'unica possibile per gli strumenti inanimati del nostro lavoro, in quanto privi di appetiti, di pulsioni desideranti, perfino di "bisogni" materiali (carburante e manutenzione, come l'ammortamento del materiale stesso, non sono certo "richiesti" dal macchinario, ma sono spesa implicita nel processo produttivo).
Ora, ribaltando l'endiadi, dovremmo trovarci di fronte ad un'agenda più propriamente umana: Produzione-Consumo. L'idea è che il lavoro, liberamente intrapreso ed eseguito secondo le proprie esigenze e nella quantità necessaria e sufficiente a soddisfarle, sia solo un mezzo (indiretto, cioè socialmente mediato) finalizzato al consumo. Un "consumo" composito, poiché, a differenza del tosaerba e dei proletari descritti da Engels nel 1845, il contemporaneo operaio-consumatore non vive solo del carburante per sopravvivere e lavorare, ma anche di una quantità di cose superflue, soddisfacenti bisogni secondari o perfino pseudo-bisogni, bisogni indotti o immaginari, i quali non rimandano ad alcuna esigenza umana salvo quella, socialmente determinata, dell'"apparenza".
Alcune considerazioni inducono a osservare come tale paradigma del lavoro libero e scelto, come mezzo di soddisfazione dei bisogni (appunto, Produzione-Consumo), sia più accidentale che essenziale (o perfino più ideale che reale). La prima considerazione è immediatamente conseguente la definizione dei "bisogni indotti": indotti da chi, e a che fine?
L'introduzione di bisogni inesistenti, ma che pure bisogna soddisfare se non si vuol vivere a margine della società, allunga a dismisura il tempo del lavoro necessario: si è costretti a lavorare più del necessario se ci si vuole permettere il superfluo. "Superfluo" che tale solo di rado può essere considerato, a meno che non si sia pronti a essere tacciati di eccentricità (o di comportamenti antisociali).
L'immissione sul mercato di bisogni ulteriori richiede l'istituzione di nuovi processi di produzione che li sorreggano e rendano soddisfabili. Molti bisogni secondari non servono che a innescare nuove produzioni, a concimare nuovi rami del mercato. Qui si vede come il ribaltamento (umano) di Consumo-Produzione in Produzione-Consumo sia fittizio: il consumo è finalizzato ad altra produzione, la quale sottende nuovi consumi e nuove produzioni, e stringe sempre più le spire di un mostro mangiatempo, che alla fine rivela come la condizione dell'operaio-consumatore non sia, se non illusoriamente, diversa da quella del tosaerba. Resta vera per l'essere umano la sequenza Consumo-Produzione, e lo sventolare del consumo al termine della sequenza è dovuto semplicemente al fatto che l'essere umano, a differenza degli strumenti inanimati, ha bisogno di un fine, seppure fittizio, a cui tendere. In questo senso, propriamente, il paradigma consumistico è disumanizzante: degradante dal punto di vista ideale, nel suo porre come fine degno di essere conseguito nella vita sempre un qualcosa che possa essere acquistato (e sostituito con un modello più nuovo secondo i tempi dell'obsolescenza programmata), sia dal punto di vista "materiale", nel suo ridurre di fatto l'essere umano a ingranaggio, in niente diverso dall'ingranaggio, se non nel necessitare, all'avviamento, un piccolo surplus di persuasione (a cui l'ideologia dominante, mediata da montagne di trash televisivo e da propaganda cinematografica, contribuisce ampiamente).
In tutto questo, si verifica un altro ribaltamento, il più distruttivo e angosciante: quello del lavoro in schiavitù. Il lavoro inteso in senso hegeliano, come chiave del riconoscimento e dell'affermazione di sé, diventa una trappola, la maledizione veterotestamentaria lanciata sull'umanità dal Dio-Denaro. Il lavoro è esperito come prigionia, come una macchina produttrice di sudditanza e insoddisfazione, che fagocita più tempo di quello che basterebbe per sopravvivere e snatura quel poco che resta libero, riempiendolo di svaghi socialmente suggeriti, a cui fin da piccoli si è addestrati, e che servono più a distrarre dalla vita che a riempire la vita. La protagonista dei 18 quadri e la sua coinquilina, dopo il lavoro, si dedicano al divertimento (e alla ginnastica davanti alla televisione): a qualcosa che non fa sentire meglio, che non indica alcuna alternativa alla mostruosità della vita dell'operaio-consumatore. Ma non è detto che l'alternativa non esista. Forse alludono a questo le preoccupazioni della protagonista quando Paloma, la sua gatta, cerca di sgattaiolare dal piccolo e squallido appartamento: «Non possiamo farla uscire, o vedrà quanto è bello fuori e non vorrà tornare.»

domenica 3 luglio 2016

Reinventare la vita. "Pierrot le fou" di Jean-Luc Godard

«Ci fu la civiltà ateniese, il Rinascimento... e ora stiamo entrando nella civiltà del culo

"Il bandito delle ore undici", titolo originale "Pierrot le fou", mi ha fatto venire in mente l'episodio diretto da Godard due anni prima nel lavoro collettivo "Ro.Go.Pa.G". Tale episodio, il secondo (la sillaba "Go" nel titolo, dopo Rossellini e prima di Pasolini e Gregoretti), si intitola "Il nuovo mondo", e mostra la caduta dell'umanità in un delirio post-atomico. La follia (come illogicità, ma anche come a-logicità, come perdita del senso, come fissazione in una realtà priva di un senso autentico) mi pare la materia prima di entrambi, il corto in "Ro.Go.Pa.G" e "Pierrot le fou". E in entrambi, la follia non è, per così dire, esportata dal singolo nella società, ma da lui importata: non è il malessere psichico individuale a trasformare la società in un manicomio, ma è la società alienante (nel senso economico e anche psichiatrico del termine) a frammentare l'io dei singoli, a distorcerlo, a spingere i singoli al rifiuto di se stessi, al non-riconoscimento di se stessi, perfino all'autodistruzione. E, in entrambi i casi, la società ci viene mostrata per ciò che è: non qualcosa di "impacchettato", bell'e pronto, quasi il risultato di un disegno divino, ma qualcosa di storicamente ben determinato e continuamente auto-determinantesi. Non a caso, lo sfondo "narrativo" delle due storie è rappresentato da una crisi di tipo politico (che significa anche storico): la fobia della bomba atomica in "Il mondo nuovo" (fobia che incise in maniera davvero molto pronunciata nella produzione culturale degli anni Cinquanta e Sessanta, se ne portano le tracce l'opera di Italo Calvino, di Lucio Dalla, dello stesso Godard e di molti altri artisti di tutt'Europa) e la Guerra fredda in "Pierrot le fou". Proprio da tale clima politico, quello della contrapposizione tra i "due blocchi", è indispensabile partire per poter collocare la storia di Pierrot/Ferdinand nel suo tempo.


