«La burocratizzazione offre soprattutto la maggiore possibilità di
attuare il principio della divisione del lavoro amministrativo sulla base di
criteri puramente oggettivi, mediante l’attribuzione dei singoli compiti a
funzionari preparati in maniera specialistica, e che si qualificano di più
sempre con un maggiore esercizio. In questo caso, l’adempimento “oggettivo”
significa in primo luogo un adempimento “senza riguardo alla persona”, in base
a regole prevedibili. “Senza riguardo alla persona” è però anche la parola
d’ordine del “mercato”, ed in generale di ogni sforzo diretto a perseguire
interessi economici. La conseguente realizzazione del potere burocratico
comporta il livellamento dell’"onore" di ceto – e quindi, se non viene
contemporaneamente limitato il principio della libertà di mercato, l’universale
dominio della “situazione di classe”. […] La burocrazia nel suo pieno sviluppo
si trova anche, in senso specifico, sotto il principio della condotta sine
ira ac studio. La sua specifica
caratteristica, gradita al capitalismo, ne promuove lo sviluppo in maniera
tanto più perfetta quanto più essa si “disumanizza” – e questo vuol dire che
consegue la sua propria struttura, attribuita ad essa come virtù, che comporta
l’esclusione dell’amore e dell’odio, di ogni elemento affettivo puramente
personale, generalmente irrazionali e non calcolabili, nell’adempimento degli
affari d’ufficio .»
(Max Weber)
Il Castello fu
scritto da Kafka tra il gennaio e il settembre del 1922. È un’opera incompleta,
pubblicata postuma nel 1926 a Monaco. Con il suo stile scarno, tratteggiando i
personaggi in modo approssimativo, spingendo il lettore ad addentrarsi in un
insensato percorso fatto di lettere inviate, telefonate, incontri con
funzionari, Kafka ci narra la storia di una entità invisibile che si erge
maestosa e incomprensibile, come una grande potenza estranea, di fronte
all’individuo ridotto ad un’ombra: l’organizzazione burocratica della società.
Tutti apparteniamo al Castello, ma a volte sembra difficile crederlo
K. arriva una sera in un villaggio e, stanco per il viaggio,
cerca riparo in una modesta locanda. Appena mette piede nel locale, lo spazio
si riorganizza tutto attorno a lui: gli avventori lo guardano stupiti, l’oste
si avvicina imbarazzato per accogliere l’ospite indesiderato, le cose assumono
il loro volto più inospitale. K. si presenta, è un agrimensore assunto dal
Castello. Questa spiegazione sembra tranquillizzare l’oste, il quale gli
permette di riposare su un giaciglio improvvisato nella cucina. Il sonno dello
straniero sarà ben presto disturbato da uno scettico che non crede a questa
spiegazione. Ad un litigio segue una serie di telefonate al Castello, dai cui
funzionari K. riceve vaghe risposte affermative. Sì, c’è bisogno di un
agrimensore. K. è stanco, vuole riposare. L’indomani, si recherà al Castello
per cominciare il suo lavoro.
K. al Castello non arriverà mai. Cercherà di parlare con
diversi funzionari, lottando affannosamente per ogni singolo colloquio: ogni
piccolo passo che sembra lo avvicini al Castello – una lettera ricevuta, un
incontro con un impiegato del Castello, un’informazione ottenuta per caso – si
rivela sempre un passo apparente. In questo continuo dimenarsi per restare
sempre allo stesso punto, il protagonista esaurisce le sue forze, si annichilisce,
senza riuscire a perdere completamente la speranza di svolgere il suo lavoro. E
il Castello, quella costruzione in cima alla montagna che, appena arrivato, K.
scorge vagamente tra la nebbia, resterà sempre vago e spettrale. Distante,
sebbene decida e condizioni in ogni particolare la vita degli abitanti del villaggio.
Come dirà Olga, uno dei personaggi più consapevoli del romanzo, «Dicono che apparteniamo tutti al Castello,
che non esistono distanze da colmare, e normalmente può anche essere vero, ma
purtroppo abbiamo avuto occasione di vedere che in certi casi non lo è
affatto».
La potenza decisionale
dell’apparato. Colloquio con il sindaco
K. si accorge ben
presto che non sarà facile raggiungere il Castello. Il cammino è lungo e faticoso, il sentiero gira intorno alla montagna e sembra non arrivare mai in
cima, la popolazione è ostile, se chiede un’informazione si voltano dall’altra
parte o gli danno una risposta cortese ma non pertinente. Lo accolgono
freddamente nelle loro case e lo invitano ad uscire dopo pochi minuti.
