L’adolescente vergine che l’amica Rosa Cabarcas, vecchia
ruffiana e proprietaria di una casa di malaffare, gli procura non viene
chiamata per nome. È «la niña», un puro
corpo-merce senza identità né dignità e valore che vadano oltre la spendibilità
della sua verginità. Ha un corpo dalla femminilità acerba, lineamenti alteri,
segni inequivocabili di povertà e miseria ben visibili sotto il trucco e le
ciglia posticce. Eppure, nello squallore della stanza del bordello, il
protagonista si rende conto di non trovarsi davanti ad una puttana come le
mille altre che ha incontrato nella vita. Battezza la giovinetta Delgadina,
come la protagonista della nenia che le canticchia all’orecchio mentre dorme,
esausta dopo una giornata del suo onesto lavoro di cucitrice di bottoni.
È sorprendente, per il protagonista prima che per il
lettore, come alla tarda età di novant’anni si possa scatenare un sentimento
passionale, benché tutt’altro che sensuale, di enorme intensità, di profonda
tenerezza e devozione, di trasporto quasi adolescenziale. Per la prima volta,
il professore e giornalista pensa ad una donna, a Delgadina, a tutte le ore del
giorno. Vive la giornata in funzione del loro incontro notturno, ritrova il suo
dolce pensiero nella musica che ascolta, negli articoli di giornale che scrive
trasfonde tutta la propria tenerezza e la propria infaticabile passione,
dedicando all’amata ogni parola e ogni emozione.
Quando il protagonista è folgorato dall’eventualità che
Delgadina possa diventare una delle puttane di Rosa Cabarcas, o peggio, che lo
sia già diventata, il tenero amore è sfigurato da disprezzo e violenta gelosia.
Cieco di un’ira insensata, scagliai contro le pareti ogni cosa della camera: le lampade, la radio, il ventilatore, gli specchi, le caraffe, i bicchieri. […] Con l’accecante lucidità della collera ebbi l’ispirazione conclusiva di appiccare il fuoco alla casa, quando apparve sulla soglia la figura impassibile di Rosa Cabarcas in camicia da notte. [..]
"Dio mio!” esclamò Rosa Cabarcas. “Cosa non avrei dato io per un amore come questo!”»
Gabriel García Márquez è uno straordinario narratore
dell’amore, della sua forza devastante, del suo modo dolcissimo e tremendo di
tormentare chi ne subisce l’influsso. Se “Dell’amore
e di altri demoni” racconta a cavallo tra leggenda e fiaba la magia di un
amore imprevedibile e rapido, se “L’amore
ai tempi del colera” è la cronaca lenta e trascinante di un sentimento
capace di resistere incrollabile agli anni e alle amanti passeggere, “Memoria delle mie puttane tristi” è la
parabola dell’amore come sentimento che dà vita. È qualcosa in cui il
protagonista non credeva, qualcosa che non sperava gli sarebbe toccato in sorte
prima o poi e che non attendeva, e che a dispetto dell’età lo colpisce con
tutta la sua forza, dandogli dolci sofferenze, pungoli di gelosia, torture di
nostalgia, ma anche nuovo vigore, rinnovata passione da infondere nel lavoro,
un’inedita capacità di commuoversi, intenerirsi, emozionarsi, lasciarsi
travolgere dalle intense suggestioni che rischiava di perdersi. Dopo aver
provato l’intensità del sentimento amoroso, anche la paura della morte viene in
qualche modo ridimensionata e l’ottica con cui porsi nei confronti del resto
della vita e ogni evento cambia radicalmente. Davanti ad un presagio di morte
come davanti ad un concerto, l’atteggiamento del protagonista diventa più
emozionato e in qualche modo ottimista:
«Non morire senza aver provato la meraviglia
di scopare con amore.»
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