Ho usato due nomi per designare lo stesso personaggio, perché esso stesso, pur interpretato da un monolitico e uguale a se stesso (al punto da "continuare" con questa interpretazione il personaggio interpretato cinque anni prima in "Fino all'ultimo respiro") Jean Paul Belmondo, ha un'identità frammentata. La sua storia inizia all'interno del suo ambiente borghese, tra una mogliettina antipatica che veste biancheria sfacciata (di marca "Scandale") e conoscenti altolocati. Il party a cui assistiamo mostra una borghesia, intesa solo come "punta di diamante", rappresentante perfetta della società tutta, totalmente intrisa di capitalismo. Il consumismo, la mentalità di stampo liberista, l'intossicazione pubblicitaria sostituiscono totalmente qualunque relazione umana. Sotto filtri stranianti (rosso, blu, verde, giallo, che coprono ogni altro colore in una piattezza innaturale), uomini e donne dialogano soltanto a colpi di slogan pubblicitari. «La mia pettinatura si mantiene grazie ad una nuvola di Elnett», pronuncia una donna, e gli uomini rispondono delle prestazioni di un'automobile. Pur presenziando in tanti nella stessa stanza, tutti i soggetti coinvolti sono assolutamente isolati gli uni dagli altri, in una specie di autismo che fa quasi "impazzire" il protagonista Ferdinand (che lascia la festa a metà, torna a casa e fugge con la baby sitter, Marianne, con cui aveva avuto una relazione anni prima). Prima di arrendersi all'inautenticità sistematica che lo spinge alla fuga, però, Ferdinand lancia un grido di aiuto: mi sento diviso, dice, come se occhi e orecchie fossero macchine distinte, funzionante ognuna per suo conto.
Quella che il protagonista denuncia è l'assoluta instabilità dell'io, la carenza di una individualità formata, di una vita integrale, reale, pienamente esistente. Lui e tutti gli altri non possono che attraversare la vita «come spiriti»«attraverso uno specchio». Fugge allora con Marianne, si traduce in un bandito, trasforma la propria quotidianità in un noir, soltanto nel disperato tentativo di reinventare la vita, reinventare l'amore. E anche l'amore costruito su questo io fragile, etereo, inesistente, è destinato ad essere effimero. Il discorso già sartriano e merleau-pontiano sull'amore, sulla sua costituzionale precarietà, si innesta qui sulla denuncia di una società spersonalizzante.
Questa personalità ectoplasmatica, questa vita fragile e scissa, questo stesso amore non rassicurante non soddisfano i protagonisti, che come ultimo tentativo propongono di andare a vivere su un'isola deserta, dove il marcio della società non possa ferirli, salvo poi la presenza di un ambiente isolano assurdamente antropizzato (il trattore, la casa, gli animali addomesticati).

- Cosa faremo?
- Niente, esisteremo.

La tentazione è quella di affidarsi alla bontà della natura, ad una sorta di stadio primordiale dell'umanità, nella ricerca della pienezza dell'esistenza fine a se stessa. È l'illusione dell'"ecovillaggio", che crede di sanare i mali della civiltà ritirandosi dalla civiltà stessa, in un tentativo di vita astorica e per questo destinata a non esistere davvero, se non nelle buone intenzioni dei suoi attori.
Ferdinand, che viene chiamato dalla ragazza Pierrot e Paul, e che a sua volta la chiama ora Marianne ora Virginia, tenta di essere un nuovo Adamo e di riguadagnare così la propria identità, di risanare quel senso propriocettivo di cui la società lo ha mutilato, ma non ci riuscirà. L'epilogo sarà l'implosione dell'essere, la rinuncia totale all'esistenza, che si è scontrato prima con la ricerca del senso, poi con la fuga dal mondo, poi con la delusione amorosa come prova dell'incostanza dell'umanità. Ferdinand/Pierrot, si toglie la vita (nonostante un ultimo, ma tardivo, ripensamento) ma lo fa in un modo significativo: dopo essersi dipinto il viso di blu, si avvolge il capo nell'esplosivo. Prima si applica una maschera, si dà un colore, una definizione, e poi fa saltare tutto, distrugge completamente quel volto che non gli appartiene, che si riferisce ad un'identità mai esistita davvero.
Scrivevo prima della Guerra fredda, del clima di brutale "dualismo" che trasmette ai protagonisti quella frattura interiore che si rivela insanabile, sia nei termini di una riconciliazione sia in quelli di una "fuga", di un disinteressamento. Pierrot/Ferdinand, guardando la luna con Marianne, le indica un omino, l'unico abitante della luna. Racconta dell'assalto allo spazio e dell'incontro dell'omino lunare con gli uomini. Leonov, un cosmonauta sovietico, cerca di inculcare l'opera di Lenin nell'alieno, che si dà alla fuga. Mentre White, l'americano, agguanta l'abitante lunare, gli ficca in gola una bottiglia di Coca-Cola e pretende anche di essere ringraziato. L'epilogo vede semplicemente "litigare" americani e russi, così come "litigano" le due e più anime dei protagonisti, divisi tra la vita che sono costretti a vivere (che li vuole meri consumatori e divoratori di pubblicità della "civiltà del culo" capitalista) e quella che desiderano vivere (una vita pienamente umana), senza sapere bene come. La crisi della società società del benessere, con i suoi stordimenti e le sue manie, trascina nella crisi anche i soggetti, che si trovano disarmati e perduti in questa loro folle e disperata ricerca della libertà, dell'amore, della vita vera.

