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martedì 10 marzo 2015

Arance e Martello, Diego Bianchi

Primo film di Diego Bianchi, detto “Zoro”, noto per la sua attività televisiva (in questo periodo conduce il programma televisivo Gazebo, in onda  la domenica ed il lunedì in seconda serata su Rai3), realizzato lo scorso anno, Arance e martello costituisce un microcosmo della situazione politica italiana. Se volessimo fare una fotografia di quello che la sinistra è diventata in Italia, del rapporto tra “Popolo” e “Partito”, delle dinamiche del Partito Democratico, delle sue divisioni interne, sicuramente questo film sarebbe una fotografia nitida dello stato di cose attuale.
Il film è ambientato nel quartiere San Giovanni di Roma, in una calda giornata d’agosto. Cuore pulsante del quartiere è il mercato rionale, in cui il giornalista Diego Bianchi si reca per girare un documentario. Al mercato vi si reca anche una coppia di coniugi, Trieste e Armando, che un tempo furono militanti del Partito Comunista, e che oggi sono militanti del PD. Con figli e altri giovani militanti del partito al seguito, armati di tavolino, seggiole pieghevoli e volantini, sperano di raccogliere firme tra commercianti e passanti per porre fine una volta per tutte all'impero di Silvio Berlusconi. Non riscuoteranno molto successo. La vita del quartiere scorre tranquilla, fatta di liti tra i commercianti, di personaggi divertenti e folkloristici come il fruttivendolo specializzato in carciofi e devoto a Padre Pio, momenti di “concorrenza sleale” tra due fruttivendoli, l’uno pachistano, l’altro indiano, il primo romanista, il secondo laziale, le cui liti sono caratterizzate da una strana commistione di questioni calcistiche, persuasione dei clienti a comprare i propri prodotti piuttosto che quelli del concorrente e riflessioni sull'imperialismo inglese in India. Degne di nota le pescivendole che utilizzano come attrattiva per i clienti tabù di matrice freudiana: consapevoli che ogni cosa a questo mondo rimanda al fallo, maneggiano il pesce in modo da suscitare le più profonde fantasie erotiche degli acquirenti; per questo, i loro concorrenti dirimpettai le definiscono “mignotte”. Ad interrompere la routine, un messaggio comunicato dalla radio locale, Radio Carbonara Sushi, perché elegante e delicata, ma anche “de panza e de sostanza”: l’amministrazione locale annuncia la chiusura del mercato rionale il prossimo 15 settembre per la costruzione di un parcheggio sotterraneo. A questo punto si entra nel vivo del film: i mercanti si rivolgono a quei militanti che avevano poco prima ignorato e disprezzato, i membri della sezione decidono di mettere ai voti la linea che il partito intende seguire, i risultati delle votazioni sono incerti e oggetto di molteplici interpretazioni. Di fronte all'indecisione del partito, i mercanti decidono di occupare la sezione e di tenere con sé alcuni militanti come ostaggi; questi finiscono con il solidarizzare con la causa dei commercianti, arriva la polizia, i giornalisti, il sindaco (siamo nell' “epoca” della giunta Alemanno), arrivano i fascisti che discutono sull'ipotesi di bruciare la sede del PD, in modo da sabotare la protesta. Il tutto si conclude con l’incendio della sede, causato però da un incidente: irrompe la polizia, cominciano gli scontri, e alla fine un commerciante viene ferito. Gli ostaggi e gli scioperanti vengono arrestati,  la videocamera di Bianchi, con cui aveva filmato il documentario che lo avrebbe condotto al successo, si rompe,  e addio sogni di gloria.
Questo film è densissimo di elementi che fanno pensare, le parole sono semplici e ben ponderate, ogni scena emblematica, il significato delle cose è concreto e tangibile. Per questo sceglierò soltanto alcuni aspetti su cui soffermarmi, quelli che a mio avviso sono i più interessanti.
