Ebbene sì, lo confesso: ho letto questo libro perché mi ero innamorata del film diretto da Gabriele Salvatores, proiettato nelle sale pochi mesi fa. Un film imperniato su alcuni elementi primordiali, capaci di smuovere le corde più profonde e viscerali dell’anima, di stupire e perturbare: l’amicizia e la morte, l’assassinio in nome di un codice etico, un amore impossibile, la vendetta, la tradizione, la guerra. “Educazione siberiana” è una storia (l’Einaudi la definisce “un’epopea criminale”) caratterizzata dalla semplicità e da una straordinaria vividezza, caratteristiche che non solo non sono opposte, ma si coimplicano a vicenda. Questo è vero per il libro ancora più che per il film. Le due opere, quella letteraria e quella cinematografica, sono profondamente diverse ma entrambe belle e degne di essere conosciute.
Il libro, come ho detto, è fortemente caratterizzato dalla semplicità, innanzitutto stilistica. La scelta di Nicolai Lilin (giovane di origine siberiana, nato e cresciuto in Transnistria, di madrelingua russa) di scrivere questo libro direttamente in lingua italiana è stata molto coraggiosa: da un lato, ne emerge uno stile un po’ innaturale, ma dall’altro lato non si può che provare un’immediata simpatia per lo sforzo compiuto dall’autore. Effettuare una traduzione è sempre un lavoro delicato e arduo, ma scrivere direttamente in una lingua straniera, costringere i propri pensieri ad aderire ad una struttura sintattica diversa da quella materna è una forzatura che necessariamente impoverisce i periodi, li abbrevia, semplifica concetti e descrizioni, nonostante l’evidentemente ottima conoscenza della lingua e il nutritissimo vocabolario. In ogni caso, la forzata semplicità stilistica non impoverisce il testo, ma si sposa bene con l’età del protagonista, che per buona parte del romanzo è un bambino o un ragazzino.
“Educazione siberiana” è la storia di questo piccolo protagonista, Nicolai Kolima, e della sua crescita; ma attraverso di lui, è la narrazione di una regione, la Transnistria, e della comunità di origine siberiana (gli Urka) che lì ha messo radici dopo le deportazioni dei criminali appunto siberiani sotto il regime stalinista. Attraverso gli aneddoti raccontati in prima persona da Kolima, il lettore si trova immerso in un’esposizione etnografica minuziosa, sebbene leggera, e del tutto autentica perché vissuta. L’uso delle armi, la loro collocazione in casa, i complessi rituali che ne determinano l’uso, e poi le rigide norme che regolano le interazioni sociali (tra minorenni e adulti, tra criminali di diverse caste o zone, tra criminali e sbirri, tra siberiani e “contaminati”, ossia uomini che per qualche colpa hanno perso il loro status di “criminale onesto”), la ricca tradizione dei tatuaggi: tutto è illustrato con naturalezza e autenticità, e risulta estremamente curioso e perfino esotico per un lettore italiano.
“Educazione siberiana” riproduce attraverso i ricordi di un ragazzino le tradizioni autentiche della sua terra, che già iniziavano a sfibrarsi negli anni ottanta, ai tempi dei fatti narrati, e di cui oggi non restano che strascichi contaminati da altre culture e altri modus vivendi, primo tra tutti lo stile di vita filo-statunitense, suffragato dall’avvento del consumismo post-sovietico. La comunità siberiana in cui Kolima è nato, di contro, si basa su un codice etico ricchissimo di norme e rituali, ma imperniato su valori estremamente semplici ed antichi: i siberiani sono fratelli tra loro e amici degli altri criminali che siano “onesti” (cioè che si attengano alla tradizione, senza lasciarsi influenzare, ad esempio, dallo stile di vita dei criminali europei che consente di fare soldi anche attraverso attività considerate disonorevoli, come l’estorsione, il ricatto, lo sfruttamento della prostituzione); gli individui più deboli (le donne incinte, gli anziani, i disabili, i malati di mente o “Voluti da Dio”, in quanto caratterizzati da una peculiare purezza che li rende migliori dei sani di mente) sono fortemente tutelati dai membri più sani e più forti; non si deve ostentare la propria eventuale ricchezza, ma bisogna vivere nella massima umiltà e modestia, vestendo sobriamente.
Un ragazzino cresciuto con una tale mentalità, una volta maggiorenne, resta spaesato dal confronto con la società esterna, consumistica e capitalistica, soprattutto scevra da quella gran quantità di scrupoli etici che caratterizzano la tradizione criminale siberiana:
«la gente mi sembrava cieca e sorda ai problemi degli altri e persino ai suoi stessi problemi. […] le persone alla fine rimanevano divise, senza avere niente in comune, senza provare il piacere di condividere le cose […] tutti erano pronti a giudicarti, a criticare la tua vita, ma poi loro stessi non andavano oltre le serate davanti alla televisione, la voglia di riempire il frigo con cibo buono e a poco costo, di ubriacarsi tutti insieme alle feste di famiglia, invidiare i vicini e cercare di essere a loro volta invidiati. Macchine belle, preferibilmente straniere, vestiti uguali per essere come tutti gli altri, sabato sera al bar del paese per farsi belli, bere una birra in lattina prodotta in Turchia, raccontare agli altri che tutto è a posto, che “gli affari” vanno bene, anche se sei solo un umile lavoratore sfruttato e non sei capace di vedere la vera realtà della tua vita.»