martedì 26 aprile 2016

L’incubo di un re detronizzato. "La città delle donne" di Federico Fellini

Uscito nelle sale nel 1980, La città delle donne suscitò molte polemiche per il marcato antifemminismo che caratterizza la pellicola. Il protagonista, Snàporaz, interpretato da Marcello Mastroianni, incontra in treno una donna, la segue nel tentativo di possederla, e si ritrova in un covo di femministe che lo tormentano, lo umiliano, lo mettono sotto processo con l’accusa di essere un Maschio. Il ritratto delle donne che lottano per la propria emancipazione è, in pieno stile felliniano, grottesco. A queste donne aggressive e violente, il regista contrappone grandi seni e grandi sederi, morbidi rifugi per un perseguitato.
Sono passati trentasei anni da allora, i movimenti femministi sono ripiegati su se stessi e forse, nell’immaginario collettivo, è proprio la visione felliniana ad essere diventata egemone: le femministe erano una banda di scalmanate che non facevano altro che urlare. Erano delle estremiste, dei maschi al contrario oppure donne che avevano “imitato” ed ereditato, nel loro processo di emancipazione, il peggio del maschio. Ma in questo film c’è di più. Nel viaggio che il regista compie all’interno della psiche di un tipico “macho italiano” si dispiega un rapporto complesso tra gli uomini e le donne che ci dice molto dei timori, delle debolezze e delle insicurezze che si celano dietro il cinico sorrisetto da seduttore del Maschio.
Cominciamo allora a seguire il percorso disegnato da Fellini, con la potente fantasia e immaginazione che caratterizza la sua arte. Snàporaz è in treno. Vede una bella donna che siede di fronte a lui: lei lo guarda ammiccante, lo provoca e fa in modo che lui la segua. E lui, con un’espressione eccitata e inebetita – il ridicolo non caratterizza soltanto i personaggi femminili del film – la insegue. Scende dal treno, attraversa un boschetto e si ritrova in un albergo pieno di donne. Snàporaz si aggira tra le donne divertito, con un sorriso che è tra lo stupore, la distaccata ironia e la tenerezza paternalistica. Ma questa spavalderia dura poco: la donna che lui aveva seguito, cercando di sedurla con pose ridicole e infantili, lo smaschera davanti a tutte. Pronuncia un’invettiva che metterà quest’uomo all’angolo, che lo costringerà a fuggire. È l’inizio dell’incubo del “califfo” ormai detronizzato.
 
«Gli occhi di quell’uomo che circola fra di noi, con la sua faccia fintamente rispettosa e che dice che vuole informarsi, conoscerci meglio, perché solo conoscendoci meglio potrà cambiare il suo rapporto con noi e  che, di tutte le sue false e ipocrite giustificazioni, questa è la più turpe… Gli occhi di quest’uomo, dicevo, sono gli occhi del maschio di sempre. Che deformano tutto ciò che vedono nello specchio della derisione e della beffa. Il mascalzone è sempre lo stesso. Noi donne siamo solo dei pretesti per permettergli di raccontare, ancora una volta, il suo bestiario, il suo circo, il suo avanspettacolo nevrotico, e noi lì a far da pagliacce, da bayadère, da marziane. A far spettacolo per lui con la nostra passione e la nostra sofferenza. Questo lugubre, cupo, stremato califfo, sappia una volta per tutte che non siamo marziane! Vogliamo abitare la terra, questa terra, ma non più per far da concime, come avviene da quattromila anni!»

L’incubo che perseguita il protagonista di questa storia è la concretizzazione della paura più profonda che affligge l’uomo: le donne contestano radicalmente l’egemonia maschile, creando spazi propri di vita, di aggregazione, di ironia. Creano un proprio linguaggio che gli uomini non riescono a comprendere, un mondo in cui gli uomini non sono presi in considerazione se non come i vecchi padroni dai quali si sono definitivamente liberate. In questo processo di creazione di modi di vita alternativi al dominio maschile, il Maschio vede sgretolarsi il terreno sotto i suoi piedi, si vede spodestato dal proprio regno che diventa terra inospitale dalla quale fuggire. L’intera vicenda si dispiega come fuga da questo assurdo mondo invaso dalle “marziane”. Snàporaz troverà rifugio nella casa di un uomo, il Dr. Xavier Katzone, che cerca di resistere all’occupazione militare delle donne: la sua casa raccoglie una immensa collezione di ritratti femminili che emettono gemiti di piacere. Sono tutte le sue amanti, collezionate nel corso della sua vita da grande seduttore. Questa figura grottesca, assurda e caricaturale rappresenta un’epoca che ormai è stata superata, malgrado tutti i tentativi di resistere da parte degli uomini.
Nel corso della sua fuga, Snàporaz avrà un dialogo con sua moglie in cui lei lo metterà di fronte alla sua indifferenza, alla sua assenza, alla sua totale mancanza di considerazione e di rispetto. Lui comprenderà le ragioni di lei, ma sarà troppo tardi: resterà in un angolo da solo, mentre lei ballerà sorridente con una donna.
Nell’incubo felliniano le donne assumono un aspetto sempre più ambiguo, incomprensibile, dionisiaco:  hanno un mondo inaccessibile all’uomo, fatto di mistero e di equivocità. Emblematica è la scena in cui Mastroianni, nel tentativo di fuga, accetta un passaggio da alcune scalmanate che urlano, ridono e ascoltano musica disco. Il loro aspetto è inquietante, sembrano delle possedute. La visione che Fellini dà di queste donne si avvicina ai riti dionisiaci descritti nelle Baccanti di Euripide, riti riservati alle sole donne, il cui accesso era severamente vietato agli uomini. Riti in cui le donne esprimono la propria sessualità e interiorità liberata da tutte le regole imposte dalla razionalità maschile. La donna portatrice di una dimensione “demoniaca” irriducibile al dominio dell’uomo, che mette in crisi l’ordine costituito, la regolarità geometrica e gerarchica della società costruita secondo le leggi del Maschio. Una visione della donna che da sempre è radicata nell’uomo e che si è concretizzata in molte forme, dalla persecuzione delle “streghe” – uno dei motti delle femministe era proprio “Maschi tremate, le streghe son tornate!” – alla chiusura delle donne in casa, isolate nelle proprie cucine, alla violenza psicologica e fisica, fino alla cinica derisione dell’uomo contemporaneo di fronte al tentativo delle donne di creare un mondo che sia il proprio, creato, pensato e vissuto dalle donne senza il filtro e la coercizione della cultura fallocentrica.
Ciò che, a mio avviso, emerge da questo film non è tanto il desiderio di difendere un modello maschile che risulta, nella rappresentazione del regista, ormai indifendibile, né criticare da un punto di vista politico i movimenti femministi. Questa pellicola sembra esprimere una grande nostalgia, espressa in maniera geniale in una delle ultime scene del film, in cui Mastroianni è su uno scivolo nel quale compaiono le donne della sua infanzia, tutte procaci e materne: la nostalgia di un’infanzia perduta, di mondo che non c’è più, in cui tutte le donne erano protese a soddisfare l’ego del maschio, sempre amato e coccolato. La nostalgia di un tempo perduto e irrecuperabile, in cui le donne guardavano agli uomini con ammirazione, premura, affetto. Ora le donne guardano il maschio con disprezzo e ostilità, non sopportano più il suo dominio e se ne vogliono liberare; dal canto suo, il maschio si sente escluso, inutile, si arma di ricordi e vittimismo per potersi difendere. Una dialettica servo-padrone in cui il padrone scopre di essere sempre stato dipendente dal servo e rimpiange i fasti di un regno che non c’è più.

