«C’è voluta un’educazione secolare per rendere tollerabile quel grande shock che si riproduce ogni giorno: da una parte la predica continua sulla inalienabilità, libertà, grandezza e dignità della persona, sulla magnificenza e sull'autonomia della ragione, sulla bontà dell’humanitas e di quell'amore per gli uomini e di quella giustizia che non fanno distinzione; dall’altra l’umiliazione della più grande parte dell’umanità, l’irrazionalità della vita sociale, a vittoria del mercato di lavoro sull’humanitas, del profitto sull'amore per gli uomini.»
Seguendo le tappe delineate da Marcuse, cercheremo di tracciare i punti salienti della sua utopia: per Marcuse la cultura deve guardare ai bisogni dell’uomo, alle sue passioni, ai suoi sogni, e non relegare questi ideali in un mondo altro rispetto a quello materiale, economico e sociale in cui l’arte sorge. La cultura, l’arte, per Marcuse sono indissolubilmente legate alla critica e alla prassi politica: proprio perché l’arte ci prospetta un mondo diverso, in cui il bello, il vero e il bene trionfano sotto la luce della felicità, questa deve irrompere nella società per denunciarne gli aspetti ingiusti e irrazionali, per coglierne l’orrore.
«Con la filosofia aristotelica la teoria antica arriva proprio al punto in cui l’idealismo ammaina la bandiera di fronte alle contraddizioni sociali e fa di queste contraddizioni stati di cose ontologici».
Aristotele è, secondo Marcuse, il primo filosofo che opera la separazione di teoria e prassi, che porterà allo sviluppo della cultura affermativa borghese. In Platone le idee costituivano un mondo lontano dalla realtà empirica, ma allo stesso tempo, proprio per questa lontananza costituivano un primo punto di partenza critico nei confronti della realtà, e proprio in base alle idee, era possibile elaborare una prassi e un’utopia che riformasse il sistema politico vigente. In Aristotele, più “realista” rispetto a Platone, la teoria che contempla il Bello e il Bene si separa da tutte le attività che hanno come obiettivo il conseguimento dell’utile. Questo perché l’utile si consegue nel mondo materiale, e in questo mondo non tutto dipende dalle capacità dell'uomo, ma il caso gioca un ruolo fondamentale. Perseguendo l’utile, l’uomo si rende schiavo di forze esteriori, contraddittorie e prevedibili. Tale distinzione duplica sul piano teorico una distinzione sociale: la contemplazione, la teoria sono occupazioni peculiari del ceto dominante, di coloro che per vivere non hanno bisogno di provvedere ai propri bisogni materiali, perché c'è un ceto inferiore che provvede per loro.
Questa è la prima frattura tra il pensiero e le esigenze materiali dell’uomo, che sarà portata ai massimi livelli di astrazione dalla cultura borghese, che Marcuse chiama, appunto, cultura affermativa. Possiamo dare due definizioni di cultura: per cultura si può intendere l’insieme della vita sociale, che comprende ogni forma di riproduzione spirituale e materiale, considerate storicamente; oppure si può intendere esclusivamente l’insieme delle riproduzioni spirituali. In questo senso, cultura si contrappone a civiltà, come lo spirito si contrappone alla materia. La cultura affermativa borghese fa propria questa seconda definizione, contrapponendo radicalmente la produzione spirituale dell’individuo al sistema economico e sociale in cui l’individuo è inserito.
L’economia caratteristica della società borghese è quella di mercato: nel mercato abbiamo la massima astrazione delle merci e della forza lavoro, il soffocamento di tutte le differenze qualitative in virtù dell’uguaglianza data dal valore di scambio. Una volta abolite le differenze cetuali proprie del sistema feudale, la borghesia instaura un nuovo regime di “uguaglianza”: tale uguaglianza è esclusivamente formale. Si serve di nozioni universali, quale quella di “diritti dell’uomo” per chiamare a sé anche i ceti inferiori, dei quali la borghesia aveva bisogno per poter portare avanti la sua rivoluzione. Una volta instaurato il nuovo potere, la borghesia utilizza gli ideali universali ideologicamente, come schema che si sovrappone alle disuguaglianze reali, alla miseria e allo sfruttamento.
Questa l’origine dei valori universali borghesi, rispecchiamento ideologico dell’economia di mercato. Tuttavia, sembra esserci una zona franca che ha resistito alla reificazione: l’anima. L'anima è quella sostanza intermedia tra lo spirito e la materia, in cui risiedono le passioni dell'uomo: è il luogo inviolabile, inalienabile, in cui bellezza e felicità trionfano. Ma proprio per questo suo carattere di oasi nel deserto della reificazione, il concetto di anima è pericolosamente vicino all’ideologia dominante. Rinchiudendo l’esigenza di libertà, di verità, di bellezza, di felicità, in una parte recondita e ineffabile dell’essere umano, diventa luogo di rassegnazione rispetto allo stato di cose: la fatica, il lavoro, le disuguaglianze sono aspetti che riguardano la materialità, dunque necessari. L’uomo è rassegnato nel mondo materiale e sociale, ma è fiero nel mondo spirituale: ciò significa affermare che l’uomo può essere libero in un mondo di schiavi, che gode di una dignità universale e inalienabile anche nel momento in cui questa viene schiacciata e umiliata, può ambire alla felicità, ma solo se dispone se stesso ad essere felice nei termini imposti dal sistema sociale. La promessa di felicità, che un tempo apparteneva alla cultura nel suo insieme, viene relegata nell’ambito artistico, come premio di consolazione, come illusione per gli schiavi del sistema borghese. La filosofia si disinteressa degli aspetti materiali, della ricerca della felicità e di un’esistenza piena; la religione rimanda all’al di là una felicità che dovrebbe essere realizzata qui ed ora. Per la cultura borghese, i cui pilastri fondamentali sono economia di scambio e ragione strumentale, la ricerca della bellezza e della felicità al di fuori della dimensione artistica, è un atto sovversivo. L’uomo viene spinto dall’ideologia a sacrificarsi. Egli è libero, non è mai un mezzo ma sempre un fine: perciò deve decidere volontariamente di vendere la propria forza lavoro, perché il suo corpo non può essere venduto come merce. Se l’uomo vende la propria forza lavoro è probo ed integro, se vende il proprio corpo è una prostituta: questo ironico paragone fatto da Marcuse mette in evidenza le contraddizioni cui portano le astrazioni dell’ideologia borghese.