Potremmo cominciare delineando lo schema del film: qui Bianchi ci descrive due mondi, quello del mercato e quello del partito. I due momenti principali in cui emergere la riflessione del partito su se stesso sono quello in cui i due coniugi discutono in casa, e quello in cui viene convocata un’assemblea nella sezione per decidere del destino del mercato rionale: nella prima scena, Armando contesta a sua moglie l’utilità, la necessità di raccogliere firme per cacciare Berlusconi. Se non lo hanno fermato i processi, i continui scandali, perché dovrebbe fermarsi di fronte ad una petizione? Trieste risponde che così ha deciso il partito. Ma veramente credi che il PD sia il partito? “Fino a prova contraria, almeno qui in casa siamo comunisti”, dice suo marito. Si mette in discussione innanzitutto l’iniziativa, a dir poco ridicola, del partito, e soprattutto, si mette in discussione la filiazione diretta PCI-PD, filiazione che ha subito mutazioni genetiche abbastanza considerevoli. Nella seconda scena, quella dell’assemblea, sono diversi i punti interessanti: innanzitutto, la modalità di voto. Chi vota? Solo i militanti o tutti i presenti? Si decide che tutti i presenti, iscritti e non, possano parlare e votare. Bisogna però rispettare i “tempi europei”: ognuno può parlare solo per cinque minuti, come a Strasburgo. Un vecchio militante chiede come sia possibile render conto della complessità di una situazione in cinque minuti. Ma bisogna decidere, e decidere in fretta. Il risultato delle elezioni è emblematico: la maggioranza relativa sostiene la causa dei commercianti, ma tra schede nulle e indecisi, il risultato non può essere considerato netto e preciso. Alla fine, la compagna Trieste si recherà dai commercianti a dire che il partito “ha deciso di non decidere”. Due mondi completamente distanti, che non si comprendono: i commercianti disprezzano i militanti, e i militanti disprezzano questi zoticoni che per vent'anni hanno votato Berlusconi e leccato il culo ai padroni, guardando i comunisti come dei mostri.
Nel mercato emerge soprattutto la questione dell’integrazione: il salumiere si rifiuta di vendere ad un mercante ambulante pachistano una bibita, partono gli insulti e la lite. Gli esercenti non hanno nessun amore per la politica: vogliono che i militanti del PD che occupano spazio con questa cazzata delle firme, se ne vadano per non ostacolare il loro commercio. Ma quando si annuncia l’imminente chiusura del mercato, uno dei commercianti chiederà ad un’arancia: “Ma dov'è la politica?”, e allora tutti all'assalto della sede del PD, a chiedere ai militanti di aiutarli, se davvero vogliono “radicarsi sul territorio”.
Sembra che politica e “popolo” finché tutto va bene, finché si tira a campare, non abbiano bisogno l’uno dell’altro, si tollerano a malapena, si disprezzano. I militanti sembrano fare politica per una strana forma di egocentrismo, non hanno nessun amore per quella gente in nome della quale dicono di combattere. Sembrano dei pastori, dei predicatori che parlano da un pulpito. E dall'altro, la gente pensa che la politica sia qualcosa che sta nelle sedi dei partiti, o nei palazzi della “casta” e che non li riguardi. Non vogliono la politica, vogliono lavorare e guadagnare. Loro sono gente concreta, che non può perdere tempo in chiacchiere. Ma quando qualcosa va male, è alla politica che si rivolgono, perché capiscono che nient’altro può aiutarli: quando c’è un male che colpisce tutti, un dolore e una paura, solo nella sfera politica si può dare forma ed espressione alle proprie paure, trasformarle in azione. Soltanto nel partito, luogo fisico ed ideale, si può cercare di rivendicare i propri diritti. Se i membri del partito non sanno decidere, o non vogliono, chi ne ha bisogno deve prendersi il partito, deve impossessarsi di quei pochi strumenti che una democrazia offre per dar voce alle proprie esigenze. 
