Come da tradizione, vi proponiamo la lista dei migliori libri letti durante quest'anno. Un'occasione per proporvi delle letture (o riletture), una piccola pausa per meditare su quello che abbiamo letto, sul nostro percorso umano e culturale. Per riflettere su quello che abbiamo imparato, e su quelle innumerevoli cose che ancora abbiamo da imparare. Buon anno a tutti!
Pagine sull'arte, Charles Baudelaire: si tratta dell'antologia degli scritti critici di Baudelaire curata da Carlo Pellegrini nel 1920. Pensieri sparsi, ma divisi per tematica, ci presentano l'arte come lo specchio dell'individualità dell'artista. In questo senso, l'arte non può che essere fine a se stessa e assolutamente distaccata da un'idea di progresso che vada oltre la visione intimista. Un libro che permette di calarsi nella domanda, più che attuale, sull'arte e sull'artista. Può l'arte essere impegnata? Per Baudelaire probabilmente no, ma ciò non toglie che «una tal leggerezza metafisica del mondo baudelairiano vuol esprimere l'esistenza stessa» (Sartre).

Non ho mai trovato che Jhumpa Lahiri fosse una grande scrittrice, ma questo suo libro è diverso dagli altri. Mi ha turbato quanto può farlo un saggio di filosofia del linguaggio, mi ha commosso come L'analfabeta di Agota Kristof. Mi ha fatto cogliere della mia lingua, che do quotidianamente per scontata, tutta la difficoltà, la magnificenza, l'alterità.
Storie della città di Dio. Racconti e cronache romane (1950-1966), di Pasolini.
Lontane nel tempo e nel senso, accomunate dalle coordinate geografiche e dal fascino dei ritratti d'autore, ci sono la Roma di Paolo Sorrentino e quella di Pier Paolo Pasolini. La prima è una Roma inesistente, inerte, superficiale come una patina lucida e rigida stesa su un vuoto rimbombante, è bella e morta come le anatomie di marmo di Piazza Navona. La città di Dio raccontata da Pasolini, invece, è viva, e non perché a ucciderla siano stati i sessant'anni intercorsi tra un ritratto e l'altro. La Roma di Sorrentino è uccisa dal suo occhio mistificatore ed estetizzante, falsificatore, snaturalizzante al pare dell'opera di un
imbalsamatore, di un imbellettatore di mummie, dalla sua assenza di slancio sociale, dal suo ripiegamento sterile su un'interiorità egotica ed edonistica, autoassolutoria, invaghita di una bellezza virginale che è disumana e frigida. L'uomo di carne e l'uomo collettivo ne escono umiliati e offesi, dallo spazio sociale vengono ricacciati nella sfera di un intimo privo di tensione ideale e di spessore materiale («Noi abbiamo già fatto l'amore?»).
La Roma di Pasolini, che inizia a languire nel processo di omologazione culturale della società dei consumi, è invece viva, pulsante, materica, spessa. È guardata sì con l'occhio innamorato di chi proviene dalla periferia dell'Italia, di chi sente forte il fascino della millenaria stratificazione urbanistica e artistica, dell'appassionato di umanità che studia come al microscopio un universo di linguaggi, mimica e percezioni ancora nuovo e alieno. Ma è anche guardata con la lucidità dell'uomo politico, con un taglio ora da antropologo ora da poeta, con a volte una punta di invidia per quelle forme di vita radicate e spontanee, spaventose e fragili, che avevano nelle borgate romane il loro habitat naturale più caratteristico, introvabile altrove.
Un ritratto di Roma che è anche un saggio sociologico, una riflessione sulla religione e sul consumismo, sull'origine e sulla conservazione delle diseguaglianze, un affresco minuzioso di ambienti e folle, una fotografia degli anni Cinquanta e Sessanta, una dichiarazione d'amore.



Casa di bambola, Ibsen, 1879. Opera teatrale d'avanguardia nel teatro e nella letteratura borghese, in cui si mettono in scena tutte le ipocrisie e le miserie della piccola borghesia europea nei decenni a cavallo tra XIX e il XX secolo. Una donna-bambola, stereotipo della perfetta moglie e madre borghese, comincia a sentire questa etichetta sempre più estranea, fino alla scelta di abbandonare il tetto coniugale per riscattarsi come donna, come essere umano. Opera che mette in luce la mediocrità, la finzione della vita borghese, apparentemente rassicurante, ma profondamente segnata da contraddizioni e lacerazioni insanabili.

La fattoria degli animali, George Orwell (rilettura): un sempreverde della letteratura che riesce a spalancare finestre sulla questione secolare dei servi e dei padroni nella misura in cui sia possibile un rovesciamento degli uni negli altri. Gli animali della Fattoria Padronale, stanchi dei soprusi subiti, si ribellano all'uomo padrone e, alla cacciata del padrone, il signor Jones, la fattoria cambia nome (diventa la Fattoria degli Animali) e i maiali si assumono la responsabilità di stabilire i ritmi di lavoro di tutti gli animali. I profitti del lavoro vengono divisi secondo il principio "da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni", ma i maiali impongono il proprio volere fino a introdurre una nuova costituzione: "Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri". I servi sono diventati i padroni dei compagni di una volta. Il libro di Orwell era in maniera piuttosto esplicita una critica alla Rivoluzione russa, ma a noi piace leggerlo in chiave contemporanea e ci auguriamo che i servi di oggi non siano i padroni di domani.
"La contemplazione degli oggetti, l'immagine che si diparte dai sogni ch'essi suscitano, è questo, a costituire il canto: i Parnassiani, loro, prendono la cosa nell'interezza sua e la mostrano; talché mancano di mistero; privano gli spiriti della deliziosa gioia di credere che stanno creando. Nominare un oggetto equivale a sopprimere i tre quarti del godimento del poema, ch'è fatto invece della felicità di indovinare poco a poco; suggerirlo, ecco il sogno. È l'uso perfetto di questo mistero, a costituire il simbolo; evocare lentamente un oggetto per mostrare uno stato d'animo, oppure, all'inverso, scegliere un oggetto e farne sprigionare uno stato d'animo grazie ad una serie di decifrazioni" (Mallarmé)
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