                                                                                                                                                                 

domenica 7 febbraio 2016

Uccellacci e Uccellini, Pier Paolo Pasolini

Padre e figlio camminano per le vie della periferia romana, apparentemente senza una meta. Durante il loro cammino incontrano un personaggio particolare, un piccolo corvo che dice di abitare nel paese di Ideologia, nella città del futuro, la Capitale, in via Karl Marx al numero settanta volte sette, di essere figlio di Dubbio e Coscienza. I due popolani gli rispondono ironicamente: noi abitiamo al Borgo della Monezza, in via Morti de Fame, numero 23. Il corvo chiede loro il permesso di poter raccontare una storia, una storia di uccellacci ed uccellini.

Ai tempi di frate Francesco, un gruppo di monaci da lui guidati è in un prato a meditare e pregare.  Francesco ordina a due monaci (interpretati da Totò e Ninetto Davoli) di andare a predicare il messaggio evangelico agli uccelli. Bisogna convertire prima i falchi e poi i passerotti. I due monaci si incamminano giungendo al covo dei falchi. Fra’ Ciccillo (Totò) si inginocchia e comincia a pregare. Resta fermo lì per mesi mesi, passano le stagioni, arriva il caldo, poi l’inverno, poi di nuovo la primavera. Alla fine riesce a trovare il linguaggio con il quale comunicare agli uccellacci l’amore di Dio. Questi accolgono con entusiasmo il messaggio evangelico, così i due monaci possono proseguire nella loro missione.
Giunti presso un vecchio rudere abitato da Sora Gramigna, Sora Grifagna e Sora Migragna, i monaci incontrano i passerotti. Totò si inginocchia, comincia a pregare e cerca il modo di comunicare con gli uccellini. Anche in questo caso il tempo passa, attorno a Fra’ Ciccillo si crea un luogo di culto tra il sacro e il profano, con altari, ceri, mercatini, spettacoli di artisti di strada. Il monaco si alza e distrugge il mercato, seguendo l’esempio di Gesù. Dopo mesi e mesi di preghiera, il Fra' Ciccillo finalmente comprende che i passerotti non comunicano cinguettando ma saltellando. Così apprende il loro linguaggio e comunica l’amore di Dio. I passerotti accolgono gioiosamente il messaggio cristiano.
Compiuta la loro missione, i due monaci sono pronti a tornare dal loro maestro, ma assistono ad un episodio sconvolgente: un uccellaccio attacca e ammazza un uccellino. Fra’ Ciccillo torna sconfortato da Frate Francesco, e gli riporta l’episodio. Gli uccellini amano Dio, ed anche gli uccellacci, ma non si amano tra di loro. Cosa possiamo fare, se c’è la classe dei falchi e quella dei passerotti, e se queste non possono andare d’accordo? San Francesco risponde che “Tutto ce poi fa’”:

Bisogna cambiarlo questo mondo. Fra’ Ciccillo è questo che non avete capito. Un giorno verrà un uomo dagli occhi azzurri e dirà: "Sappiamo che la giustizia è progressiva e sappiamo che man mano che progredisce la società, si sveglia la coscienza della sua imperfetta composizione e vengono alla luce le disuguaglianze stridenti e imploranti che affliggono l’umanità." Non è forse questa avvertenza, della disuguaglianza fra classe e classe, fra nazione e nazione, la più grave minaccia della pace? Andate e ricominciate tutto daccapo. In lode del signore.

La favola raccontata dal Corvo, un “intellettuale di sinistra prima della morte di Togliatti”, si conclude con i due frati che tornano indietro a predicare la pace tra la classe dei falchi e quella dei passerotti.

Ninetto, Totò e il Corvo proseguono nel loro cammino insensato, in una torrida giornata d’estate, nelle vie della triste e desolata periferia romana. Un deserto fatto di costruzioni fatiscenti, di piccoli e tristi bar, popolato da personaggi grotteschi: una ragazza che indossa un costume da angelo per una recita, un barista brutto fino alla crudeltà con dei capelli assurdi. Ragazzi che si esercitano a ballare al ritmo della tipica musica anni ’60, composta da Ennio Morricone, prendendo la “picciolata” al juke-box. Le vie del quartiere sono intitolate agli eroi locali: Via Benito la Lacrima (disoccupato), Via Antonio Mangiapasta (scopino), Via Lillo Strappalenzola (scappato di casa a 12 anni).

 In queste vie si consuma una storia di uccellacci ed uccellini. Il cammino senza senso di Totò e Ninetto, assume presto la forma chiara e distinta, con tutta la sua potenza favolistica e metaforica, dell’oppressione e dell’abuso, del dominio dell’uomo sull’uomo. I due innocenti popolani giungono in un casolare diroccato, fatiscente, in cui c’è una donna che cucina un nido d’uccelli per il marito, ridotto ad uno spettro scheletrico, mentre continua a gridare ai propri figli che sono a letto “Dormite, è ancora notte!” da ben tre giorni. Cerca di impedire loro di svegliarsi, perché non sa cosa come sfamarli. I due girovaghi rivendicano severamente il pagamento di alcuni debiti, cui i poveri passerotti non possono adempiere. Ma durante il loro cammino, la posizione degli uccellacci si rovescerà in quella di uccellini: si recheranno da un ricco signore, in cui si tiene una festa di “dentisti dantisti”, per contrattare il pagamento di alcuni debiti. Saranno assaliti da cani inferociti, gettati per terra e minacciati.

