Quest'anno mi ritrovo seduta qui davanti al mio pc
sottoproletario a pensare. E ciò che penso riguarda inevitabilmente il mio
futuro, così incerto da farmi star male. Per l'anno che verrà ho pochi buoni
propositi che, purtroppo, non dipendono da me. Questa volta l'impegno e la dedizione
non bastano. Forse "bastavano" all'università, quando si amalgamavano
perfettamente alla passione per ciò che stavo studiando. Oggi non basta più
neanche la passione come collante. Domattina vorrei svegliarmi con la
consapevolezza di poter contare su qualcosa che non sia né la paura di non
poter pagare l'affitto né i forse del mio contratto a tempo determinato vecchio
di circa due anni. Due anni in cui ho messo da parte una grande fetta della mia
vita per lavorare il più possibile, cercando di dimostrare competenza e
professionalità. Penso che questi due anni siano stati sufficienti per fare
presente di essere capace di entrambe. Ma non è tutto. Tentavo di dimostrare di
meritare un contratto degno di questo nome. Tentavo in tutti i modi di
smascherare, con il mio operato, il circolo vizioso di un momento storico in
cui si elimina l'articolo 18 e poi si presenta un nuovo piano di
riorganizzazione del lavoro. Jobs act. Azione sul lavoro. «Mi hanno gentilmente
spiegato che da quando lo Statuto dei lavoratori è stato abolito, indeterminato
significa soltanto che è l'azienda a decidere quando il contratto termina», ma
in fondo chi ci arriva all'indeterminato? Di certo non io, troppo ambiziosa e
ottusa per poter anche lontanamente immaginare che questo gioco di parti durerà
non più di trentasei mesi. Ce l'hanno fatta! I capitalisti ce l'hanno fatta:
hanno permesso che si vivesse per il lavoro. Viviamo per lavorare perché la
nostra capacità contrattuale non ci rende portatori di diritti, benché il
nostro lavoro sia di qualità perché misurato dal merito.
Mi sono documentata. In questa società flessibile, così come
è stata definita dal professore Luciano Gallino, il merito non è il fine, ma il
mezzo. Se sei meritevole hai tuttalpiù diritto ad un rinnovo del contratto, ma
la condizione è quella di continuare ad essere meritevole. No signori, il
merito non è quello che voi pensate. In questa società della rovescia il merito
è la resistenza al lavoro e la sottomissione al padrone. Sostenendo che
«accrescere il numero dei lavori flessibili rientrerebbe [...] negli interessi
generali della collettività», i membri di questa società non fanno altro che
obliare l'effettivo stato delle cose e, in particolar modo, che «ci sono tante
persone, giovani e meno giovani, che alla lunga vivono i contratti a termine,
le collaborazioni dette continuative ma di fatto discontinue, il lavoro
intermittente, a chiamata, on the road o semplicemente occasionale, oppure in
nero, come una ferita esistenziale, una fonte immeritata di ansia, una diminuzione
di diritti di cittadinanza che si solevano dare per scontati». Un lavoratore
flessibile può arrivare a posporre «...l'opportunità di sottoporsi a una visita
medica alla necessità di essere presente sul posto di lavoro, sperando così di
accrescere, o almeno non diminuire, la probabilità di vedersi rinnovato il
contratto che sta per scadere».
Non solo! Il lavoro flessibile ha come diretta conseguenza
quella di creare concorrenza tra i lavoratori aventi diritti e salari minimi e
lavoratori aventi diritti e salari elevati. Dalla nascita di questa
contrapposizione (di per sé assurda) al "tu sei l'ultimo arrivato, quindi
io posso e tu no" il passo purtroppo è breve. Va ad annientarsi la
solidarietà proletaria tra operai e, anzi, gli operai "senior" vanno a
delinearsi come sottopadroni: i diritti di cui godono non sono più diritti, ma
vengono vissuti e presentati all'esterno come i privilegi di una casta. Si
ribalta inevitabilmente anche il concetto di dovere: il dovere non è più
associato ad un diritto, ma diventa il pegno di una condizione, la precarietà.
È la crisi dei sindacati. Non a caso, scrive Gallino, l'avvento della società
flessibile va di pari passo con la decadenza dell'elemento aggregante della
società stessa: mentre Chiesa e sindacati perdono di valore, il tempo della
vita si dimezza progressivamente. Il tempo del lavoratore flessibile è quello
del lavoro. Non si tratta solo delle ore lavorative, ma dello stress del
post-lavoro. Le mura domestiche diventano il nido dei problemi: la mancanza di stabilità,
di tempo, di progettualità; il sentirsi messi al muro, senza via di scampo. Dal
2012 la cara Fornero ha abolito l'articolo 18, che «attribuiva al lavoratore un
diritto sacrosanto: se veniva licenziato senza giusta causa, il giudice doveva
reintegrarlo nel posto di lavoro». Eppure io ci spero ancora nell'articolo 18,
nell'indeterminato, nel merito come fine e non come mezzo. La nostra
generazione si ritrova a dover lottare per ottenere diritti che in passato i
nostri genitori hanno già ottenuto. Mi direte, forse, che erano altri tempi,
che il sindacato giocava un ruolo fondamentale nell'operare fianco a fianco con
il lavoratore, che era diversa la mentalità aziendale, che era diversa la
mentalità dei giovani. La ferita esistenziale del lavoro sta mutando la visione
del lavoro stesso: non lavorare per vivere, ma vivere per lavorare.
Per il nuovo anno ho ancora pochi piccoli propositi che non
dipendono da me, ma voglio credere ancora alla mia Italia.
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