Difficile è anche la
comunicazione con le autorità: l’amministrazione del Castello ha una struttura
complessa e gerarchica. Ci sono i signori, gli alti funzionari, che hanno dei
servi, i quali sono pure funzionari di un certo livello; ci sono diversi
uffici, ognuno dei quali svolge uno specifico compito, anche se non è ben
chiaro quali siano i compiti e gli uffici preposti. Si dice che tra una zona e
l’altra ci siano delle barriere. Gli impiegati di infimo livello non possono
avere liberamente contatti con i propri superiori. Le informazioni, gli ordini
e le direttive vengono trasmessi da un segretario a uno scrivano, dallo
scrivano al messo, poi al servo, poi ad un altro ufficio, poi ad un altro
messo. Impossibile riuscire a seguire le tappe che percorre una procedura. L’intero
processo amministrativo assume una propria forza autonoma: è l’intero sistema
che prende le decisioni, nessuno ne è pienamente responsabile o consapevole.
Questa organizzazione impersonale ed oggettiva permette al sistema di essere
pienamente efficiente. Al Castello non sfugge nulla, la macchina burocratica è
sempre ben oliata e funzionante. Tuttavia, nonostante la precisione di questo
efficiente marchingegno computazionale, possono verificarsi degli errori.
L’assunzione di K. è uno dei questi casi.
Questa è la spiegazione
che dà il sindaco, quando K. si rivolge a lui per ottenere dei chiarimenti. Da
giorni è giunto al villaggio, ha ricevuto una lettera da Klamm, alto
funzionario del Castello, ma ancora non ha ben capito quale sia il suo compito
e quando potrà svolgerlo. Ebbene, il
sindaco gli risponde che non c’è bisogno di alcun agrimensore. Molti anni
prima, un impiegato del Castello aveva
avviato una pratica per l’assunzione di un agrimensore. Sortini, un
impiegato modello, attento e meticoloso, aveva ricevuto questa pratica, e
l’aveva inviata al sindaco. Durante l’assemblea comunale c’era stata una lunga
discussione sulla necessità di questa assunzione: l’impiegato che aveva avviato
la pratica aveva premuto perché fosse assunto, ma alla fine l’assemblea aveva
stabilito che non c’era bisogno di alcun agrimensore, e aveva comunicato la
decisione al Castello. Questa comunicazione non era giunta, e la pratica era
rimasta sospesa. In questa situazione di stallo, che si verifica soltanto per i
casi insignificanti come quello di K., il sistema prende una decisione:
«Quando una questione va avanti per molto tempo, può accadere, anche
prima che le deliberazioni siano già concluse, che improvvisamente in un punto
imprevisto e più tardi non determinabile, spunti fuori una soluzione che
liquida la faccenda in modo spesso giusto, ma tuttavia arbitrario. È come se
l’apparato amministrativo non potesse più sopportare la tensione, l’eccitazione
subita da lunghi anni per colpa di quella questione, e in se stesso, senza
l’aiuto dei funzionari, abbia preso una decisione.»
Il sindaco offre a K.
un prezioso consiglio, logico quanto insensibile: prenda in considerazione l’idea
di lasciare il villaggio, signor K. Nessuno le imporrà questa decisione,
nessuno la inviterà ad andarsene, ma se non è contento della sua situazione
qui, non deve per forza restare. K. dà una risposta semplice e commovente, che
mette in risalto l’incompatibilità del sistema burocratico-amministrativo del
Castello con le esigenze della vita degli individui:
«Le faccio un elenco di alcune della ragioni che mi trattengono: i
sacrifici che ho fatto per lasciare la mia casa, il lungo e difficile viaggio,
le legittime speranze che riponevo su questa nomina, la mia totale mancanza di
mezzi, l’impossibilità, ora, di trovare al mio paese un altro lavoro equivalente,
e da ultima, ma non per importanza, la mia fidanzata che è di qui».
L’Eros all’ombra del Castello: Frieda, Olga e Amalia
Nel romanzo sono narrate diverse relazioni erotiche
attraverso le quali Kafka delinea i caratteri dei personaggi femminili. In
generale, la vita amorosa degli abitanti del villaggio, compreso K., sembra
amministrata per via indiretta dal Castello. Il ruolo sociale che si occupa
nella piccola comunità è fondamentale per la determinazione della natura delle
relazioni erotiche. Il sesso costituisce un elemento di elevazione o discesa
sociale, può aiutare alla costruzione della stima dei proprio vicini oppure
attirare su di sé il biasimo di tutta la comunità, a seconda che si abbia una
relazione con un alto funzionario o una persona di poco conto, che si ceda alle
lusinghe dei ministri del Castello o che le si rifiuti. Il sesso è una pratica
umana, di vita come tutte le altre. Anche questo va amministrato.