Questa è la storia che si ripete da secoli nelle periferie dimenticate, dall’epoca di San Francesco a quella del Corvo, intellettuale di sinistra che assiste ai funerali di Togliatti e all’indebolimento della presa del marxismo sulle masse. Assiste alla sclerotizzazione di un’ideologia che non riesce a farsi comprendere da quelli che dovrebbero essere i protagonisti del progetto politico che si prospetta attraverso questa narrazione. Il piccolo Corvo è imbarazzato nel vedere i soprusi che le classi povere fanno a quelle ancora più povere e nell’assistere al servilismo che queste stesse classi riservano ai potenti e ai ricchi. Durante il loro cammino, Totò dice che soltanto un ricco muore davvero. Quando un ricco muore, si crea un vuoto che fa avvertire agli altri la sua assenza. I segni della sua morte sono evidenti. Questo perché il ricco morendo ha perso qualcosa: gli è stata tolta la vita, ma la vita gli aveva dato delle cose, a lui è stato concesso il lusso di vivere. Quando muore un povero, invece, nessuno si accorge che è morto, perché egli in realtà non ha mai vissuto, è semplicemente passato “da una morte ad un’altra morte”.  
Mettersi in ginocchio di fronte a queste masse abbandonate a se stesse e cercare un linguaggio per poter comunicare l’amore tra l’uomo e l’uomo, la solidarietà, la cooperazione. Cercare una parola che unisca tra loro le classi subalterne, che le inciti all’emancipazione. L’intellettuale non parla il linguaggio delle masse, non le comprende e non è compreso. La predicazione dell’intellettuale di sinistra è un buco nell’acqua, un’eco che si scontra con uno spazio vuoto. L’intellettuale parla, parla, parla e nel frattempo il popolo, che guarda a lui con un misto di ingenua curiosità e atavico scetticismo, continua a menare la propria vita, che ostinatamente si afferma sempre allo stesso modo, come morte dell’altro, del più debole. In questa ostinazione sta l’innocenza morale del popolo pasoliniano: un’innocenza infantile, al di là del bene e del male. Se l’intellettuale segue le ragioni della coscienza, abitando l’iperuranio dell’Ideologia, il popolo segue le ragioni della vita, sorta con la sua incomprensibile testardaggine nel Borgo della Monezza, in via Morto de Fame. Quale linguaggio, azione, potrà unire questi due pianeti che seguono vie parallele che sembrano incontrarsi soltanto per sbaglio, in epoche della storia sempre troppo brevi? Perché questo sodalizio tra coscienza della miseria e miseria stessa sembra essere puntualmente fallimentare?
“Che ce possiamo fa’ se la classe dei corvi e quella dei passeretti non possono andare d’accordo?”.  “Tutto ce poi fa’”, risponde frate Francesco.
Durante il cammino del Corvo con i due protagonisti di questa favola densa di significato, che Pasolini introduce con la didascalia “Dove va l’umanità? Boh!”, il motto di Francesco sembra capovolgersi. Alla fine del film sembra che l’intellettuale non possa farci proprio nulla. Non ha la Verità, ha più domande che risposte. “Dove andate?”, chiede il Corvo a Totò e Ninetto, “Laggiù”, gli rispondono. “Ma dove? A destra, a sinistra, dritto?”, e loro, tautologici, “Laggiù”. Il corvo non sa dove stia andando la massa, e lo chiede a due emblematici esponenti, ma neanche loro lo sanno. Vanno laggiù, e questo è sufficiente ad intraprendere il cammino della vita, della storia. L’intellettuale fa loro delle prediche, racconta delle parabole, e il popolo dapprima lo ascolta, ma alla fine non ne può più.
Estenuati dalla logorrea del piccolo Corvo, dopo essere stati con una prostituta, i due protagonisti decidono di mangiarlo. Dell’intellettuale di sinistra prima della morte di Togliatti restano soltanto i resti bruciacchiati, mentre Totò e Ninetto, sazi, contenti ed innocenti, tornano allegramente a casa.


domenica 1 novembre 2015

Una piccola storia tra il bene e il male: "Varde" di Hanne Larsen

Varde: Google vi dirà che è un comune danese sui ventimila abitanti, un'agenzia di consulenze per investimenti con sede nel Minnesota e soprattutto una serie dell'Ikea fatta di moduli indipendenti per una cucina facile da rinnovare.
Per vie traverse e in modo totalmente casuale, ho scoperto che Varde è anche il titolo di un cortometraggio norvegese cupo e veridico, dai toni vocativi e quasi interrogativi. Una buona sinossi che ricavo dal sito dove si può vederlo in streaming conclude affermando che Varde porta a riflettere sul significato dell'amicizia. Io credo che questo corto si spinga ancora oltre, fino a interrogare l'anima più intima dell'uomo, dove si radica la scelta tra il bene e il male, insieme alla consapevolezza di compiere l'uno o l'altro.
Johan, il piccolo protagonista, è un bambino né buono né cattivo, o meglio entrambe le cose. È amico di Stig, un bambino apparentemente più piccolo, chiaramente lo sfigato della scuola: indifeso, dimesso e remissivo. Durante l'ora di educazione fisica, la ripartizione dei bambini in due squadre chiarisce subito il suo ruolo nella gerarchia:

- Potete prendere Stig.
- Non lo vogliamo.

