"Ma sa che una volta io ho veduto ridere un cavallo? Sissignore, mentre il cavallo camminava. Lei ora va a guardare il muso del cavallo per vederlo ridere, e poi viene a dirmi che non l'ha visto ridere. Ma che muso! I cavalli non ridono mica col muso! Sa con che cosa ridono i cavalli, signor notaro? Con le natiche. Le assicuro che il cavallo camminando ride con le natiche, sì, alle volte, di certe cose che vede o che gli passano per il capo. Se lei vuol vederlo ridere il cavallo, gli guardi le natiche e si stia bene!"
Quando pensiamo a noi stessi, al nostro Io, abbiamo una determinata immagine di noi: il nostro corpo, con i suoi pregi e i suoi difetti, la nostra intelligenza, il nostro carattere; siamo abbastanza certi di poter dire chi siamo, per questo tendiamo a dare delle definizioni di noi stessi, proviamo a descriverci agli altri, perchè pensiamo che il nostro Io sia un "qualcosa" che si può comprendere e comunicare. Allo stesso modo, siamo convinti degli altri: quando guardiamo qualcuno, cogliamo in lui i suoi aspetti peculiari, da quelli che lo rendono per noi affascinante o interessante, a quelli che lo rendono ridicolo. Ridiamo, parliamo degli altri, non chiedendoci se gli altri vedano ciò che vediamo noi, e soprattutto non ci chiediamo cosa gli altri pensino di noi, sicuri che, in fondo, la nostra personalità sia abbastanza definita, e che gli altri colgano, in noi, ciò che noi stessi cogliamo e percepiamo. Vivendo con questa convinzione, il rapporto con se stessi e con gli altri è salvo: abbiamo dei punti di riferimento che sono i nostri, ma che proiettiamo anche sugli altri, creando, così, una comunanza d'intenti, che ci permette di dialogare, di essere un Io di fronte ad un Tu. Ma ora, proviamo ad immaginare che ad un certo punto della nostra vita, ci capiti un episodio, apparentemente insignificante, un'inezia tra le inezie della vita quotidiana, che però, comincia a far saltare alcuni punti del sistema: immaginiamo, ad esempio, di scoprire, dopo quarant'anni, di avere un difetto fisico, di cui non ci eravamo mai accorti, e che gli altri, invece, avevano sempre notato in noi, ma non ce l'avevano fatto presente, credendo che noi sapessimo di avere questo difetto. Alcuni di noi, probabilmente, ne riderebbero, riterrebbero un episodio del genere, una dimostrazione della propria mancanza di spirito d'osservazione, o addirittura, altri, se ne potrebbero compiacere, dimostrando, così, di non essere delle persone vanitose che badano solo al proprio aspetto fisico, ma di avere ben altro a cui pensare! Altri, però, potrebbero restare davvero perplessi: riconoscere un proprio difetto fisico dopo quarant'anni, per quanto insignificante, è un episodio che lascia, dentro di sè, una strana sensazione, difficile da definire; e pensare che altri abbiamo capito, percepito qualcosa di noi, prima di noi, può creare imbarazzo, forse anche risentimento. Un dubbio si può sollevare: chi sono io per gli altri? E poi, chi sono io per me stesso? E ancora, cos'è "Io", cos'è "Altri"? Se io mi vedo in un modo, e gli altri mi vedono in un altro modo, chi sbaglia? Potremmo dire che sono gli altri a sbagliarsi: ma, quando noi diamo un giudizio su qualcuno, e questo qualcuno nega di essere così, noi pensiamo forse di aver torto, o pensiamo che, in fondo, questo qualcuno non vuole riconoscere qualcosa che gli è proprio, e quindi, che noi siamo nel giusto, e che lui è nel torto? Inoltre, non tutti gli altri mi vedono allo stesso modo: chi, tra di loro, è nel giusto? Quale immagine viene fuori di questo "me stesso"? E, una volta che questo dubbio si è insinuato in me, che per me sono diventate equivalenti tutte le immagini di me stesso, compresa la mia, l'ultima domanda è: chi sono?
Questa è l'avventura di Vitangelo Moscarda, "nome brutto fino alla crudeltà", nel labirinto della propria identità: la vertigine dei suoi pensieri raggiungerà il paradosso, la follia, l'annullamento di sè. La conclusione del protagonista è che noi tutti siamo "uno, nessuno e centomila", maschere, bambole di pezza riempite di tutte le convenzioni, le ipocrisie, le illusioni che ci sono state imposte.
Tra ironia e paradosso, Pirandello apre un grande spazio di riflessione: guardare a se stessi e agli altri con lucidità dello sguardo, e cogliere il ridicolo che è in ognuno di noi. Perchè, a volte, può giovare ridere di sè e imparare a ridimensionarsi, essere un po' folli, per diventare più saggi.
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