«Oggi ricomincio la corsa idiota. Mi alzo alle cinque di mattina, mi lavo, mi faccio la barba, mi preparo un caffé e vado, corro fino alla piazza Principale, salgo sul bus, chiudo gli occhi, e tutto l'orrore della mia vita presente mi salta al collo.»
Nato «in un villaggio senza nome, in un paese senza importanza», Tobias Horvath reputa di vivere un'infanzia felice solo perché non ne conosce di migliori: sua madre Esther è «la ladra, la mendicante, la puttana del villaggio».
Il piccolo non conosce neppure l'identità di suo padre; sua madre gli rivolge a stento la parola e non l'ha mai baciato. Unico faro è l'amica Line che, seppure «brutta e cattiva», divide con lui la merenda e le ore scolastiche.
Una svolta violenta della sua vita, porta Tobias a fuggire dal suo Paese e a crearsi una nuova identità, di operaio immigrato preda della solitudine. A riempire il vuoto lasciato da Line, rimasta nel Paese natio, sono una tigre, un pianoforte, degli uccelli.
«Incubi, nient'altro».
Tobias scrive di loro e brucia i fogli, come per esorcizzarli, mentre aspetta l'arrivo di una donna misteriosa, la sua donna, la sua vita, a cui ha dato il nome di Line.
Ma non è una donna qualunque ad arrivare un giorno: è proprio quella Line!
Un libro che si sviscera nella continua tensione tra quello che era e quello che è, dove "ieri tutto era più bello" perché non contaminato dall'orrendo irrompere dell'età matura che inchioda all'inattuabilità dei sogni.
Lo stile lapidario dell'autrice si sposa benissimo con l'inquietudine di Tobias, presentata in maniera superba attraverso un lungo flusso di coscienza che pian piano manifesta l'impossibilità di un amore e di un domani che sia disteso come l'ieri.
Gli spunti di riflessione sono molti e tutti di una bellezza rara. Da leggere e rileggere.
«Non scrivo più.»
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