Questo è il laconico scambio di battute tra i capitani. Alla fine, il piccolo Stig viene appioppato alla squadra di Johan, perché (questa la motivazione) Johan è suo amico, evidentemente l'unico. Uno dei bulli della classe, ragazzino più alto e belloccio, attacca Stig con una pallonata in faccia. Il professore rientra e vedendo il sangue di Stig chiede chi lo abbia colpito. A intervenire è Johan, e la scelta tra bene e male è già compiuta: è stato un incidente, non si sa chi sia stato, stavamo giocando. Stig ingoia l'intervento omertoso senza serbare rancore, come se in amicizia tutto fosse permesso e perdonabile.
All'uscita Johan viene avvicinato dai due bulli, la cui amicizia brama anche al costo di rinnegare l'amico impopolare, di cui prova vergogna: loro si congratulano con lui per non aver fatto la spia, lui di rimando nega di essere davvero amico di Stig. Johan viene coinvolto da due nei loro giochi, ma raggela all'avvicinarsi di Stig. Quest'ultimo spiega a Johan
che sta organizzando la propria festa di compleanno, ma avendo poco spazio in casa è costretto a invitare solo i suoi migliori amici: «Tu ed Elin della 5B».
Johan sente su di sé gli occhi dei due nuovi amici, che gli costano molto ma il cui prezzo decide di sostenere, immolando il devoto ed innocente Stig: andrà al suo compleanno, ma a patto che si cali in una botola. Nonostante il timore e il freddo, Stig accoglie la sfida senza tentennare e senza immaginarne l'esito.
Tutto questo accade nei primi tre minuti e mezzo: la tragedia è già compiuta, e il resto del corto mostra l'aspra lotta di Johan con se stesso, il dilaniarsi colpevole della sua coscienza, la ricerca della forza d'animo e della lealtà necessari a porre rimedio in qualche modo a quanto di crudele è stato compiuto.
La forza straordinaria di questo corto sta nella sconvolgente verosimiglianza del comportamento infantile. Mi viene in mente Caos calmo, con la ragazzina che pronuncia nel finale un assurdo: «Lo sai come sono crudeli i bambini!». Nel mostrare questa crudeltà, totale perché superficiale, spietata perché irriflessiva, Varde è infinitamente più sottile. Il gesto crudele viene compiuto istintivamente, in seguito ad un calcolo istantaneo dei costi e dei benefici, pensando al piccolo Stig non come ad un essere capace di soffrire o degno di essere rispettato, ma come ad una merce alienabile e sacrificabile all'idolo di un'amicizia più ambita. Ad acuire il carattere tragico di questo corto è la sproporzione dei rapporti all'interno del "triangolo" rispetto all'autenticità dell'amicizia: Stig vuole a Johan un bene incondizionato, gli è devoto e in certa misura pare dipendente da lui, al punto di subirne i torti senza ribellione e senza rancore; i due bulli concedono graziosamente a Johan una manifestazione di cameratismo e un approccio amichevole, disdegnando Stig. Johan si colloca in posizione mediana tra il massimo desideratum (la popolarità rappresentata dai due vincenti) e l'infimo grado relazionale, quello che con un'analogia religiosa definisco credente o adoratore (la devozione totale di Stig, la sua sottomissione all'oggetto del suo sentimento amichevole, senza pretesa di una mutua adorazione). 
Johan è posto evidentemente dinanzi ad una scelta di natura morale, piuttosto che sentimentale: si tratta di ricambiare (se non l'amicizia/amore, che non è oggetto di scelta) la lealtà di Stig, in qualche modo ricompensandolo, oppure di opporsi a lui in forma ostile. Stig sembra incapace, dal canto suo, di manifestare ostilità verso Johan o altri, dopo la pallonata in volto porge l'altra guancia a Johan e ai bulli accettando l'umiliazione e il pericolo di calarsi nella botola. È un piccolo Cristo, con poco scrupolo indirizzato dagli altri verso l'estremo sacrificio. Facile è allora l'identificazione dei due bulli con le autorità (insieme carnefici e pilatesche) romane e del sinedrio, mente a Johan tocca il ruolo (appunto mediano) di Pietro, per altro recitato in tutte le sue fasi, fino al fatidico canto del gallo che lo riporta alla sua colpa, commessa per un vantaggio immediato ma sleale e sproporzionato al sacrificio, al pentimento e poi alla riparazione.
Credo che l'accostamento evangelico permetta di cogliere al meglio lo spessore morale di Varde: la scelta di Johan non è semplicemente quella tra due amicizie, ma quella tra due condotte. Conseguire il bene/astenersi dal commettere il male anche se può rendere impopolari o far sfumare l'occasione di realizzare altri interessi? O piegarsi al compromesso morale, danneggiando una persona (o una causa) in nome di vantaggi immediati ma magari effimeri?
Questa che ho voluto offrire è la mia lettura di un cortometraggio bello sotto tutti i punti di vista, compreso quello tecnico, di cui non posso che consigliare la visione (ehm... lo trovate su cb01!).

sabato 8 agosto 2015

La storia della principessa splendente: racconto tradizionale, soggettività e libertà

La protagonista non viene mai chiamata per nome: i genitori adottivi, gli amici della breve infanzia in montagna, i pretendenti, tutti i personaggi la chiamano Gemma di bambù, Principessa o Principessa Splendente. Però sappiamo che si tratta di Kaguya-hime, la principessa splendente del flessuoso bambù , la cui storia è raccontata da un monogatari del X secolo.
A noi, poco esperti di letteratura giapponese ma avidi spettatori di anime, la storia della principessa appare familiare anche grazie alla mediazione di Inuyasha: il secondo lungometraggio sul demone-cane infatti, Il castello al di là dello specchio, è ispirato proprio al Taketori monogatariIl racconto del tagliabambù. Meno familiari ci appaiono i doni dei cinque pretendenti, i cui nomi sono tradotti in maniera piuttosto diversa dai due film d'animazione (l'assurdità che balza all'occhio riguarda la Veste del Topo di Fuoco che senza ragione, o forse per una non necessaria connessione col demone-cane protagonista, nel film di Inuyasha viene attribuita appunto ad un Cane di Fuoco).
La versione firmata da Isao Takahata per lo Studio Ghibli è naturalmente non comparabile

