«Ritornavano alle ventiquattro, Ciccotto lentamente, Canituccia, un po' più innanzi, spinta dall'insaziabile fame che le mordeva lo stomaco. Una volta aveva provato a rubare certe sorbe acerbe nel campo di Nicola Passaretti, ma le sorbe erano amarissime e Nicola l'aveva picchiata come una piccola ladra. Anzi, Nicola ne aveva detto a Pasqualina Zampa, che aveva anche essa battuta Canituccia. La bambina se n'era andata per campi con Ciccotto, piangendo e dicendogli: "Pasqualina m'ha battuto perché sono una ladra."»
Canituccia è una bambina di sette anni, figlia bastarda di Maria la rossa, che l'ha abbandonata per trasferirsi a Napoli o a Capua «a far vita disonesta». La piccola rimane affidata alle cure di Pasqualina Zampa, una «vecchia zitella contadina», a cui il fratello, negandole la dote, ha negato anche il sogno del matrimonio e dell'amore. Sulla piccola Canituccia, che col viso bianco e lentigginoso ricorda la madre dissoluta, Pasqualina esercita il suo potere tirannico e sfoga quel particolare livore, quell'invidia rabbiosa, che suscita in lei il pensiero delle "follie amorose" della sregolata Maria la rossa. Quando arriva la notizia della morte di quest'ultima, Canituccia la riceve senza comprendere, e resta impassibile e muta «come una stupida».
Ciccotto, legato a lei come una palla al piede, causa per lei di sofferenza e castighi, rappresenta la fatica quotidiana di Canituccia e la sua impossibilità di emanciparsi dalla propria condizione schiavile e dal suo legame con la terra. Paradossalmente, lo stesso Ciccotto finisce con l'essere considerato da Canituccia un amico, o addirittura l'unica "persona" amica su cui la piccola possa fare affidamento. A lui si confida, parlandogli ad alta voce nelle lunghe ore che i due trascorrono, da soli, sotto il sole o la pioggia. Con lui, soprattutto, Canituccia condivide inconsapevolmente una condizione di dura subumanità: sono entrambi delle bestie al servizio di Pasqualina, l'una con il proprio lavoro e la propria sottomissione, l'altro con il proprio ingrasso e il destino, un giorno, di sfamare la famiglia con la propria carne. Canituccia, che per tutta la novella è straziata dalla denutrizione e magra come il bastone di una scopa, non può saziarsi della carne di Ciccotto, suo fratello, suo compagno di miseria. Il legame stretto con il maiale, nelle avversità e nella comunanza della condizione subumana, è più forte della necessità fisiologica e disperata del cibo, più stringente del momento di festa e di condivisione con gli altri esseri umani, per cui la macellazione di Ciccotto rappresenta abbondanza e tradizionale allegria. L'autenticità di Canituccia, cresciuta bestialmente e distante anni luce dai "diritti" della persona umana, la rende più vicina alla bestia, solidale ad essa, sconvolta dalla sua uccisione, che la lascia totalmente sola, abbandonata all'arbitrio degli adulti, alla nera solitudine, a una vita priva di qualunque gioia.
Orecchio Acerbo ha pubblicato la novella di Matilde Serao in un volumetto a sé, indirizzato al pubblico infantile e giovanile digiuno di letteratura, con l'idea di stuzzicarne l'appetito. In questi tempi che prescrivono per il grande pubblico una formazione in pillole, una cultura disorganica fatta di gossip e spigolature che richiedono poco tempo e poca concentrazione, volumetti come questo rendono certo un piccolo servigio e forse riescono nel loro scopo, quello di innamorare qualche lettore frettoloso. L'amarissima storia della magrissima Canituccia è del resto adatta al pubblico infantile, scritta da Matilde Serao con il taglio asciutto e giornalistico che conosciamo, e allo stesso tempo con la doviziosa resa di ambienti e atmosfere.
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