Locandina del film prodotto da Cattleya. Nei panni di nonno Kuzya, lo straordinario John Malkovich. Il ruolo di Kolima è interpretato dal giovane Arnas Fedaravicius. |
Ma la narrazione di Kolima (fortemente autobiografica) non è solo un nostalgico affresco dei tempi andati, né una buonistica presentazione della comunità criminale siberiana come un idillio di fraternità e amicizia simile al villaggio dei Puffi: al contrario, tutta la violenza che coesiste accanto alle norme etiche e alla solidarietà tra fratelli emerge nello scontro con i criminali di altre comunità o con i rappresentanti delle forze dell’ordine, invariabilmente e con disprezzo (in quanto mastini di un governo oppressivo, repressivo ed invadente) chiamati “sbirri”. Fin dalla più tenera età, Kolima fa esercizio nell’uso della picca, il coltello da usare nel corpo e corpo, e successivamente delle pistole; impara a costruire delle molotov casarecce; fa esperienza del contatto con cadaveri di morti annegati o uccisi; si trova coinvolto in risse descritte con tremenda crudezza; sperimenta il prima persona il dolore fisico, anche attraverso ferite piuttosto gravi. Non vengono risparmiati i dettagli più crudi e la lettura di alcuni passi è davvero dura, soprattutto considerata la giovane età dei personaggi. Particolarmente cruda è la narrazione dei mesi che il giovane Kolima trascorre in un carcere minorile (l’esperienza della galera è normale amministrazione nella comunità criminale, e scontare qualche pena al fresco fa parte della regolare ratio studiorum o percorso formativo dei giovani), in condizioni del tutto irrispettose della dignità umana, tra violenze e soprusi di ogni tipo.
Accanto alla semplicità e alla crudezza, un terzo ingrediente emerge dal composto “Educazione siberiana”: una vena leggera di catarsi poetica, una presa di posizione più puramente etica e lucida. Il piccolo Kolima, seppur cresciuto in un full immersion di violenza, educato alla lotta e alla vendetta, dimostra un’inclinazione riflessiva e si sorprende di scoprire che le faide di gruppo e lo spargimento di sangue non risolvono i problemi, né ripagano dei torti subiti.
«Nella mia testa giravano tante cose, un misto di ricordi e di sensazioni rauche, come se mi fossi lasciato dietro qualcosa di non finito, o di eseguito male. Era un momento triste per me, non provavo nessuna soddisfazione. Non riuscivo a smettere di pensare a quello che era accaduto a Ksjuša. Impossibile sentire la pace.
Qualche tempo dopo ne ho parlato con nonno Kuzja.
- Era giusto punirli per quello che hanno fatto, - gli ho detto, - però punendoli non abbiamo aiutato Ksjuša. Quello che mi tortura ancora è il suo dolore, contro il quale tutta la nostra giustizia è stata inutile.
Lui mi ha ascoltato attentamente, poi mi ha sorriso e mi ha detto che io dovevo ripercorrere la strada del fratello maggiore di mio nonno, e cioè andare a vivere da solo nei boschi, in mezzo alla natura, perché ero troppo umano per vivere in mezzo agli uomini.»
Chi intenda leggere questo libro spinto, come me, dall’enorme suggestione del film, si prepari a trovare tra le pagine qualcosa di profondamente diverso ma affatto meno bello. “Educazione siberiana” è un libro semplice e potente, una lettura coinvolgente e scorrevole, una finestra socchiusa su un mondo di folklore che non conoscevamo prima che Nicolai Lilin eleggesse l’Italia a sua nuova patria e la letteratura italiana a suo luogo espressivo. E dico con piacere che il nostro Paese e il suo panorama editoriale, a mio parere, hanno fatto con lui un buon acquisto.
Ciao Bulma,
RispondiEliminaquesto libro mi ha conquistata da quando ho scoperto la sua esistenza, purtroppo non ho ancora avuto modo di leggerlo perchè ne ho 5 da finire, ma appena ultimo queste letture "Educazione siberiana" non scappa.
Poi da come ne parli sembra uno spettacolo, perciò non posso proprio perdermelo.
ciao ciao
Da un punto di vista stilistico non è un vero spettacolo, e di solito do molta importanza allo stile nella valutazione di un libro... Ma... Lilin mi ha conquistato lo stesso, non so che farci! Ahah... Personalmente sono contenta di non essermelo perso!
EliminaCiao Bulma, ammetto che non mi attirava questo libro, ma da come l'hai descritto sembra molto bello: chissà, magari lo comprerò!
RispondiEliminaUn abbraccio
Prima di conoscere il film forse non avrebbe attirato neanche me... E anche a vedere il film sono stata trascinata da un caro amico a cui adesso sono molto molto moooolto grata.
EliminaAlla prossima!
mi sono incuriosita e dovrò leggere il libro che dalla recensione accurata e dettagliata già attrae.
RispondiEliminaoriginale il blog oltre che ricco di notizie"libresche" e non solo
simonetta
Beh, io l'ho trovato una lettura gradevole! Spero che per te sia altrettanto... Grazie per le tue parole e benvenuta :)
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