con Il castello al di là dello specchio, e a dire il vero è comparabile con pochissimi film d'animazione per una serie di sue peculiarità che lo rendono eccezionale. Chi si aspettava, come me, i disegni puliti e fluidi tipici dello Studio Ghibli (e dello stesso Takahata, che nel suo capolavoro Una tomba per le lucciole ci offre un realismo tanto crudo da non avere omologhi nei film d'animazione mainstream) sarà rimasto molto stupito. La storia della Principessa Splendente è raffigurata con degli acquerelli rari e inaspettati, che concedono poco e nulla al dettaglio, escluse poche scene che si soffermano sulla miniatura dal vero, come la sequenza che mostra la fabbricazione delle tazze di legno o quella dedicata alla complessa preparazione delle dame giapponesi dell'epoca, tra la vestizione e il trucco che comprende l'epilazione delle sopracciglia. Le montagne, le strade, gli interni delle dimore si sciolgono in pochi tratti significativi e un delicatissimo stemperarsi dei colori. Il disegno è vago e sfumato come può esserlo un racconto orale, come può esserlo l'immaginazione nel soffermarsi sulla bellezza della protagonista lunare, contornandola di una cornice solo per non lasciarla sospesa nel foglio bianco. E questo modo di narrare che sfiora ogni cosa senza prestarvi troppa attenzione per concentrarsi solo su ciò che è importante colpisce anche i caratteri: servitrici, invitati, passanti sono poco più che abiti sormontati da capoccioni incolori. Due tagli orizzontali come occhi e una macchia scura di capelli sono il massimo che il disegnatore abbia voluto concedere alle comparse. Anche i personaggi che hanno la parola, i cinque spasimanti della principessa, la sua stessa madre adottiva sono poco più che scarabocchi caricaturali. Proprio come in un racconto orale, in cui si spende una sola parola per nominare i personaggi e ci si sofferma con ogni scusa su quanto la protagonista sia bella. Così Kaguya è deliziosa e piacevole, e semplicemente dalla maggiore definizione del viso e dei dettagli dell'abbigliamento si può costruire una gerarchia degli altri personaggi: il Mikado, che possiede un volto preciso e un mento imperiale, il tagliabambù che in preda ai sentimenti si fa spesso paonazzo, il fratellone Sutemaru che annuncia un suo importante ritorno nella chiusura del racconto semplicemente perché fin dall'inizio disegnato con più cura degli altri.
Così, il punto di forza di questo film d'animazione risiede, più che nella raffinatezza dei disegni o nella messinscena di un racconto celebre (o nel festoso Carnevale di Rio che scoppia a un certo punto, meravigliosamente stonato rispetto alla serietà del momento, a mostrare la lacerante distanza tra la gaia emozione di alcuni e la contemporanea disperazione di altri), nella soggettività della narrazione visiva. A dipendere dal punto di vista del soggetto non è la storia: non ci sono diverse versioni sostenute da diversi interessi (rimando all'inno ermeneutico di Kurosawa, Rashōmon), né c'è un'unica storia raccontata prima "frontalmente" dal protagonista, poi in modo angolato dai suoi vicini, poi di scorcio dai passanti. No, ad essere piegato all'irriducibile soggettività della visione è lo stesso discorso grafico, è la stessa forma delle cose. La scena più alta è forse quella che conclude la festa e che vede la Principessa Splendente fuggire furiosa, lacerandosi le preziose vesti, arruffandosi i capelli: a farsi brutto è perfino il cielo, le sagome intrecciate dei rami diventano scarabocchi rabbiosi, rigacce nere sostituiscono l'orizzonte, il paesaggio tutto sembra uno strofinarsi

sadico di pastelli asciutti su fogli ruvidi. La principessa è una macchia di furia e dolore, orribile, che si perde in un silenzio attonito e un buio opaco. Molti cartoni animati ci hanno abituati ai colori spenti nei momenti di tristezza, ai filtri bluastri sulle scene malinconiche, alla spaventosa anarchia degli elementi durante le scene dolorose o violente: gli esempi sono infiniti, dal cielo perennemente nuvoloso sul regno del tristo zio Scar nel Re Leone ad infiniti incendi e fortunali nei più disparati e classici cartoni Disney. Ciò cui assistiamo ne La storia della principessa splendente è tutt'altra questione. Non ci sono mostruosità climatiche o oscurità improvvise a dare il tono di giusta tristezza alle scene che lo richiedano, filtri scuri per lasciarsi improvvisamente alle spalle i gioviali balletti di un attimo prima. Non si tratta di inserire toni e oggetti che si intonino al momento (la carcassa che la pioggia trascina via quando Simba rivendica il trono e rimpiazza lo sprovveduto nonché fratricida zio Scar). Ciò che vediamo nell'ultimo film di Takahata è, per qualche minuto, la stessa soggettiva emotiva della principessa: il mondo si fa brutto intorno a lei, la bruttezza è nella sua stessa Weltanschauung, deformata dal primo impatto con le brutture dell'umanità, con il cinismo, la calunnia, la brutalità che non aveva conosciuto nel suo mondo lunare. L'alterata percezione della realtà (per così dire; l'alterata riproduzione della realtà in corrispondenza del momento buio) è radicale, investe le proporzioni, i colori e il tratto del disegno, è totale, e lascia l'impressione di recuperare una presa d'aria quando gli acquerelli leggeri riprendono il loro posto. Il disegno non è l'asettica fotografia di un paesaggio opportunamente agghindato secondo il sentimento: è la raffigurazione di una realtà che è tale esclusivamente perché vissuta da un determinato soggetto.
La storia della principessa splendente, a differenza dei maggiori classici dello Studio Ghibli, è un po' carente quanto a coinvolgimento emotivo e a caratterizzazione dei personaggi, ma non perde l'occasione per soffermarsi sulla superficialità di alcuni meccanismi sociali, sulla concezione della donna come proprietà che col matrimonio si aliena ad altro acquirente, sulla classica alternativa tra la felicità/autenticità della parca vita nei boschi rispetto all'infelicità dell'arida vita della classe alta, fatta di etichetta e forzature. Bella la rivendicazione di libertà di Kaguya, bello il suo piccolo orto custodito nel cuore del palazzo, bellissimi i disegni rari e strani. Un film poco personale ma curato ed elegante.