Una figura emblematica è quella del sindaco: un fascista ripulito, opportunista ed ipocrita. Quando giunge davanti alla sede occupata del PD, lo ferma uno dei ragazzini fascisti e gli dice “Io sono come te!”, mostrandogli la croce celtica. Lui rifugge il suo sguardo, imbarazzato. Ma, nel momento in cui i fascistelli armati di benzina e accendini, con il volto coperto, tentano di far saltare in aria la sede del partito, mentre i poliziotti cercano di fermarli, il sindaco li lascia passare, sostenendo che li conosce e che sono bravi ragazzi. Un riferimento per nulla velato alla strategia del terrore…
Importante è anche il ruolo dell’informazione. Ad un certo punto arriva un giornalista Rai ad occuparsi della faccenda. È un povero emarginato, il quale, per aver cercato in precedenza di descrivere con spirito lucido e critico quello che vedeva, era ormai considerato come un appestato nel suo ambiente lavorativo. Se vuole lavorare deve adeguarsi alla linea: allora, nel descrivere l’evento, comincia a porre l’accento sulla presenza di immigrati clandestini, sull'allarme terrorismo, sulla sicurezza dei cittadini. La manipolazione dell’informazione per motivi ideologici, la questione del potere nella comunicazione, è un tema che meriterebbe un approfondimento che per ragioni di spazio e tempo non posso fare.
Altro momento fondamentale del film è lo scontro finale tra gli occupanti e la polizia: la poliziotta all'inizio cerca di avere un atteggiamento moderato, cerca il dialogo con i manifestanti. Tira in ballo Pasolini, il solito Pasolini, “che avrebbe potuto tacere invece di dire cazzate! S’è pure inventato il mestiere dell’opinionista!” Esauriti gli argomenti, la polizia comincia a menare, e l’avventura dei nostri eroi (“Ma vorranno davvero essere eroi?” si chiede lo speaker di Radio Carbonara Sushi) si conclude con un duro atto di repressione.
Come potete ben vedere, i temi sono tanti e tutti molto complessi: Bianchi decide di fare una carrellata generale di quegli aspetti che caratterizzano la politica italiana, l’informazione, il rapporto tra giovani e politica, il rapporto tra "popolo" e politica. Non manca la riflessione storica, che nasce dal commento delle fotografie affisse al muro della sede del PD: da Gramsci a Togliatti, da Che Guevara a D'Alema e Bersani, da Berlinguer a Francesco Totti! Con un linguaggio semplice e ironico, con frasi schiette in dialetto romanesco, con poche battute, questo film riesce a dire molto. Questo è, secondo me, il merito fondamentale di Bianchi. Il regista ha saputo realizzare un film che può essere definito popolare nel senso positivo del termine: è un film indirizzato non ad un' elité di intellettuali e radical chic, eppure non è un film stupido e superficiale. Non è facile coniugare le due cose, perché a volte per film “popolare” si intende un film spazzatura, che ha come unico obiettivo quello di fare cassa, di ottundere le menti di chi va al cinema a “distrarsi”, quando la nostra esigenza primaria sarebbe quella di concentrarci sulle cose, di riflettere, dato che un intero apparato si muove per farci distrarre continuamente.
Ma voglio concludere con una nota polemica: non mi è piaciuta la presenza di un personaggio decisamente ingombrante e superfluo nell'economia del film, il culo femminile. Non mi è piaciuta l’inquadratura di un bellissimo fondoschiena che cammina per le vie del mercato e che poi scopriamo appartenere ad una bellissima ragazza, e perfino colta, una ricercatrice.  Che le femmine non piacciano solo a Berlusconi, ma anche ai virili compagni del Partito Democratico è una cosa che non c’era bisogno di sottolineare, perché lo sappiamo, e perché, in fondo,  non ce ne può “fregà de meno”.

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