La protagonista non viene mai chiamata per nome: i genitori adottivi, gli amici della breve infanzia in montagna, i pretendenti, tutti i personaggi la chiamano Gemma di bambù, Principessa o Principessa Splendente. Però sappiamo che si tratta di Kaguya-hime, la principessa splendente del flessuoso bambù , la cui storia è raccontata da un monogatari del X secolo.
A noi, poco esperti di letteratura giapponese ma avidi spettatori di anime, la storia della principessa appare familiare anche grazie alla mediazione di Inuyasha: il secondo lungometraggio sul demone-cane infatti, Il castello al di là dello specchio, è ispirato proprio al Taketori monogatari, Il racconto del tagliabambù. Meno familiari ci appaiono i doni dei cinque pretendenti, i cui nomi sono tradotti in maniera piuttosto diversa dai due film d'animazione (l'assurdità che balza all'occhio riguarda la Veste del Topo di Fuoco che senza ragione, o forse per una non necessaria connessione col demone-cane protagonista, nel film di Inuyasha viene attribuita appunto ad un Cane di Fuoco).
La versione firmata da Isao Takahata per lo Studio Ghibli è naturalmente non comparabile
con Il castello al di là dello specchio, e a dire il vero è comparabile con pochissimi film d'animazione per una serie di sue peculiarità che lo rendono eccezionale. Chi si aspettava, come me, i disegni puliti e fluidi tipici dello Studio Ghibli (e dello stesso Takahata, che nel suo capolavoro Una tomba per le lucciole ci offre un realismo tanto crudo da non avere omologhi nei film d'animazione mainstream) sarà rimasto molto stupito. La storia della Principessa Splendente è raffigurata con degli acquerelli rari e inaspettati, che concedono poco e nulla al dettaglio, escluse poche scene che si soffermano sulla miniatura dal vero, come la sequenza che mostra la fabbricazione delle tazze di legno o quella dedicata alla complessa preparazione delle dame giapponesi dell'epoca, tra la vestizione e il trucco che comprende l'epilazione delle sopracciglia. Le montagne, le strade, gli interni delle dimore si sciolgono in pochi tratti significativi e un delicatissimo stemperarsi dei colori. Il disegno è vago e sfumato come può esserlo un racconto orale, come può esserlo l'immaginazione nel soffermarsi sulla bellezza della protagonista lunare, contornandola di una cornice solo per non lasciarla sospesa nel foglio bianco. E questo modo di narrare che sfiora ogni cosa senza prestarvi troppa attenzione per concentrarsi solo su ciò che è importante colpisce anche i caratteri: servitrici, invitati, passanti sono poco più che abiti sormontati da capoccioni incolori. Due tagli orizzontali come occhi e una macchia scura di capelli sono il massimo che il disegnatore abbia voluto concedere alle comparse. Anche i personaggi che hanno la parola, i cinque spasimanti della principessa, la sua stessa madre adottiva sono poco più che scarabocchi caricaturali. Proprio come in un racconto orale, in cui si spende una sola parola per nominare i personaggi e ci si sofferma con ogni scusa su quanto la protagonista sia bella. Così Kaguya è deliziosa e piacevole, e semplicemente dalla maggiore definizione del viso e dei dettagli dell'abbigliamento si può costruire una gerarchia degli altri personaggi: il Mikado, che possiede un volto preciso e un mento imperiale, il tagliabambù che in preda ai sentimenti si fa spesso paonazzo, il fratellone Sutemaru che annuncia un suo importante ritorno nella chiusura del racconto semplicemente perché fin dall'inizio disegnato con più cura degli altri.
Così, il punto di forza di questo film d'animazione risiede, più che nella raffinatezza dei disegni o nella messinscena di un racconto celebre (o nel festoso Carnevale di Rio che scoppia a un certo punto, meravigliosamente stonato rispetto alla serietà del momento, a mostrare la lacerante distanza tra la gaia emozione di alcuni e la contemporanea disperazione di altri), nella soggettività della narrazione visiva. A dipendere dal punto di vista del soggetto non è la storia: non ci sono diverse versioni sostenute da diversi interessi (rimando all'inno ermeneutico di Kurosawa, Rashōmon), né c'è un'unica storia raccontata prima "frontalmente" dal protagonista, poi in modo angolato dai suoi vicini, poi di scorcio dai passanti. No, ad essere piegato all'irriducibile soggettività della visione è lo stesso discorso grafico, è la stessa forma delle cose. La scena più alta è forse quella che conclude la festa e che vede la Principessa Splendente fuggire furiosa, lacerandosi le preziose vesti, arruffandosi i capelli: a farsi brutto è perfino il cielo, le sagome intrecciate dei rami diventano scarabocchi rabbiosi, rigacce nere sostituiscono l'orizzonte, il paesaggio tutto sembra uno strofinarsi
sadico di pastelli asciutti su fogli ruvidi. La principessa è una macchia di furia e dolore, orribile, che si perde in un silenzio attonito e un buio opaco. Molti cartoni animati ci hanno abituati ai colori spenti nei momenti di tristezza, ai filtri bluastri sulle scene malinconiche, alla spaventosa anarchia degli elementi durante le scene dolorose o violente: gli esempi sono infiniti, dal cielo perennemente nuvoloso sul regno del tristo zio Scar nel Re Leone ad infiniti incendi e fortunali nei più disparati e classici cartoni Disney. Ciò cui assistiamo ne La storia della principessa splendente è tutt'altra questione. Non ci sono mostruosità climatiche o oscurità improvvise a dare il tono di giusta tristezza alle scene che lo richiedano, filtri scuri per lasciarsi improvvisamente alle spalle i gioviali balletti di un attimo prima. Non si tratta di inserire toni e oggetti che si intonino al momento (la carcassa che la pioggia trascina via quando Simba rivendica il trono e rimpiazza lo sprovveduto nonché fratricida zio Scar). Ciò che vediamo nell'ultimo film di Takahata è, per qualche minuto, la stessa soggettiva emotiva della principessa: il mondo si fa brutto intorno a lei, la bruttezza è nella sua stessa Weltanschauung, deformata dal primo impatto con le brutture dell'umanità, con il cinismo, la calunnia, la brutalità che non aveva conosciuto nel suo mondo lunare. L'alterata percezione della realtà (per così dire; l'alterata riproduzione della realtà in corrispondenza del momento buio) è radicale, investe le proporzioni, i colori e il tratto del disegno, è totale, e lascia l'impressione di recuperare una presa d'aria quando gli acquerelli leggeri riprendono il loro posto. Il disegno non è l'asettica fotografia di un paesaggio opportunamente agghindato secondo il sentimento: è la raffigurazione di una realtà che è tale esclusivamente perché vissuta da un determinato soggetto.
La storia della principessa splendente, a differenza dei maggiori classici dello Studio Ghibli, è un po' carente quanto a coinvolgimento emotivo e a caratterizzazione dei personaggi, ma non perde l'occasione per soffermarsi sulla superficialità di alcuni meccanismi sociali, sulla concezione della donna come proprietà che col matrimonio si aliena ad altro acquirente, sulla classica alternativa tra la felicità/autenticità della parca vita nei boschi rispetto all'infelicità dell'arida vita della classe alta, fatta di etichetta e forzature. Bella la rivendicazione di libertà di Kaguya, bello il suo piccolo orto custodito nel cuore del palazzo, bellissimi i disegni rari e strani. Un film poco personale ma curato ed elegante.