Frieda è la fidanzata di K. La descrizione del loro primo
incontro amoroso è l’unica, in tutto il romanzo, densa di sentimenti ed
emozioni istintive, creative, non irreggimentate. Frieda e K. si attraggono al
punto che la ragazza decide di abbandonare la sua posizione di privilegio per
proseguire la sua relazione con K. La ragazza è privilegiata perché svolge un
lavoro molto stimato alla mescita della Locanda dei Signori. Ma, soprattutto, è
stimata perché è l’amante del grande funzionario, il signore dei signori,
Klamm. Da quello che viene descritto da diversi personaggi del romanzo, oltre
che da Frieda stessa, Klamm convoca nella sua stanza, tramite ambasciata, una
donna che considera attraente e consuma un rapporto sessuale senza neanche
rivolgerle la parola. Uscite da quella camera, l’amante di turno si vede
elevarsi nella scala sociale. I ministri
del Castello sembrano quasi costretti ad avere contatto con delle donne del
villaggio per esigenze biologiche, ma le donne vengono investite di un
privilegio che permette di ottenere molti vantaggi.
Dopo la fuga di Frieda, K. cercherà di avere un colloquio
con Klamm, per affrontare la questione “da uomo a uomo”. Ma è chiaro che K. non
è un uomo per il Castello. Klamm non acconsentirà né si rifiuterà di avere
questo colloquio, ma si nasconderà dietro il rifiuto indignato di tutti gli
intermediari ai quali K. si rivolgerà per avere un’udienza. Eppure, Klamm è un’ombra
densa nella relazione tra Frieda e K.: gli aiutanti che il Castello ha inviato
a K. per i suoi “lavori di agrimensura”, cercheranno di sabotare la relazione,
finché uno dei due non riuscirà ad interromperla. L’unica volta che K. viene
convocato da un funzionario, Erlanger, è per sentirsi dire, dopo un’intera
notte passata alla Locanda dei Signori ad attendere, che Frieda deve tornare
alla Locanda, non perché a Klamm importi qualcosa, ma perché non si può correre
il rischio di turbarlo.
Figura opposta è quella di Amalia. Olga e Amalia sono
sorelle di Barnabas, uno strano messo che il Castello ha inviato a K. per
eventuali comunicazioni. In realtà, questo messo è un povero ragazzo disperato
che cerca un contatto con i funzionari per riabilitare la sua famiglia da un
grande disonore. E anche Olga cerca un contatto con il Castello, diventando la
prostituta dei servi dei funzionari. Causa del disonore fu Amalia, alcuni anni
prima dell’arrivo di K.: una sera, in occasione di una festa, un funzionario
che era stato in disparte per tutta la sera, si rianima alla vista di Amalia,
ma ovviamente dissimula l’impressione che gli ha fatto la bellezza della
ragazza. Il mattino dopo le invia, tramite messo, un biglietto pieno di
oscenità: Amalia lo strappa e getta i pezzi di carta in faccia al messo. Da
quel giorno la famiglia di calzolai perde il lavoro, i clienti, le amicizie, la
stima della comunità. Sono dei dannati, la gente rabbrividisce quando K. li
nomina. Il padre e la madre perdono il senno e la salute. Amalia si rinchiude nel
suo malinconico orgoglio. Restano Barnabas ed Olga a lottare per la riabilitazione della
famiglia. Ma è difficile. Se si riuscisse ad avere un colloquio con qualcuno del
Castello, questi potrebbe dire che la perdita dei clienti è una questione
economica, che nessuno ha ordinato ai loro amici di non frequentarli più, che
il Castello non ha mai emesso alcuna delibera né a favore né contro la loro
famiglia. Inoltre, l’offesa riguarda il funzionario o il messo? Persone probe e
integre come i funzionari non possono certo offendersi per un episodio così
insignificante. Forse bisognerebbe cercare il messo e chiedergli scusa per l’atteggiamento
scontroso della ragazza. Ma il messo non si trova, e sopravvivere, per questa
famiglia ormai decaduta, diventa sempre più difficile.
L’inafferrabilità del Potere: i mille
volti di Klamm
Klamm è l’uomo del
Castello. La sua figura di alto funzionario rispecchia fedelmente la vaghezza
dell’istituzione per cui lavora. Klamm, come il Castello, è irraggiungibile,
indifferente, la sua assenza è ingombrante e decisiva. Nella Locanda dei
Signori, Klamm ha una stanza tutta per sé, con la porta sempre chiusa a chiave.
