Una faccia
dipinta di bianco, un naso rosso enorme, gli occhi e le labbra contornate da
surreali colori, vestiti sgargianti, scherzi, burle e capriole, allegria e malinconia,
riso e paura. Molteplici sono le impressioni che la visione di un clown
suggerisce. Il pagliaccio è una figura perturbante: il solo vederlo
destabilizza uno stato di quiete, la sua sola presenza mette in discussione lo
spazio circostante, che il clown irride e sfida con i suoi frenetici movimenti.
Il clown nasconde la realtà attraverso la sua rappresentazione ridicola, la
riempie di fantasmi divertenti ed inquietanti e, allo stesso tempo, rivela
qualcosa della realtà che ancora non conoscevamo. Riempie gli oblii su cui la
vita quotidiana costruisce le sue fondamenta con la macchietta e con la
fantasia, facendo emergere il rimosso.
Il
pagliaccio è un emarginato, svincolato da legami sociali, da convenzioni
religiose e culturali, escluso dai processi storici e politici di una comunità.
Il clown è una tautologia: sempre uguale a se stesso, si rifugia nella farsa,
si nutre di paranoia, solitudine e sociopatia. Eppure è capace di instaurare
con la realtà un rapporto privilegiato, proprio perché la rovescia e la
trasfigura, facendoci uscire per un attimo, con la sua finzione grottesca, dal
conformismo della vita di tutti i giorni.
Per queste
sue peculiari caratteristiche, a mio avviso, Heinrich Böll descrive la Germania
del secondo dopoguerra attraverso gli occhi di un clown alcolizzato caduto in
disgrazia. La Germania degli anni di piombo in cui non è lecito domandare né
ricordare gli orrori appena passati. Il protagonista del romanzo è l’unico che
rievoca i ricordi, che richiama in vita i fantasmi del passato, provocando con
acuta ironia tutti coloro che vogliono andare avanti e dimenticare. Tra una
capriola e una bevuta, tra una telefonata e un ricordo, il clown ricostruisce
la storia appena passata ed elabora una critica spietata della società tedesca a
lui contemporanea.
Il Grande Dittatore Charlie Chaplin, 1940 |
Hans Schnier è figlio di un grande capitalista che decide di
intraprendere il mestiere di clown. L’evento scatenante che lo spinge a mettere
in discussione l’intero mondo che lo circonda – compreso se stesso e la sua
amata arte – è l’abbandono di Maria, la sua compagna, per un cattolico di nome
Züpfner. Maria aveva vissuto con il protagonista in una relazione illegittima,
pur essendo una fervente cattolica, sempre bisognosa di respirare “aria di
cristianesimo”. Schnier non se ne capacita. Come può, una credente, essere
anche adultera? Non è forse adulterio abbandonare il compagno a cui si è
giurato amore eterno per sposarne un altro? E come può la Santa Chiesa
celebrare come legittimo un matrimonio che si fonda sull’abbandono, sull’infrazione
di un giuramento prestato? Queste riflessioni spingono il protagonista a
scandagliare il mondo cattolico nel quale Maria lo aveva trascinato, fatto di
personaggi ipocriti, di maschere di cera, di omertà e accondiscendenza. In
questo circolo si aggirano personaggi come Herbert Kalis, comandante della Hitlerjugend di Bonn, noto a scuola per la sua crudeltà e per la sua intransigente fede
politica, diventato un esempio di democrazia e tolleranza nell’ambiente cattolico
del dopoguerra. Quei ragazzi che avevano imbracciato ai tempi della guerra il Panzerfaust, fanatici della resistenza e
della difesa del Reich ad oltranza, sono diventati uomini in giacca e cravatta che
frequentano i salotti buoni, che parlano di democrazia, progresso, pace e
prosperità. Che pregano per la salvezza dell’intera umanità. E se Schnier prova
a rievocare i ricordi della guerra e le atrocità da loro commesse in passato,
questi rispondono indifferenti, con gli sguardi vuoti, come se non capissero a
cosa ci si riferisca. L’atteggiamento antagonista e provocatore del pagliaccio
mette in imbarazzo la sua compagna, la quale lo emargina dal gruppo fino ad
abbandonarlo.
Altro gruppo di indifferenti è il nucleo famigliare. La
madre di Schnier, che aveva assecondato sua figlia Henriette ad arruolarsi
nella difesa antiaerea Flak, nel dopoguerra si era dedicata ad un comitato per
l’integrazione razziale. Ogni volta che Hans cerca di ricordare la morte della
sorella, i suoi genitori cambiano argomento. Nella cinica dimenticanza di un
lutto mai elaborato, la vita della famiglia Schnier prosegue tranquilla.
Eccezion fatta per Hans, il quale viene escluso ed emarginato anche da questa
comunità.
Con il ginocchio dolorante a causa di un infortunio durante
un’esibizione, in preda all’alcol, senza un soldo, Hans passa l’ultima parte
del romanzo a fare telefonate alla ricerca disperata di un aiuto economico e
umano. Il frigo è vuoto, la bottiglia anche, le sigarette sono finite. Maria
non c’è, è solo in una casa vuota e impersonale – molto più anonima degli
alberghi in cui dormiva durante le tournée – la sua vita è a pezzi, dietro l’apparente
agio del suo appartamento, così come è a pezzi la Germania, dietro al piano
Marshall e all’ipocrita normalità piccolo borghese. La comunità si chiude
buttandolo fuori, il suo grande amore e la sua famiglia lo respingono, persino
la sua arte gli sembra ormai impraticabile. Con la faccia truccata, zoppicante,
imbraccia la chitarra e va in strada a cantare canzoni cattoliche, ridotto ad
invisibile mendicante.
«Un clown, il cui effetto principale consiste nell’immobilità della
maschera, deve mantenere il viso perfettamente mobile. Un tempo, prima di
cominciare a fare i miei esercizi, usavo tirar fuori la lingua per sentirmi
realmente vivo e presente prima di staccarmi di nuovo da me stesso. Più tardi
abbandonai questo esercizio e presi a guardarmi attentamente in viso, senza far
uso di nessun trucco e movimento, ogni giorno per almeno mezz’ora, finché alla
fine non esistevo più: dal momento che non soffro di narcisismo, spesso mi
sentivo prossimo alla pazzia. Dimenticavo semplicemente che ero io quella
faccia che vedevo nello specchio, voltavo lo specchio e quando avevo finito gli
esercizi, o quando più tardi, nel corso della giornata mi vedevo per caso allo
specchio passando, mi spaventavo: c’era un estraneo nella mia stanza da bagno,
al gabinetto; un tizio che non sapevo se fosse serio o buffo, un fantasma
pallido con il naso lungo; e allora correvo più in fretta da Maria per vedermi
nel suo viso. Da quando lei non c’è più non riesco più a fare i miei esercizi:
ho paura di diventare pazzo».
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