giovedì 9 luglio 2015

Lo strano vizio del signor Tarantino

Sergio Martino, 1971: nonostante il titolo ammiccante e la presenza di Edwige Fenech, non si parla di una commedia sexy. Lo strano vizio della signora Wardh è un piccolo capolavoro di genere. Fondato sull'assunto freudiano dell'istinto omicida insito in ognuno e inibito da società e cultura, il giallo gioca sull'ambigua identità del maniaco che commette i suoi delitti seriali a rasoiate (ambiguità che sussiste, ancor più solida e multiforme, fino a quando resta il dubbio su quale sia, precisamente, lo strano vizio della signora Wardh).
Si tratta di un prodotto di ottima fattura, anche stilistica, a cominciare dalla regia tutt'altro che scolastica. Sono particolarmente memorabili delle belle sequenze, come l'omicidio nella doccia (che sembra riprodurre l'analoga scena di Psyco, sebbene attraverso una prospettiva più dinamica) e i diversi flashback della relazione tra Julie Wardh e l'ex amante Jean, questi ultimi impreziositi dall'uso del ralenti e dalla riproduzione del motivo ricorrente del film, insieme ai forti contrasti luminosi creati da pioggia, sole e frammenti di vetro.
Lo strano vizio della signora Wardh (1971)
Lo strano vizio della signora Wardh compare tra gli avi, più o meno illustri, sempre caratteristici, del cinema di Quentin Tarantino, noto estimatore dei film italiani degli anni '70 (specie se interpretati da Edwige Fenech), per lo più di genere, dai western ai pulp, fino ai B-movie. Il vezzo tarantiniano di appropriarsi di colonne sonore altrui colpisce anche il film di Sergio Martino: il motivo ricorrente del film (Dies irae della cantante e compositrice italiana Nora Orlandi) è lo stesso che fa da sottofondo alla conversazione tra i due fratelli in Kill Bill vol. 2, nell'ambiente desertico, tra la roulotte in cui Budd vive e il locale in cui lavora, che richiama la location spagnola in cui George (il nuovo amante della signora Wardh) commette un omicidio e lo camuffa da suicidio.
Un legame attestato collega Tarantino alla Signora Wardh, come Tarantino al regista Umberto Lenzi, mentre un legame molto più tenue mi permetto di stabilire tra quest'ultimo e il film di Sergio Martino. La triangolazione che sto disegnando si basa su un gioco di richiami e assonanze, forse fortuite, di certo piacevoli da scovare.
Premetto che Umberto Lenzi è un regista manifestamente apprezzato da Tarantino: il nostro Quentin, risaputamente, nasconde nei nomi dei suoi personaggi (spesso marginali) omaggi a protagonisti del cinema del passato. Così, tornando alla Fenech, la vediamo omaggiata in Bastardi senza gloria, e precisamente nel personaggio del generale inglese Ed Fenech. Nello stesso film, tra i Basterds è accolto un ex soldato nazista diventato massacratore di altri nazisti, Hugo Stiglitz: nome e cognome sono rubati ad un attore messicano dalla filmografia sterminata, che nel 1980 interpretò il ruolo di protagonista in un film di Umberto Lenzi, Incubo sulla città contaminata.
Paranoia di Umberto Lenzi risale a dieci anni prima: vediamo una moglie e una ex moglie intente a complottare per uccidere il (rispettivamente) marito ed ex marito. Il profetico tris di donne che la vittima designata, Maurice (Jean Sorel), ottiene ai dadi, sciupa un po' qualche colpo di scena ma aggiunge pulp al pulp. Sia Paranoia sia Lo strano vizio della signora Wardh si chiudono con un topos cinematografico, quello dell'automobile che precipita da una scogliera/scarpata, finendo rispettivamente in mare e in un fiume (su strade e scenari simili a quelli su cui guida, senza problemi, Uma Thurman diretta a casa di Bill nel secondo volume). Ma soprattutto, i tre film citati hanno in comune un altro topos: quello dell'apparizione improvvisa di un personaggio creduto morto. Helen (la bionda ex moglie di Paranoia) va fatalmente fuori strada quando vede, nella propria carreggiata, Maurice, l'uomo che crede sia stato ucciso poco prima (e del cui omicidio crede di essere l'unica indiziata). Il signor Wardh e George, certi di aver ucciso la signora Wardh, vanno fuori strada quando la vedono sul ciglio e si accorgono di essere inseguiti dalla polizia e conseguentemente si danno ad una fuga precipitosa. Beatrix (Uma Thurman), che irrompe in casa di Bill arma in pugno, si trova di fronte la piccola B.B., ritenuta morta (o meglio mai nata). In tutti e tre i casi, l'apparizione del "fantasma" è seguito dalla morte di chi se lo è trovato di fronte: reale nei primi due casi, simulata nel terzo (Beatrix finge di stramazzare a terra quando la bimba le punta contro una pistola giocattolo e fa il verso dello sparo). Ma all'omicidio simulato, quello di Beatrix ad opera della figlia, segue l'omicidio reale di Bill per mano di Beatrix: in tutti e tre i film, l'apparizione del vivo-creduto-morto inghiotte il vivo, in una sorta di scambio, di sostituzione risarcitoria: il personaggio (quasi) ucciso torna dall'oltretomba per trascinarvi, al proprio posto, chi ha tentato appunto di ucciderlo e morto lo riteneva. Lo stesso Bill, ucciso da Beatrix, aveva creduto che la stessa fosse morta: lui stesso l'aveva "uccisa", sparandole un colpo in testa, e solo all'arrivo dei poliziotti nella chiesetta di El Paso la sposa aveva dato segno di essere ancora viva, benché in gravi condizioni.


Kill Bill vol. 2 (2004)

Un'altra assonanza avvicina Kill Bill e Paranoia: il tema della figlia che vendica la madre uccisa. Susan, figlia della seconda moglie di Maurice, Constance, crede che quest'ultima sia stata uccisa dallo stesso Maurice (cosa, tra l'altro, vera): così, uccide Maurice (in realtà, sappiamo, si limita a farlo credere) e fa ricadere la colpa dell'omicidio sull'ex moglie di questi, la bionda Helen che poco dopo precipiterà dalla scogliera con la sua automobile. Kill Bill è un film intero (anzi, un dittico intero) costruito sul tema della figlia che vendica la madre (Beatrix assicura alla figlioletta di Vernita Green che sarà disposta a concederle vendetta se a lei da grande brucerà ancora l'assassinio della madre; O-Ren Ishi diventa un'assassina per vendicare l'uccisione dei suoi genitori), tema che in un solo caso viene rovesciato, la madre (Beatrix/La sposa) che intende vendicare la figlia (B.B.). In realtà, il tema in questione è interamente, se non esclusivamente, mutuato da Lady Snowblood, film giapponese del 1973 (praticamente contemporaneo ai due italiani), incentrato sulle azioni di una "bambina degli inferi", ossia di una giovane cresciuta con l'unico scopo di compiere una vendetta, appunto vendicando i torti subiti dalla propria madre. Da questo stesso film Tarantino mutua la suddivisione in capitoli, la storia a fumetti (che vediamo modernizzarsi e diventare anime, nel momento di raccontare con un flashback il passato di O-Ren Ishi, la vipera mortale giapponese) e altro ancora. Ma su questo resta molto da scrivere e continuando ad aggiungere film al mio gioco di assonanze e consonanze non si finirebbe più. Continueremo un'altra volta.
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