La cultura affermativa riconosce le esigenze dell’uomo ridotto a merce, sa che i suoi bisogni non vengono soddisfatti dal sistema ingiusto e repressivo, e proprio per questo, crea dei paradisi artificiali di soddisfazione, nei quali l’uomo può rifugiarsi dalle sue frustrazioni.
«L’uomo non vive di solo pane: di questa verità non ci si può affatto sbarazzare falsandone il significato, come se il nutrimento dell’anima fosse un surrogato sufficiente per il troppo poco pane.»
Con la fine dell’economia di scambio tipica del periodo liberale del capitalismo, la quale si reggeva sostanzialmente sulla libera iniziativa degli individui, si sviluppa una nuova forma di capitalismo, quella monopolistica, che presenta nuove esigenze alle quali la cultura affermativa deve rispondere. Lo sviluppo dell’economia monopolistica esige la repressione degli interessi individuali, esige una “mobilitazione totale”: la sottomissione della libertà d’impresa ai grandi cartelli industriali implica una sottomissione dell’opinione pubblica borghese ad un’unica ideologia dominante ed una cultura che esalti la collettività, l’interesse di un “popolo” piuttosto che quello dell’individuo. Da qui la nascita degli stati totalitari e l’elaborazione di una nuova cultura affermativa, che non si fonda più sulla libertà dell’individuo, ma sul sacrificio di quest'ultimo in nome del “popolo”, della “razza”, del “sangue”. La cultura degli stati totalitari, il cosiddetto “realismo eroico” è completamente diverso dall'idealismo borghese, ma si inserisce nel comune intento di creare un’ideologia che spinga gli individui all'accettazione rassegnata del sacrificio, dell’obbedienza, che spinga gli uomini alla rassegnazione. Anche in questo caso le esigenze materiali degli individui vengono completamente oppresse e sacrificate.
È possibile un superamento della dimensione affermativa della cultura?
«Dal punto di vista dell’interesse dell’ordine esistente, un superamento reale della cultura affermativa non può che apparire come utopico, perché questo superamento è al di là dell'insieme sociale con cui la cultura è stata finora unita.»
L’unica forma di inclusione degli interessi materiali nella cultura si è concretamente data nella società di massa, come mercificazione della cultura stessa e come sottomissione dei suoi ideali all’unico principio egemone, quello dell’utile. Per tali ragioni, l’idealismo borghese costituisce una fase più felice della cultura, rispetto a quella della società di massa.
Il superamento della cultura affermativa è perciò intimamente legato ad una trasformazione reale della società: soltanto quando si sarà instaurato un sistema giusto ed equo si potrà pensare alla fine della cultura affermativa, e forse, alla fine della cultura in quanto tale, almeno nella forma in cui l’abbiamo fino ad ora conosciuta.
Come ben riconosce Marcuse, tale utopia può essere identificata con il cliché del “paese della cuccagna”: il mondo come immenso paese dei balocchi in cui gli uomini non vengono puniti per aver seguito i propri istinti, per essersi dedicati al piacere. Ma meglio questo cliché che non l’ideale della felicità interiore, della fierezza individuale che si inchina al volere dei più forti; meglio il paese della cuccagna che non il terribile sogno del dominio di un popolo su tutti gli altri. Una cultura diversa, che voglia uscire dalla logica della cultura affermativa, in questo stato di cose, può solo essere utopica, infierire nel dolore degli uomini piuttosto che lenirlo. Come sosteneva Nietzsche, l’intellettuale autenticamente critico deve essere animato dalla malvagità: mostrare la crudeltà del mondo esistente è l’unica via che la cultura ha per prospettare un mondo migliore, per dare avvio ad un cambiamento della società. Non dev'essere un farmaco che ci dà assuefazione per farci tollerare un’esistenza intollerabile, ma deve, al contrario, colpirci con l’immagine della crudeltà e dell’orrore che caratterizzano un mondo fatto di ingiustizie e soprusi. Una cultura che cerca di essere critica deve toccare e far emergere il dolore che vive dentro di noi, e farci comprendere le cause storiche, sociali, materiali della sofferenza, piuttosto che prospettare la felicità in un al di là irraggiungibile, che sia il paradiso o il singolo individuo, condannandoci ad una profonda rassegnazione.
«Finché esisterà la caducità, ci sarà abbastanza lotta, cordoglio e dolore da distruggere l'immagine idillica; finché esisterà un regno della necessità, ci sarà abbastanza miseria. Anche una cultura non affermativa sarà gravata dal peso della caducità e della necessità: una danza sul vulcano, un riso triste, un gioco con la morte».
- Il presente saggio è inserito nella raccolta: Marcuse, Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, Torino, Einaudi, 1969
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