Lo si può guardare soltanto spiando dallo spioncino. Il volto di Klamm è
indefinito, la sua persona indecifrabile. Non ha desideri né inquietudini. È l’apparato
dei suoi sottoposti, la gente del villaggio, che cerca di interpretare i
bisogni del superiore e si prodiga per soddisfarli. Klamm esercita il suo potere
con il silenzio. In un bellissimo dialogo tra K. e Olga, la ragazza riporta il
dubbio di Barnabas, che si chiede chi sia veramente Klamm. Qual è il suo vero
aspetto? Se dovesse confrontare le descrizioni fatte dagli abitanti del
villaggio con l’uomo che lui ha visto al Castello, non riuscirebbe a
sovrapporle. C’è una differenza impercettibile, un misterioso scarto tra la sua
visione e quella degli altri, tra il Klamm della Locanda e il Klamm del
Castello. Eppure, quando Barnabas descrive l’uomo che ha visto, la descrizione
corrisponde a quella a tutti nota:
«Ma dunque, Barnabas – gli dico – perché dubiti e ti tormenti?Allora,
visibilmente imbarazzato, comincia a elencare le caratteristiche del
funzionario del Castello, ma piuttosto che riferirle sembra quasi che le inventi,
e inoltre sono di così poca importanza, impossibili da ritenere affidabili:
riguardano, ad esempio, un particolare modo di accennare col capo, o soltanto
un panciotto sbottonato».
Speranza o illusione? Il dialogo con Bürgel, la strana danza dei
funzionari, l’offerta di Pepi
Le ultime scene del romanzo sono caratterizzate dalla
stanchezza del protagonista. K. è nella Locanda dei Signori, in attesa del colloquio
con Erlanger. Le palpebre si chiudono pesantemente, vorrebbe solo trovare un
angolino in cui risposare. A questa stanchezza profonda, a questo corpo pesante
che si aggira come un uno zombie per il corridoio con le camere dei funzionari,
si contrappone una certa vitalità e dinamicità del contesto. Sembra affacciarsi
una speranza, che lascia del tutto indifferente il protagonista.
K. cerca disperato un posto in cui dormire. Bussa ad una
porta, sperando che la stanza sia vuota. Ahimé, dentro c’è un funzionario, Bürgel,
che si sveglia e comincia a parlare ininterrottamente. K. si appoggia ad un
angolo del letto e ascolta questo strano discorso sospeso tra il sogno e la
veglia. Il funzionario comincia a parlare di un uomo che bussa alla porta di un funzionario, e questo decide di aiutarlo. Non perché questo rientri nelle sue
competenze o nei suoi doveri di impiegato, ma mosso da una spinta diversa, che
non ha nulla a che fare con il dovere. È un senso di empatia, di solidarietà di
un uomo che vede un altro uomo in difficoltà e vuole aiutarlo. Questo comporta forzare
la macchina burocratica, non attenersi strettamente alle procedure, prendere
una scelta autonoma e una decisione libera e responsabile. E a quel punto il funzionario smette di essere tale e diventa un’altra persona. L’impiegato
sembra alludere ad un momento eccezionale, che però può avvenire: un momento in
cui l’apparato non ha più importanza, ci sono due uomini di pari livello e
dignità tra i quali si intesse una relazione immanente, spontanea, non
condizionata da strutture esterne. Non accade mai, dice Bürgel, ma non è
neanche impossibile.
Quelle del funzionario restano parole, che K. ascolta
assonnato e senza entusiasmo. Sarà Pepi ad offrire una mano a K. Pepi è la
ragazza che aveva sostituito Frieda alla mescita, dopo che questa era scappata
con K. Con il ritorno di Frieda alla Locanda, questa sarebbe tornata al lavoro di donna delle pulizie, che svolgeva prima della sua inaspettata ascesa sociale. Pepi sente il suo destino legato a quello del protagonista:
grazie a lui aveva potuto ottenere quel lavoro prestigioso, e per causa sua ora
avrebbe dovuto rinunciarci. Pepi offre a K., rimasto ormai solo e disperato, di
rifugiarsi nella umile stanza che condivide con altre cameriere. K. non accetta
né rifiuta.
Tra l’incontro con Bürgel e quello con Pepi, c’è una scena
onirica e surreale. Si è ormai fatta l’alba, le porte delle stanze dei
funzionari si aprono e comincia una strana danza. I servi muovono un carrello
pieno di documenti lungo il corridoio e cominciano a distribuire le carte tra i vari funzionari. K. resta inerte nel corridoio ad assistere alla
scena. Nessuno sembra vederlo. I funzionari urlano da una stanza ad un’altra, i
servi corrono di qua e di là, fino a che il carrello con i documenti non si
svuota. Solo a quel punto un funzionario comincia a suonare una campanella, e
tutti gli altri, sollevati, ripetono il medesimo gesto. A quel punto, accorrono
l’oste e sua moglie, che si scusano mortificati col funzionario, prendono K.
per il braccio e gli urlano “Ma sei impazzito? Come ti viene in mente di
restare qui?”. I funzionari, che avevano fatto finta di non vedere K. per tutto
il tempo, erano rimasti nelle loro camere per non farsi vedere da lui. Quella
danza era stata fatta soltanto per evitarlo.
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