«Pionieri di terre promesse: di rione Tufolo lo zolloso, di Bernabò fittavolo ebreo.
Poi, ci si ritrova a parlare con uno di questi, un superstite solo, e le sue parole ti sorprendono perché quel non luogo, quel posto agonizzante, è il suo intimo imprescindibile luogo dell'anima: la frontiera della sua storia commuovente comunque.
In periferia gli occhi di chi ci vive sono estranei e le esigenze non comprese.
"Sugnu du' Gesù"... tanta orgogliosa appartenenza.
Ma perché?
Non c'è disagio nelle sue parole di abitante, piuttosto rimpianto per l'inaspettata malattia, unico prezzo troppo alto del riscatto.
Il prezzo, l'ennesima beffa ai danni dei poveri congeniti, ostinati sui luoghi delle loro care macerie.»
I marciapiedi unti, gli abusi edilizi, le bambine incinte, gli scantinati stantii e i sacchi di immondizia: questi sono gli elementi scenografici che accolgono i racconti di Natale G. Calabretta, ingegnere crotonese. L'occhio che li osserva e descrive, che si sofferma sulle rotonde scialbe e i muri sporchi, è quello di un urbanista capace a tratti di poesia. La Crotone raccontata da Calabretta non è quella dei «fasti magnogreci» né quella delle «epopee industriali recenti e definitivamente finite». Non è la Crotone dorata visitata dai turisti, fatta di sabbie finissime e del lungo Viale Gramsci punteggiato di palme dal sapore californiano, né la Crotone di Carlo V e della serie A.
La "Crotone nera" dei racconti è innanzitutto periferia. I Trecento Alloggi, San Francesco, Fondo Gesù, «il bronx di Via degli Albanesi» sono raccontati come quanto possa esserci di più distante dal "centro", da tutti i centri immaginabili. Sono brandelli di cemento e catrame dimenticati fuori fuoco, privi di attenzione, di cura, di interesse, di salvezza. I crotonesi che li abitano si muovono tra le pagine come ombre destinate alla nullità, a malapena esistenti, se non ai propri stessi disgraziati destini fatti di miseria, oscillanti tra la rabbia violenta e la cupa rassegnazione.
Calabretta racconta tutti i mali della periferia: dalla disoccupazione cronica allo spaccio, dalla violenza domestica alla ritorsione, dalla corruzione al senso disperato di abbandono. I primi racconti della serie, in particolare, trafiggono il lettore crotonese con il loro gusto quasi di radiografia: i fatti, ispirati alla cronaca nera recente e ai caratteri (appena mitizzati ma in buona parte rispondenti al vero) del crotonese medio, raccontano una Crotone sotterranea, una suburra oscura fatta di stupri e violenze fisiche, di delinquenza come paradossale unica possibilità di riscatto. Le storie si snocciolano tra vie che conosciamo bene (e se non le conosciamo, senz'altro potremmo pensarne di analoghe o vagamente somiglianti nelle abbandonate periferie delle nostre città: perché è vero che queste storie traggono dal loro "provincialismo", ossia dalla loro precisa connotazione geografica e storica, la loro veridicità e la propria oscena e dolorosa bellezza, ma è anche vero che la miseria e la subumanità si annidano, pur tra le diversità locali, in ogni anfratto di questa nostra società impoverita e resa deforme dalla pratica quotidiana dell'abuso, dalla logica disumana dello sfruttamento). I personaggi raccontano a turno, in prima persona, i propri squallori quotidiani: le malefatte a cui la povertà li ha spinti, le dipendenze da cui non sanno emanciparsi, gli istinti animaleschi che non vogliono domare. Ogni delitto di paese racconta dell'ignoranza becera e insieme innocente, del male come scelta obbligata, alternativo solo a un bene disperato, incapace di attecchire tra le spine. Leggiamo storie qualunque prese dall'album degli ultimi: se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo, direbbe De André. Così pare dirci anche l'autore dei racconti: non perché proponga sermoni assolutori, ma perché cerca di grattare via lo sporco per rintracciare l'umanità, la tristezza, la tensione eternamente frustrata verso il riscatto che non c'è.
Gli ultimi racconti lasciano Crotone un po' indietro, per così dire, e si fanno narrazioni più generali: scorci noir che potremmo ambientare un po' dovunque, senza che se ne perda il senso di squallore, paura, solitudine. Gli ambienti oscuri e anonimi, la gratuità della violenza fine a se stessa mi hanno ricordato le atmosfere sclaviane, da Indagatore dell'Incubo. E Calabretta «non è né vuole essere uno scrittore», ma appunto come indagatore dell'incubo reale e quotidiano, quasi come un cronista pieno di domande, si aggira tra gli anfratti di una Crotone oscura, nella quale si intrecciano e sorreggono a vicenda la borghesia dei quartieri "bene" e la malavita organizzata. Una Crotone sconfitta, che vorrebbe forse rinascere dalle sue ceneri post-industriali, depositate sui siti degli estinti stabilimenti della Montedison e della Pertusola, ombre di dignità operaia perduta, scie di malattie e degrado ambientale.
Questi racconti dal ritmo serrato si leggono con la leggerezza di un testo di intrattenimento, ma non lo sono. L'intento con cui sono stati scritti, sottolinea l'autore «è esplicitamente politico».